username: password: dati dimenticati?   |   crea nuovo account

Fiabe

Pagine: 1234... ultimatutte

Il pastorello Alex

Tutte le mattine il sole spuntava tra i monti di Riego, un piccolo paesino situato alle pendici del monte Lilà. Con il suo splendore, radiava sui tetti rosseggianti delle case e la luce dei suoi raggi attraversava la finestra della stanza di Alex, sfiorava i suoi occhi e gli donava un dolce risveglio.
Alex era un bambino di dieci anni, molto vivace e solare e sempre pronto ad aiutare gli altri.
Era figlio di due contadini, Joseph e July. Essi possedevano un gregge di buoi e di pecore. Tutti i giorni si alzavano di buon'ora e come gli altri abitanti del paese si recavano nei campi per raccogliere i buoni frutti. Anche il ragazzo si svegliava all'alba e prima di recarsi a scuola aiutava il padre a guidare il gregge fino al monte, tornava poi a casa giusto in tempo per gustare la buona colazione che la mamma preparava per tutti i suoi cari. Alex assaporava con delizia i biscotti appena sfornati e sorseggiava il cappuccino bollente che a lui piaceva tanto. Dopo questo buon inizio di giornata, afferrava lo zaino e andava a scuola. Ogni tanto si addormentava sul banco di scuola perchè era molto stanco. Nonostante tutto, riusciva ad apprendere tutto ciò che gli veniva insegnato con molta facilità e i suoi professori si congratulavano con lui per il buon apprendimento. Dopo le ore trascorse in classe, si avviava lungo il sentiero che lo riportava a casa. Mentre si incamminava per il viale della sua abitazione fischiettando, veniva distratto dal buon profumo di minestra che proveniva dalla cucina e si diffondeva nell'aria. Non vedeva l'ora di varcare la porta di casa, dove la sua famiglia lo attendeva per pranzare insieme.
Si riunivano intorno alla tavola e mentre la mamma serviva il pranzo, Alex scherzava con sua sorella Elisa, una bimba di appena tre anni. L'allegria che regnava in casa era così festosa da far ridere a crepapelle la loro mamma e il loro papà , a tal punto da far scivolare dai loro occhi lacrime di gioia. Alex a volte, dopo aver pranzato si

[continua a leggere...]



Tra le due barche

La primavera fiorì nel bosco incantato e gli animali si risvegliarono dal letargo. Sbocciavano i fiori e le piante si riempivano di foglie verdi.
Gli animali cercavano il cibo e sentivano nell’aria il profumo della natura, mentre il cinguettio degli uccelli faceva loro compagnia. All’alba si alzò sbadigliando il grande e grosso orso bruno Bob, capo della banda e attorno a lui c’era la lince Ren, che osservava con il suo fascino. Erano molto amici, anche se diversi, così come il piccolo ghiro Dav che giocherellava vivacemente e la perfida vipera Ena che gli altri troppo buoni perdonavano sempre.
Il piccolo scoiattolo Sazu era anche lui molto affezionato agli amici (tranne la vipera che accettava, ma non adorava per la sua arroganza) però sempre impaurito se ne stava nel suo nido dentro un buco dell’albero tranquillo e nascosto dal mondo reale.
Bob era il più vecchio di tutti, gli piaceva comandare e organizzare tutto. Dato che doveva andare a pesca per mangiare qualcosa propose a Ren, Dav ed Ena di accompagnarlo. Si avvicinarono al fiume e vi trovarono una barchetta dei pescatori che presero in prestito. Si accorsero che mancava Sazu, la scoiattolina timidina, così l’orso disse a Ena di andare a chiamarla ma lei rispose: “Quella è solo un peso, lo sai, possiamo anche farne a meno”. Chiese la stessa cosa a Dav, ma lui era un ghiro pigro e disse: “ Ha ragione Ena non ci serve. ”
Così Bob provò a sentire cosa ne pensava Ren e lei meno egoista dei compagni fece una corsa fino alla tana di Sazu per convincerla a uscire a fare un giro. La scoiattolina non era molto convinta, ma decise di seguirla. Anche se impaurita, aveva bisogno di essere riscaldata dal sole non bastavano più i delicati raggi che entravano nel buco. Salì anche lei sulla barca un po’ impaurita, gli altri la guardavano con occhi infastiditi e la giudicavano freddamente. Bob cominciò a remare, la corrente del fiume era molto forte e faceva fatica a controllare la barca, m

[continua a leggere...]

   1 commenti     di: sara zucchetti


FIABA CABALICA

La signora Carmela spalancò di colpo
gli infissi di legno della sua vecchia casa
situata nel centro storico cittadino
e strofinatosi gli occhi accecati dal sole
pensò che quella fosse una bella giornata
una di quelle in cui senti
la fortuna baciarti la fronte ed invogliarti
in mille progetti per sogni sospirati.
La signora Carmela dall'aria bonaria
tonda pienotta con un sorrisino
che la sa lunga, a conoscenza di tutti fatti
del vicinato donna pia che si reca in chiesa
quasi ogni giorno per non addolorare
con la sua mancata presenza
il buon signore di donna timorata e devota
come lei sempre và dicendo d'essere.
In paese la conoscono tutti,
le strade lì sono lisce scure e strette
per lo più portano su in collina si percorrono
a passo lento costringendoti ad ammirare
le vecchie botteghe degli artigiani
alcuni ultimi rampolli d'antiche famiglie
lavoratori di legno e fini cesellatori.
Carmela gli piace andare in giro
con la scusa di dover andare
a far la spesa, s'avventura
per le larghe piccole contrade
piene di gente che corre in fretta a lavoro
alle prese con i propri pensieri
alcuni che ragionano con se stessi
presi dai tanti problemi d'ordinario vivere.
Mercati d'ogni genere puoi trovare
in ogni angolo di via, bancarelle piene
d'ogni cosa, panni usati, oggetti antichi
accendini fatati ove il genio appare
tra la fiammella ed esaudisce ogni desiderio.
Mercati di vecchi mobili di sedie e tavoli
di legno pregiato ove si sono seduti
a pranzare onesti e nobili famiglie
di gran lignaggio, altra gente abbattuta
con gli occhi umidi di pianto
per la morte d'un loro congiunto.
Mercati di sante reliquie e di tante altre cose
meravigliose come libri scarpe fatate
con cui puoi correre a cento all'ora stando
attento però nel frenare tale corsa
si corre il rischio di consumare il tacco
o di forare la suola.
Carmela in questo mondo di vendito

[continua a leggere...]



Il barboncino e il canarino

Era d' estate, caldo afoso, un piccolo barboncino aveva inseguito i suoi padroni fino all'aeroporto cittadino.
Qui perse ogni traccia; amareggiato, col cuore in gola sul rovente asfalto faceva ritorno.
Un canarino di un bel colore giallo, invece, approfittando della distrazione della sua anziana padrona nel lasciare la gabbietta aperta, prese il volo e fuggì via.
Vide questo barboncino, bianco di natura, ma così sporco da sembrar nero. Era talmente allo stremo da cadere da un lato assopendosi. Il canarino lo credette morto, e sbattendo pian pianino le sue belle alette gialle su di lui lieve si posò.
Ne sentì il polso, era ancora vivo, con la sua voce lirica alzò un Inno al Signore. Il piccolo barboncino allora aprì gli occhietti suoi profondi, credendosi già in paradiso.

Il canarino gli disse:

- Sciocchino sei ancora fra noi vivi, sono un canarino e son scappato via, ma te non posso lasciar qui mezzo morto e mezzo vivo.

Il barboncino rispose:

- Tu sei scappato, mentre io sono stato abbandonato e non ho le ali per volare fino a loro.

Il canarino:

- Veramente non ti capisco, forse non sai cos'è la libertà, andare dove ti pare e non tenere conto a nessuno.

Il barboncino:

- Come il mio destino e la mia natura è diversa dalla tua; io sono un piccolo cane, nato in una casa degli uomini, di quelli stessi che oggi mi hanno lasciato, non so chi fu la mia mamma, né il mio papà. Per tutto questo tempo ho ritenuto i miei padroni come genitori. Una buona coppia in apparenza. Sono andati in ferie chissà dove e senza scrupoli per strada mi han piantato.

Il canarino:

-Lo vedi! Noi uccelli siamo di tutt'altra pasta. La vecchietta mi teneva per il mio bel canto, in cambio di mangime da quattro soldi. Cosa pretendeva dunque! Alla prima occasione ho tagliato la corda e spiccato il volo. Assapora anche tu questo profumo di libertà!

Il barboncino:

- Ed io mi mangio il profumo della libertà! Sono abituato che ogni giorno e puntualmen

[continua a leggere...]



La buffa storia di Rana Gisella

In mezzo ad una radura di collina c'era un piccolo stagno, alimentato dalle acque di un torrentello. Sembrava che in quel posto il tempo fosse scandito solo dall'alternarsi del giorno con la notte. Era raro sentire voci umane echeggiare per quelle vallate un po' impervie, e distanti erano pure le carrarecce. Gli animali erano i soli abitanti di quei prati, di quegli alberi, di quelle colline.
Viveva in quello stagno dalle acque melmose, punteggiate dal bianco delle ninfee, una ranocchia che si faceva chiamare Gisella.
Saltava di qua e di là dello stagno gracidando allegramente.
Tutti la conoscevano: rane, pesci e insetti.
Gisella tra le rane era una delle più chiacchierone, però era simpatica e non era pettegola, e nemmeno vanitosa. Non amava star sola Gisella, per questo si circondava di amici, cui lei si affezionava in maniera smoderata, rimanendo puntualmente delusa.
Gisella era così: appassionata, affettuosa; una romantica con il cuore in fiamme.
I suoi occhioni di ranocchia si spalancavano sul suo mondo verde e azzurro, sempre avidi di piacevoli novità.
Tom il bue venne ad abbeverarsi allo stagno quando Gisella stava saltando tra le ninfee, beandosi del loro profumo.
Era una giornata piuttosto fredda. Nel cielo le nuvole, arricciate e gonfie d'acqua, si affastellavano una sull'altra, sospinte dalle correnti fredde dei venti.
Le foglie degli alberi attorno allo stagno, agitate dal vento gelido, producevano uno strano canto un po' triste.
Solo Gisella, con il suo gracidare allegro, sembrava contrastare con il grigiore pieno di mestizia.
Tom, un bue un po' macilento e dall'aria molto triste, si era avvicinato con passo incerto allo stagno. Gisella che si era tuffata per un bagnetto rigenerante, nel saltare fuori dall'acqua quasi andò a urtare il muso del bue.
Si saranno guardati per un minuto, chi può affermarlo in quel mondo senza ore, certo si può dire che Gisella si innamorò a prima vista di Tom.
A pensarci bene a tutt'oggi Gisella s

[continua a leggere...]

   2 commenti     di: silvia leuzzi


Il canto dell'elfo

C’era una volta, nell’arco di cielo che ancora oggi guarda l’Elba, una stella luminosa. Era talmente luccicante che la regina delle stelle le aveva dato il nome di Splendente.
Si mormorava nel firmamento che il suo brillare dipendesse dal fatto che fosse innamorata. Anche durante le ore del giorno, quando la luce del sole nascondeva ogni astro, Splendente fissava lo sguardo sull’Elba verso una chiazza verde al centro dell’isola. Proprio in quel punto, viveva l’ultimo degli elfi. Splendente con l’ espressione sognante lo osservava per ore quasi stregata dal suo canto melodioso e dalla sua gioia di vivere. L’ultimo elfo le pareva felice perché non faceva altro che saltellare e cantare tutto il giorno. Viveva da solo ormai da dieci anni e quando sua madre dovette lasciarlo lo fece a malincuore, sapendolo l’ultimo della specie, perché senza speranza, ma era stato un miracolo tanto inaspettato che non poterono fare a meno di chiamarlo Dono. Il padre di Dono era svanito, non nel senso di distratto, era proprio scomparso e a sua madre non rimase altro che seguirlo. Questo è il destino degli elfi e delle fate che si uniscono: per sempre!
Dono era cresciuto ascoltando le storie dei vecchi elfi tra ruscelli e prati in fiore e guardando nei loro occhi la bellezza trascorsa nei boschi.
I saggi, gli avevano insegnato ad ascoltare il canto dell’Elba al risveglio e raccontato della danza dei giovani elfi e delle giovani fate in amore. Gli dissero del suono del vento e del bisbigliare degli alberi prima della pioggia, del profumo del mare portato dagli uccelli e della gioia respirata tra i raggi del sole. A volte gli elfi scendevano a valle a spiare la vita degli uomini, così che al loro ritorno ci si raccoglieva a rivelare le nuove scoperte. Una volta videro gli uomini lanciare palle colorate addosso ad un pallino, pareva che la cosa li divertisse molto, non capirono bene il nome del gioco: mocce, gocce, docce, bocce, rocce, ma vollero provare co

[continua a leggere...]



Altra volpe altra uva

Una volpe, non riuscendo ad afferrare dei grappoli d'uva pendenti da un pergolato, dopo vari tentativi, s'arrese all'evidenza della sua incapacità.
"Robaccia acerba", sogghignò fra sè e sè, per ingannare furbescamente la fame del suo stomaco, e saggiamente se n'andò in cerca d'altro cibo a lei più facile da trovare.
Così, anche fra gli uomini, mascherare nelle circostanze non favorevoli l'incapacità del loro intento, è cosa saggia ricorrere all'ironia




Pagine: 1234... ultimatutte



Cerca tra le opere

FiabeQuesta sezione contiene storie e racconti su fate, orchi, giganti, streghe e altri personaggi fantastici

Le fiabe sono un tipo di racconto legato alla tradizione popolare e caratterizzata da componimenti brevi su avvenimenti e personaggi fantastici come orchi, giganti e fate. Si distinguono dalle favole per la loro componente fantastica e per l'assenza di allegoria e morale - Approfondimenti su Wikipedia