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Racconti drammatici

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L’osserva, semplicemente. Tutto ciò gli basta per stare bene. Assapora a pieno l’odore che emana il corpo della bella ragazza che ha al suo fianco:i capelli che ancora sanno di shampoo alla pesca, confuso con il profumo fruttato che ha indosso. Avverte il suo dolce respiro sulla pelle.. D’un tratto, il ritmo dei respiri diventa irregolare, a volte profondo ed altre quasi rimanendo in apnea. Il bel manager sorride, la bella testolina bionda starà sognando. Nel silenzio della camera, s’avverte il suono di un pianoforte in lontananza. Con le forti mani, percorre il corpo della bella biondina.. Le bacia dolcemente la guancia, impaurito di poter provocarle ancora dolore.. Sospira a fondo, il bel biondino, pensa a quanto.. beh.. a quanto sia contento. Anzi:contentissimo. Eppure, quella contentezza sembra voler sfociare nella più cupa delle tristezze:stanotte, una ragazza ha regalato il suo amore ad un uomo che, di questo sentimento, se ne ricorda solo lo spelling. Stanotte, una piccola stella ha regalato piacere ad una stella cometa. Proprio come quando le stelle più giovani vengono inghiottite, in tutta la loro luce, da una potente supernova:provano dolore, distrutte nella loro integrità, per regalare superficiale felicità ad un’altra, che senza scrupolo trarrà piacere dall’essersene impossessata. Stanotte.. beh.. stanotte, mr. James ha vissuto. Sente il cuore collassare su se stesso ogni quanto la piccola biondina stringe inconsciamente il suo corpo, catturata da un dolce sogno. Dunk si avvicina all’orecchio della bella. Dolcemente, quasi impercettibile, inizia a cantarle una dolce canzone. La sussurra, immedesimandosi come mai. Canta sensualmente, con gli occhi persi nel vuoto. E stranamente lucidi. Ogni tanto, il suo dolce canto viene smorzato da uno strano magone. Lascia all’immaginazione della piccola l’ultima parte del brano, e si stende su di un fianco a riflettere. Una piccola lacrima riga trasversalmente il volto del bel manager:la lascia scendere giù, senza preoccupars

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Serpico

Serpico si era trasferito in città da tre anni.
A quel tempo vedeva le difficoltà che si trovava ad affrontare come semplici incidenti di percorso, era ancora viva in lui la convinzione che la vita potesse, anzi dovesse, essere migliore di quella che aveva conosciuto: quando si è giovani non ci si rassegna alla sofferenza.
Ma il lavoro al mercato era tremendo e il capo non dissimile dai molti che aveva conosciuto al suo paese, le stesse urla, la stessa arroganza, quella meschina volontà di ricordarti ad ogni momento la tua condizione, la tua inferiorità.
Solo la sera, una volta svestita la tunica che indossava lavorando, si riappropriava di se stesso, quasi che il cambiarsi d'abito gli restituisse la sua indipendenza, la sua libertà, più semplicemente la sua anima... almeno per qualche ora.
Fu così che una notte, mentre stava seduto in riva al grande fiume, ascoltando lo scorrere lento dell'acqua, conobbe Sharib: una storia per certi versi simile alla sua, e a molte altre, egli viveva in città ormai da due anni e meglio di lui conosceva la realtà delle cose, gli raccontò del suo arrivo e dei molti lavori cambiati, e delle botte prese per la sua insolenza, due nostalgie così prossime finirono per incontrarsi.
Da allora camminarono spesso insieme pensando a come ribaltare quella situazione, a come uscire da quella prigione che volevano spacciargli come la vita,
Condivisero quei pochi bicchieri di birra che potevano permettersi, e le troppe risse che almeno quelle erano gratuite, e intanto il fiume continuava a scorrere portando con se un altro giorno di lavoro, e poi un altro e un altro ancora...
Una sera qualsiasi Serpico stava seduto in una taverna ad aspettare l'amico, e rimase sorpreso vedendolo entrare in compagnia di un uomo che non aveva mai visto prima
"Questo è Laslo" gli disse Sharib sedendosi "Ascolta quello che ti propone, potrebbe essere l'occasione che aspettavamo"
Il giorno successivo i due si licenziarono dal lavoro, non senza

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   1 commenti     di: Davide La Torre


Asylum

Respiro. Respiro pesante tra l'acciaio e l'odore di disinfettante, di quelli che danno il voltastomaco.
Un respiro, insieme ad altri mille lì dentro, densi di pensieri e di parole che non possono essere dette, di quelli che farebbero impazzire chiunque, anche un matto. Il consueto cigolio, poi la luce, che abbaglia, che per quanto tu possa tentare di allontanare, penetra anche tra le dita, disperate, che coprono gli occhi. Ma lei avanza, senza pietà, e colpisce. Ormai non porta con sé neanche più speranza. Colpisce.
Ti costringe ad abituarti a lei, ti seduce, ti forza ad alzarti, e tu la segui, cadi nel tranello, ogni singola volta, due o tre al giorno, anche quattro se va male. Tu la segui e lei fugge. Hai imparato a tacere se non sei pazzo davvero, ed il più delle volte è così, e almeno ti eviti le botte, ma le corde, quelle non perdonano mai.
Graffiano, lacerano, scavano, sembrano non averne mai abbastanza, e per quanto tu possa essere forte, per quanto tu possa tentare di resistere, le mani cedono e le lacrime affiorano perché nessuno potrebbe mai resistere ad un simile dolore. E col tempo, col tempo impari a trattenere le grida che sembrano volerti strappare fuori intenzionalmente, impari a trattenerle per risparmiarti altro dolore.
Poi rantoli nel nulla, tra quelle pareti bianche come il vuoto che riflettono i neon altrettanto bianchi, che ti pungono gli occhi come aghi e ti concedono una visione della realtà che ti circonda solo parziale, annebbiata, ma tu non vuoi chiuderli, perché ti aggrappi a quel poco che ti viene concesso. È uno sforzo terribile, costringi la mente a rielaborare ed interpretare ciò che la vista sola non è capace di definire.
Figure in movimento, vaghe ombre, muro, dolore. Buio. Ombre. Figure in movimento, muro, dolore. Buio. Una porta. E ogni giorno, ogni santo giorno in più che ti viene inflitto, ti chiedi se sarai mai pronto per quella porta.
-Anni?-
-Non ricordo. Circa quaranta.-
-Anni dall'isolamento?-
-Non r

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   0 commenti     di: Simone


Senza di te

Sono seduta sul letto, quella cornice colorata, con all’interno i nostri volti è appoggiata sulle mie gambe, su quella gonna nera, troppo corta per i miei gusti, mentre con un dito vado ad accarezzarti quel viso così allegro e spensierato, ma sotto i miei polpastrelli sento solo il liscio del vetro. Quel vetro freddo che rinchiude il tuo sguardo in una foto di 15 x 20cm. Quel vetro così simile al cuore di quell’uomo che, impugnando una pistola, ti ha sparato, solo perché i tuoi bellissimi occhi innocenti avevano visto cose che non avrebbero dovuto vedere. Ricordo l’ultima volta che mi hai parlato, l’ultima volta che mi hai sorriso, l’ultima volta che le tue labbra hanno incontrato le mie, l’ultima volta che mi hai detto “Ti amo”. Ed ora? È tutto finito. E ora? Tu non ci sei più. Ed ora? Ora sono sola. È successo tutto troppo in fretta, non dovevi lasciarmi, non ora!
Mi alzo e ripongo quella cornice sopra al comodino, prendo in mano il cuscino, lo annuso, il tuo odore mi inebria, e mi ricorda l’ultima volta che quel profumo è giunto al mio naso. Esco dalla tua camera e scendo le scale, all’ingresso la gente mi guarda, nei loro occhi vedo compassione, tenerezza, pietà. Mia madre si avvicina e mi mette un braccio al collo, la guardo, nei suoi occhi pieni di lacrime si riflettono i miei, vuoti, stanchi, ogni movimento mi sembra pesante, ogni parola inutile, ogni sguardo colmo d’odio, di disprezzo per quel mondo che mi ha portato via lui... la persona che amo! Non ho la forza per andare avanti, mi sembra di morire, sprofondare in un abisso senza fondo. Anche le lacrime si rifiutano di scendere dai miei occhi, dopo averlo fatto per 3 giorni. La gente mi stringe la mano e mi fa le condoglianze, mi conforta dicendomi che tutto si sistemerà, che tutto passerà, che sono giovane, mi viene da ridere, nessuno di loro sa cosa sto provando, nessuno! Eppure parlano, parlano e parlano, che stupide le parole, si dice che servano a spiegare tante cose,

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   9 commenti     di: Anna Bona


Marco

Quella sera Marco ululò come mai era riuscito a fare nelle innumerevoli prove in cui si era cimentato giorni prima. La luna era splendidamente tonda nei suoi confini così ben definiti nel mare di cielo blu scuro, che pareva finta. Forse anche questo fu di aiuto a Marco. Dopo il primo ululato si sentiva strano, diverso, proprio quello che voleva, che cercava. Ne seguirono altri e questa sua sensazione di diversità, di non-normalità alimentava il bisogno di continuare ad essere come un lupo. Aveva tredici anni e quella fu la prima vera occasione in cui ebbe la conferma di quello che da un po' di tempo gli frullava in testa. La normalità, per lui non doveva esistere. Lui non voleva nel modo più assoluto essere normale, vivere una vita normale, lui voleva essere diverso e quella sera ci riuscì seppur per pochi istanti. A scuola i suoi compagni parlavano sempre di calcio o di livelli superati alla playstation e tutta questa quotidiana normalità gli causava angoscia e si isolava. Ma non soffriva. Gli intervalli delle lezioni erano occasione per lui di fare cose che nessun altro avrebbe mai sognato di fare. Gli piaceva saltellare su di una sola gamba fino allo stremo, fino a quando sentiva l'acido lattico comprimere l'arto e bloccarlo. Oppure spesso sedeva sotto una grande quercia del cortile scolastico e stava lì ad osservare i compagni nei loro giochi dannatamente normali. A casa, si sentiva più libero. I suoi genitori gestivano un ristorante take-away e stavano fuori tutto il giorno. Alla sera il più delle volte erano stravolti, e con Marco passavano ben poco tempo. Non si accorgevano di avere un figlio particolare. Per loro era un ragazzo come tutti gli altri, forse con più sensibilità, ma nel complesso normale.
Il tempo passava, Marco cresceva, ma nella sua mente c'era sempre quella convinzione di appartenere ad un mondo diverso, fatto di cose assolutamente anormali per chi viveva nella normale realtà. A quindici anni ebbe la prima ragazza. Rachele

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   3 commenti     di: andrea anfossi


Mazzacane - cap. I

Montepiano. Un giovedì di metà maggio, anno 1990, ore tredici e trenta circa.
Antonio Capuana, per tutti Nino, si appresta a chiudere la biblioteca che occupa un vasto ambiente del piano terradi un edificio che ospita ai piani superiori la scuola elementare e materna. Adiacente la biblioteca vi è la palestra ginnica con annessi spogliatoio, magazzino e vano caldaia.
Nino, in compagnia dell'anziano bidello Gibbì, ha appena chiuso la porta della biblioteca e si dirige verso l'uscita generale quando un improvviso lampo, immediatamente seguito dal fragore di un tuono li fa sobbalzare. Pochi istanti dopo scatta l'interruttore della corrente elettrica mentre la pioggia inizia a cadere scrosciante. Gibbì, con l'eterna cicca incollata ad un angolo della bocca, alzando lo sguardo al cielo impreca.
"Ecco, ci risiamo! Puntuale come un orologio svizzero. Che gli costa al Padreterno di mandarla giù mezz'ora dopo? No, deve costringerci ad aspettare che passa!
"Dai, non te la prendere tanto Gibbì, dura al massimo mezz'ora" minimizza Nino.
"Bravo! Chè a te lo Stato te lo paga lo straordinario di mezz'ora?"
"Hahaha, quando si tratta di soldi, per te..."
"Ehi Nino, ma non dobbiamo ridare la corrente prima di andarcene?"
"No, meglio di no, potrebbero esserci altre scariche. Nel pomeriggio torno qui e la ridò" afferma Nino mentre Gibbì lo scruta con finto stupore.
"Perché nel pomeriggio tu torni qui? Ecco perché non ti sei ancora sposato, hehehe!"
"Gibbì, quando la smetterai di sfottere?" risponde Nino con un'occhiataccia.
"Eh, povera Italia! Come si può andare avanti così? Con tanto ben di Dio che si perde per strada, ah mani mie, mani mie! Maledetta vecchiaia, maledetta..!"
"Dai smettila una buona volta. Sono stufo dei tuoi sfottò"
Una voce femminile, giungendo dal fondo del corridoio ai piedi della scalinata che porta ai locali superiori, interrompe i due. È Stefania, giovane maestra elementare, che chiama Nino mentre Gibbì a

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   5 commenti     di: Michele Rotunno


Mia madre

Non sapevo cosa c'era che non andava, ma la mia sofferenza non aveva fine, passavo da momenti allegri a momenti cupi, beh i momenti cupi erano più lunghi, mi tormentavano, mi tenevano sveglia la notte, prigioniera durante il giorno e io non ne venivo a capo. Per fortuna una mia cara amica capì che ero cambiata, capì che qualcosa mi tormentava, e da persona più esperta della vita mi osservò per un po' di tempo, e mi consigliò di scrivere le mie sensazioni, belle e brutte e poi di rileggerle. Così feci e, dopo qualche tempo le rilessi; finalmente capì : Avevo un grande dolore nel cuore e non sapevo come elaborarlo, tenere tutto dentro non aiuta e così l'ho voluto raccontare a tutti, ora il dolore è sempre lo stesso ma mi sento più leggera, dormo la notte e le giornate non sono più la mia prigione e spero che questa mia esperienza possa servire ad altri. Il dolore non va chiuso in uno scrigno perché ci divora l'anima, diventa nostro padrone e non allenta facilmente la presa; bisogna avere il coraggio di parlarne, di sminuzzare gli angoli più dolorosi, e soprattutto di accettarlo come conseguenza inevitabile della vita stessa e così si permette all'animo nostro di aprirsi a nuove gioie.
Tutto cominciò la sera di quel terribile 18 febbraio di 6 anni fa, come al solito mi scocciavo alla grande di fare gli auguri di onomastico a mia cognata ma i rapporti di buona parentela me lo imponevano , non avevo nulla contro mia cognata, ma quella sera ero particolarmente stanca, cercavo un momento di pausa, un attimo tutto per me per raccogliere i miei pensieri e le mie speranze e mentre decidevo arrivò la terribile telefonata. Era Maria (mia sorella)
Maria : Laura... mamma ha avuto un incidente, ma non ti preoccupare la TAC pare buona ora sta a Bosco
Laura : ma come, che dici, spiegati meglio.
Maria : un camion l'ha investita, ha una ferita alla testa. Era scesa a comprare lo zucchero, (ma a casa ce ne era) forse le sigarette, lei non ricorda perch?

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   6 commenti     di: bruna lanza



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