FABULA FUNEBRE
Nel giorno d’ognissanti insieme ad un mio amico lettore
decidemmo di andare a trovare una comune amica
ammalata da qualche tempo, personaggio di tante favole
liete, lette in sere cupe e tempestose, ci recammo
così alle prime luci dell’alba alla magica stazione
delle corriere negromanti a prendere un mezzo
per recarci da lei.
Avvicinatomi timoroso sotto la pensilina della stazione
dissi un po’ impaurito all’ autista.
Scusi questa corriera conduce nel regno delle favole?
Si salga mi disse sorridendo invitandomi a salire
l’attendevamo impazienti.
Presto s’accomodi partiamo tra dieci minuti.
E quasi afferratomi con un braccio mi tirò su
nella colorata corriera.
Così intimorito contando l’ore, ascoltando il battito
del cuore tremante partiamo ordunque a trovare
la piccola fata ammalata del bosco dei sogni.
Porto con mè un sacchetto di dolci croccanti e saltimbocca
che a lei piacciono tanto, un canto d’un mattino felice,
un sogno d’un bimbo, la carezza d’una mano materna.
La corriera parte in orario giungiamo nei pressi del villaggio
delle fate quasi a mezzogiorno.
Lungo il viaggio attraversiamo il campo
dei magici fagioli e delle zucche sapienti, passiamo
poi attraverso un campo di papaveri canterini.
Ogni tanto qualche centauro ci supera
di corsa suonando un lungo corno forse annuncia
il nostro arrivo ci saluta felice nitrendo e ridendo
con la criniera al vento.
Rimango meravigliato non nascondo il mio stato d’animo
di vedere tanti esseri fantastici, personaggi d’un modo
magico creduto dai più irreale.
Il mio amico lettore esterrefatto ogni tanto mi scuote tirandomi la giacca indicandomi qualche nuova meraviglia.
Sono sconvolto e incantato anch’io, eppure son anni ormai
che vengo qui nelle paese delle fiabe.
Ogni volta c’è qualcosa di nuovo da vedere.
L’altro giorno ad un gigante gli sono caduto in
... una volta un dinosauro che si chiamava Italo, abitava in quel bellissimo territorio ai piedi di quelle alte montagne che sembravano ricoperte di panna, che più tardi sarebbero state chiamate Alpi.
Italo era solo un cucciolone, alto appena dieci metri, come un palazzo di cinque piani, e ruzzava tutto il giorno qua e là sotto gli occhi attenti delle mamma Esperia e di papà Saturnino.
Il nostro amico, come tutti i cuccioli, era un curiosone e andava a ficcare il naso da tutte le parti: era attirato soprattutto da ciò che si muoveva, bastava una piccola farfalla per farlo correre per ore in allegria.
Il mondo a quel tempo era pieno di pericoli e la mamma Esperia continuava ad avvisarlo di non dare confidenza a nessuno: dinosauri più grandi ed anche altri animali potevano mangiarselo in pochi bocconi.
Un giorno, mentre correva felice dietro ad un pettirosso, Italo sentì un profondo mugolio provenire dal folto del bosco; senza minimamente pensare alle conseguenze e dimenticando completamente le raccomandazioni di mamma Esperia, il nostro cucciolone si inoltrò nella macchia, per andare a scoprire da dove proveniva quello strano rumore. Dato che pur essendo piccino il nostro Italo era piuttosto grandicello, movendosi allegramente nel bosco rompeva alberi e cespugli e più si avvicinava al luogo di origine del mugolio, più questo si trasformava in un brontolio di allarme! Ma Italo nella sua spensieratezza non ci badava ed alla fine giunse ad una radura e lo vide, enorme, dallo sguardo truce, arrabbiatissimo, si, era proprio lui, Brontolo, il ferocissimo brontosauro da cui la mamma lo aveva messo in guardia, il mangiatore di cuccioli!
Italo si bloccò, tutte le raccomandazioni della mamma gli vennero in mente, ma era tardi, non poteva scappare.
- Cosa vuoi? - disse Brontolo,
- Ho sentito un lamento, sono venuto a vedere - rispose Italo,
- Io non mi lamento, io sono forte -
- Ma ti lamentavi.-
- No, parlavo a voce alta da solo, mentre cacciavo mi sono a
1 aprile 1999
Lo guardo sorridere mentre parla, è bello come gli attori nelle vecchie fotografie ancora in bianco e nero, lo stesso sguardo intenso, sognante che guarda lontano ma non nello spazio né nel tempo, il sorriso indefinito, più una smorfia, ma lieve.
Ripensavo a quando lo conobbi, due anni prima. Correva verso casa sua, sotto la pioggia senza ombrello, gli offrii un riparo sotto il mio, all'inizio era titubante, è sempre stato timido ho scoperto poi. In quei pochi minuti che trascorrevamo vicini, il suo volto mi si scolpiva in mente, si stampava ovunque nella mia memoria e occupava ogni mio pensiero, sentivo il desiderio di stringere la sua mano, di accarezzarne le dita.. quando si fermò. Eravamo ormai giunti nella via di casa sua, compresi avrei potuto non rivederlo mai più e mi era insopportabile l'idea di dovermi accontentare per sempre della sua immagine, anche se vivida e fresca, e l'idea che mai mi avrebbe baciato le labbra mi tormentava incessante. Al momento del saluto un'angoscia mi prese al collo, un nodo mi bloccava la gola, quasi non riuscii a parlare e salutarlo, così con timidezza travestita da coraggio lo baciai sulla guancia liscia, avrei voluto sentire il tocco morbido della sua pelle sulle labbra in eterno, ma mi scostai. Lui suonò il campanello, stavo per andarmene quando mi disse che non c'era nessuno e aveva scordato le chiavi. Fui pervaso da una gioia impetuosa che mi fece quasi esultare nel vedere il suo sguardo posato su di me come a chiedermi : "Dove andiamo ora? Dove vuoi trascorrere altro tempo con me?". Vicino alla casa c'era un un parco, da poco avevano sistemato le onde e costruito una fontana, all'ombra di un salice c'erano alcune panchine, su una di queste ci sedemmo a parlare. Mi perdevo in quegli occhi verdi e non sentii una parola di quello che disse seppure la sua voce mi appariva come una meravigliosa serie di suoni che scandivano al ritmo delle sue labbra il crescere imperioso della dolcissima passi
C’era una volta,
alle pendici di un alto monte, una paludosa valle, lugubre e sconosciuta ai raggi solari, e nonostante, persino durante l’estate, la luce del giorno non riuscisse a penetrare tra la fitta vegetazione di quel pendio, pareva fosse un luogo allegro, dove la solarità si accendeva sui volti di tutti, sebbene avvolta da una densa foschia nerastra.
Sulla vetta più alta della montagna c’era un castello settecentesco, custodito da migliaia di incantesimi ed indovinelli, che solo il consigliere più fidato del re conosceva perfettamente a memoria; si trattava appunto della residenza reale, dove vivevano il re Giacomo, la regina Elisabetta, ed i loro tre adorati figli: Anita, Carlo ed il minore Filippo.
Anche se era un luogo freddo e buio, la valle, che prendeva il nome di Giacomia, dal suo fidato re, avvolgeva i suoi abitanti di un’innata gioia, posseduta esclusivamente da quel paese.
L’unico problema che affliggeva i giacomiesi era il non poter esportare i loro prodotti, per poi importarne altri, poiché venivano definiti dai paesi vicini gente sudicia e malvagia, data la mancanza della luce e della vita nella loro cittadina.
Inoltre gli abitanti della valle vivevano di stenti, a causa della sterilità dei loro terreni, e man mano che passavano gli anni la popolazione diminuiva sempre più o si avventurava nei luoghi più ignoti all’occhio umano per cercare, anche in capo al mondo, la salvezza.
Tuttavia, a quanto si diceva tra il popolo, nessun uomo partito verso Nord s’era mai stabilizzato in una fissa dimora, il più delle volte era ritornato a Giacomia, cacciato via violentemente da tutto e da tutti.
Era una splendida giornata primaverile, le candide margherite si accingevano a sbocciare per il giardino reale, mentre le fatate rose erano già pronte a germogliare con i loro magnifici petali rossi, quando Filippo, il principino più ribelle che si fosse mai visto nel regno di Giacomia, decise con convinzione di rubare il bianco caval
IL CONIGLIO ULTERIORE
In una splendida mattinata di giugno, nascevano, in una buca tra i campi, sei leprotti.
Uno di questi, però, era troppo piccolo ed inerme rispetto agli altri.
Fu messo subito in disparte ed abbandonato al suo tragico destino.
La natura vera è istintiva e spietata. Sempre. Ne va della sopravvivenza della specie.
Nel frattempo, poco lontano, in una tana scavata, venivano alla luce quattro coniglietti selvatici. Vispi e affamati.
Tanto affamati che la madre doveva continuamente cercare erba fresca da mangiare per essere in grado di nutrirli.
Durante una di queste uscite si imbattè nel leprotto lasciato solo e preda sicura di volpi e faine.
Lo prese con sè, in bocca, delicatamente, e lo portò nella sua tana.
Nessuno se ne accorse. Per tutti era solo un coniglietto: erano cinque, non quattro. E lo nutrì come gli altri.
Passarono i mesi e la cucciolata crebbe in salute e forza. Erano cinque magnifici conigli.
Uno, in particolare, era decisamente robusto e particolarmente atletico. Correva velocissimo e saltava come un campione.
Divenne ben presto un riferimento per tutti i conigli selvatici della zona.
Conseguentemente divenne un capo indiscusso e ammirato.
Era veramente fiero di se stesso, ma non quanto la sua madre adottiva, che, ora si sentiva più al sicuro e protetta da questo stupendo animale.
Un coniglio ulteriore che metteva ordine nelle liti e criterio nelle scelte di vita del gruppo.
Pensare a quale sarebbe stata la sua sorte se fosse rimasto con le lepri svela una parte di ciò che noi chiamiamo destino.
C'era una volta un bellissimo paese chiamato Pacilia, su cui regnavano saggiamente un re e la regina, sua adorata sposa.
Si trattava di un meraviglioso reame, con immense terre ricche e fertili, per buona parte coltivate con passione da un contadino insieme ai suoi numerosi figli, parenti e amici che, in cambio di tali amorevoli cure, donava buoni frutti, assicurando sostentamento e benessere a tutti gli abitanti del regno, ciascuno a sua volta dedito al proprio lavoro.
In questo regno esisteva però un campo, molto esteso e ben curato, fitto di vegetazione e rifornito di ogni ben di Dio che non veniva coltivato a beneficio della comunità, la quale era già abbondantemente approvvigionata, ma fungeva semplicemente, per volontà dei sovrani stessi, da dimora per una grande varietà di animali, che in essa vi trovava cibo e rifugio.
Tra di essi spiccavano in gran quantità ogni tipo di uccellini, amati più di tutti dai sovrani perchè con il loro melodioso e piacevole cinguettio allietavano le giornate del re nel corso delle lunghe passeggiate, nonchè degli altri abitanti intenti ad assolvere alle proprie mansioni nei territori limitrofi.
Un triste giorno il re si ammalò e poiché necessitava di un lungo periodo di riposo e di cure fuori dal suo regno, e non volendo la regina per nessun motivo lasciarlo partire senza di lei, fu costretto a chiamare suo fratello minore affinchè lo sostituisse nel governo del suo regno.
Al contrario del re, la cui bontà era rinomata anche fuori i confini del suo regno, il fratello era un uomo dall'animo piuttosto cattivo e fin da subito fece sentire il peso del suo tirannico potere, impartendo ordini a destra e a manca, stabilendo nuove regole, imponendo e cambiando nel corso del suo regno tante di quelle cose che non sempre, nello sconvolgimento generale, anzi quasi mai, furono gradite dai suoi sudditi.
Per prima cosa chiamò il contadino e gli ordinò di tagliare tutti gli alberi del bosco, soprattutto quel
Era d' estate, caldo afoso, un piccolo barboncino aveva inseguito i suoi padroni fino all'aeroporto cittadino.
Qui perse ogni traccia; amareggiato, col cuore in gola sul rovente asfalto faceva ritorno.
Un canarino di un bel colore giallo, invece, approfittando della distrazione della sua anziana padrona nel lasciare la gabbietta aperta, prese il volo e fuggì via.
Vide questo barboncino, bianco di natura, ma così sporco da sembrar nero. Era talmente allo stremo da cadere da un lato assopendosi. Il canarino lo credette morto, e sbattendo pian pianino le sue belle alette gialle su di lui lieve si posò.
Ne sentì il polso, era ancora vivo, con la sua voce lirica alzò un Inno al Signore. Il piccolo barboncino allora aprì gli occhietti suoi profondi, credendosi già in paradiso.
Il canarino gli disse:
- Sciocchino sei ancora fra noi vivi, sono un canarino e son scappato via, ma te non posso lasciar qui mezzo morto e mezzo vivo.
Il barboncino rispose:
- Tu sei scappato, mentre io sono stato abbandonato e non ho le ali per volare fino a loro.
Il canarino:
- Veramente non ti capisco, forse non sai cos'è la libertà, andare dove ti pare e non tenere conto a nessuno.
Il barboncino:
- Come il mio destino e la mia natura è diversa dalla tua; io sono un piccolo cane, nato in una casa degli uomini, di quelli stessi che oggi mi hanno lasciato, non so chi fu la mia mamma, né il mio papà. Per tutto questo tempo ho ritenuto i miei padroni come genitori. Una buona coppia in apparenza. Sono andati in ferie chissà dove e senza scrupoli per strada mi han piantato.
Il canarino:
-Lo vedi! Noi uccelli siamo di tutt'altra pasta. La vecchietta mi teneva per il mio bel canto, in cambio di mangime da quattro soldi. Cosa pretendeva dunque! Alla prima occasione ho tagliato la corda e spiccato il volo. Assapora anche tu questo profumo di libertà!
Il barboncino:
- Ed io mi mangio il profumo della libertà! Sono abituato che ogni giorno e puntualmen
Questa sezione contiene storie e racconti su fate, orchi, giganti, streghe e altri personaggi fantastici
Le fiabe sono un tipo di racconto legato alla tradizione popolare e caratterizzata da componimenti brevi su avvenimenti e personaggi fantastici come orchi, giganti e fate. Si distinguono dalle favole per la loro componente fantastica e per l'assenza di allegoria e morale - Approfondimenti su Wikipedia