Mentre si dirigeva in bagno, vide una striscia rossa provenire da sotto la porta. La ragazza tremava e respirava a fatica. Non sapeva cosa fare, e decise di aprire. La finestra era spalancata.
Poi il suo sguardo si fissò sull'immagine del corpo di Marta riverso a terra, col cranio fratturato. Il pavimento era stracolmo di sangue. Avanzò ulteriormente, ma le mancò il fiato per gridare. Sgranò gli occhi e d'istinto le si fiondò vicino, si mise sulle ginocchia e l'attirò a sé, macchiandosi di sangue capelli e indumenti.
Poi udì una voce provenire dal fondo del corridoio.
"Leslie, Marta tesoro, dove siete?"
"A... aiuto. Ti prego..." sillabò.
Non riusciva a parlare. Era come se la gola le si fosse seccata d'un tratto e la voce fosse scomparsa.
La madre di Marta le stava chiamando. Quando arrivò sul ciglio della porta, cominciò ad urlare, e il grido le venne fuori dalla bocca come un suono stridulo e fastidioso.
Mi svegliai di soprassalto nel letto. Sudavo freddo e avevo difficoltà a respirare. Mi guardai in giro e mi assicurai del posto in cui mi trovavo. Feci mente locale pensando: "Sono Leslie Portato, ho trentacinque anni, sono nell'anno 2016, abito in Liguria, lavoro all'ufficio postale del paese."
Quando mi bastò per rendermi conto di essere al presente, socchiusi gli occhi e deglutii. Avevo ancora quegli incubi, non se n'erano andati, neanche dopo quindici anni. Probabilmente non se ne sarebbero mai andati.
Mi alzai e guardai il display del cellulare: erano le tre del mattino.
Andai in cucina e recuperai un bicchiere d'acqua. Poi mi chinai sul lavabo e mi tamponai la fronte e le gote. Dal bagno recuperai un panno e mi asciugai la vita e il collo sudati.
Infine mi rimisi nel letto cercando di riprendere sonno ed essere pronta per affrontare un viaggio che il giorno seguente mi avrebbe ricondotta, una seconda volta, nel mio incubo personale.
Chiusi gli occhi nel tentativo di pensare ad altro, ma l'unica cosa che riuscii a focalizzare, fu
Cittá italiana del centro-Nord, palazzone in fintovetro grigiotopo, solo le nuvole plumbee hanno il coraggio di specchiarsi, mentre alberelli spellacchiati adornano il parcheggio sottostante.
Al primo piano, frontestrada, abita una professoressa di statistica quasi cinquantenne:magra, dinoccoluta, eterna single moltoimpegnata, molteamiche, moltipub. Flirta in modo altezzoso col professore di bioinorganica, abitante al terzo piano dello stesso stabile. È stata lei a procurargli il loft in affitto, e se lo lavora molto bene, giorno dopo giorno. Alle nove, in previsione, hanno la prima cenetta d'iniziazione al sesso, similulata da discussione accademica, con musiche new age scelte apposta.
Per ingannar l'attesa, verso le sette di sera, batte incessantemente sulla tastiera, impegnata a finire la relazione per il capo, da presentare l'indomani. Deve concludere in tempo per le otto, é in ritardo allucinante, rilegge e riscrive piú volte, copiaincolla da tabelle e vari calcoli.
Improvviso: un rumore sordo dal balcone dello studio, come di sacco di patate con dentro un gatto. La smilza scatta all'impiedi, si ferma, ascolta di nuovo, annusa l'aria come leonessa in cerca di preda. Si dirige alla portafinestra, la apre e lo vede: la giacca marrone, in effetti, a prima vista, potrebbe sembrare un sacco, ma é pura lana vergine, e dentro c'é un tizio. Un tizio con la barba, non molto alto ma pesante. "Si:proprio pesante", pensa la dottoressa, mentre l'afferra per i calzoni,"Chiunque tu sia, non sei invitato a cena, e io non ho bisogno di polizia intorno, ho lavorato mesi a quest'incontro, se ti sposto davanti alla finestra dei Malaguti-Stolfi, forse ti troverá la filippina".
E fu cosí, che quel sacco di uomo immobile, si ritrovó nel bel mezzo del balcone della cucina di un notaio altolocato, in odore di elezioni politiche, con filippina, maggiordomo d'ordinanza e moglie grassoccia ed ingioiellata.
Stava per accendersi il suo buon toscano davanti al
Giocatori 5.
Roberto, Ivan, Andrea, Lorenzo, Cesare.
Casa: garage di Andrea.
Tavolino verde, con panno da casinò.
Luce soffusa, proveniente da una lampadina 15Watt.
Bottiglia di Bourbon lato sinistro del tavolo.
5 mini bicchieri pieni fino all’orlo.
3 pacchetti di sigarette, un solo posacenere.
Freddo.
Carta più alta inizia.
Cesare Donna, Lorenzo8, Ivan9, Roberto Asso di fiori, Andrea Re.
Tocca a te Roberto,
No, interviene Andrea tocca a me, l’asso vale uno.
Non iniziamo eh, l’asso è il maggiore.
OK!!!
Andrea mescola, passa il mazzo a Cesare che taglia e si beve in un unico sorso la prima dose di bourbon.
Inizia la distribuzione da sinistra.
Quattro bicchierini vuoti e due sigarette sul posacenere.
Fuori, intanto nevica.
1, 2, 3, 4, 5 carte a testa.
Cesare spilla lentamente, Lorenzo lascia le carte sul tavolo, Ivan guarda solo la prima, Roberto le guarda tutte insieme, Andrea ne guarda quattro lasciando l’ultima sul tavolo.
Cesare: asso di cuori, re di picche, asso di fiori, asso di quadri, …bicchierino pieno, vuotato…primo spicchio di carta, colore nero…lentamente…asso!!!
Apro, 25 euro.
Ci sto, ci sto, ci sto, +25.
4OK.
Carte: servito, una, una, una, servito.
Cesare: parola,
Lorenzo +50, +50, +50, +100.
Cesare: Ok 250+100
Cinque vedo.
Tocca te Cesare.
No io ho detto parola, tocca Lorenzo.
No tocca a te, chi apre è il primo a giocare.
Va beh, POKER d’assi
Sulla tavola 4 bellissimi bambini 2 neri e 2 rossi ed il sorriso di Cesare.
Otto occhi spalancati, stupiti
Allora cosa avete:
POKER D’ASSI, POKER D’ASSI, POKER D’ASSI, POKER D’ASSI.
Qualcuno ha barato!!!
Io sono Dio.
Ho vistro. Ho visto oltre le ideologie, le menzogne, il sistema, la politica, le consuetudini, il codice morale, l'amore e l'odio, il bene e il male.
Ho navigato oltre i confini dell'essere, ho visto cosa si nasconde dietro la nebbia, dietro il buio, dietro l'ignoto, dietro quel muro costruito, mattone dopo mattone, nei secoli dei secoli, sull'autoconservazione.
Perchè io sono Dio.
Io non ho carne.
Ho spirito.
Perchè dove sono arrivato io, anche il proprio corpo è superfluo: è solo lo strumento di qualcosa di più grande, l'artefice di una volontà superiore: quella di Dio. La mia.
Ho guardato oltre gli scogli, oltre l'ultima onda, oltre l'orizzonte e mi sono detto:
" È li che voglio andare".
I primi passi sono stati i più duri. Perchè ti sforzi di andare avanti, navigare verso l'orizzonte, ma quello non è l'oceano aperto, è un altro inganno e te ne accorgi solo quando lo hai percorso tutto ed è qui che capisci, proprio sulla strada del ritorno, quando hai raggiunto il limite e pensi che non ci sia libertà.
" Non devo andare avanti. Ma indietro"
Passare la terra ferma, le montagne, le colline. Passare uno dopo l'altro i dogmi e le regole metabolizzate in anni e anni. Andare oltre il bambino. Togliere tutta l'immondizia che ci è stata buttata addosso. Diventare puro.
Attraversare il vero oceano. Per vedere cosa c'è oltre.
Ma non sei l'unico. Sono pochissimi, ma qualcuno c'è come te. Perchè il vero viaggio è appena iniziato.
Navighi senza direzione per acque sconosciute, senza sicurezze e certezze, vedi quanto può essere buio e terribile l'animo umano: vedi il tuo marcio, la tua cattiveria, il tuo male e la maggior parte si ferma qui.
Oltre ancora ci sono le tue perversioni, le più segrete, quelle che neppure tu pensavi di avere e ammetto che anche io mi sono fermato molto in queste acque, incapace di andare avanti.
Avevo pensato di aver trovato un altro limite.
Erano acque troppo tempestose e
Rumore dietro la porta. È arrivato il momento. Mi ero illuso che questa volta l'avrei fatta franca, che questa volta non avrei dovuto farlo. Ma non è così, per l'ennesima volta non è così.
Continuo a sentire quel rumore dietro la porta, tra poco non potrò più nascondermi, tra poco dovrò vedermela con lei. Ancora una volta. Il rumore di passi diventa sempre più vicino, poi di colpo smette, guardò la maniglia abbassarsi e la porta schiudersi lentamente ma con decisione. Come se lei volesse godersi quel momento, come se traesse gioia dall'umiliarmi, dallo sminuirmi. E so che è così, è stato sempre cosi.
Alla fine la porta si apre. Il rumore di passi ha prodotto la figura di una donna nel vano della porta, ha partorito i centoventi chili di mia madre sull'uscio. Lo fa di nuovo. Non ho mai capito come ci riesce ma lo fa di nuovo: mi trova all'istante all'interno della stanza. L'ambiente non è certo enorme, tuttavia è ingombro di cianfrusaglie e mobili più o meno malandati, ma il suo sguardo mi individua in un attimo, come se al momento di entrare già sapesse dove mi trovo, come se riuscisse a vedere attraverso i muri e le porte chiuse.
I suoi occhi mi trafiggono. A volte, ma molto raramente, mi accorgo che vorrebbero essere dolci ed amorevoli, che vorrebbero essere gli occhi di una madre che guarda il suo unico figlio, ma quegli occhi mi provocano sempre la stessa sensazione: farmi sentire inadeguato, aver deluso tutte le sue aspettative. Aver fallito in tutto nella vita.
I suoi occhi mi si fissano addosso come calamite, passano alcuni istanti durante i quali mi sembra che il tempo si fermi, sento i battiti del mio cuore accelerare, mentre il respiro diventa affannoso. Finalmente quegli occhi mi si staccano di dosso, ma solo per individuare la causa del mio disagio. Non ho il tempo di rallegrarmi per i suoi occhi che mi lasciano, che mi accorgo che essi guardano anche con peggior cipiglio quello che c'è sul pavimento. Mia madre lo vede facilmente,
Alle prime ore del mattino del sabato santo Paolo Ponzio, funzionario a capo della squadra mobile di Napoli, Gianpiero De Caroprico, procuratore capo della repubblica e il vicecommissario Luca Conti della U. A. C. V. di Roma, cioè l'Unità d'Analisi del Crimine Violento, osservavano turbati la scena del crimine.
Era una brulla e assai poco frequentata collinetta fuori Napoli, per anni utilizzata come discarica abusiva e la cui forma ricordava vagamente un teschio. In mezzo ai cumuli di copertoni, agli elettrodomestici rotti e ai mucchi di spazzatura, s'innalzavano tre enormi croci lignee, a cui erano legati altrettanti cadaveri.
Ponzio era annichilito. Ciò che vedeva gli pareva davvero troppo. Nessuna gelosia professionale, stavolta, era anzi felice della presenza di Luca Conti, quasi un mito ormai nelle forze di polizia, grande specialista nella caccia ai serial killer. Che se la vedesse il collega, lui se ne lavava le mani, anche perché conosceva fin troppo bene l'identità delle vittime presenti su quel Gòlgota e ne era spaventato. A sinistra e a destra c'erano i due ladroni, Gennaro Peruselli detto Kingpin e Francesco Nicolino, noto come O Pazzo, boss incontrastati delle due principali cosche rivali della camorra napoletana, da tempo impegnate in una guerra senza esclusione di colpi.
E se la presenza di entrambi era già di per sé incredibile e allarmante, ciò che davvero sconvolgeva Paolo Ponzio era il personaggio posto al centro della macabra rappresentazione evangelica, non soltanto bloccato come i compagni di sventura con robusti ganci metallici a forma di ferro di cavallo, ma in parte addirittura inchiodato alla croce. Quell'uomo anziano e incoronato di spine, il cui volto anche nella morte manteneva una maschera di atroce eppur composta sofferenza, era niente meno che sua eminenza il cardinal Giulio Sisti, arcivescovo di Napoli, da tempo in odore di santità. Sopra la sua testa, in luogo dell'originale iscrizione I. N. R. I. era stato appiccica
"Sei ancora lì?" Chiede lei, io cerco di non voltarmi a guardarla, cerco di non voltarmi per non ritrovarmi inchiodato dal suo sguardo di sufficienza, lo stesso che anni fa mi fece innamorare, ma che ora odio con tutto il cuore, con tutta l'anima. Come se l'amore si fosse, nel tempo, prima cristallizzato, poi avesse cominciato a regredire fino a diventare il suo opposto, la sua immagine riflessa nello specchio. Ed il suo atteggiamento degli ultimi tempi non aiuta di certo.
"Sei ancora lì?" Chiede di nuovo, nonostante non possa vederla, me la immagino torreggiante alle mie spalle, con i pugni serrati attorno alla vita stretta, la testa inclinata e gli occhi duri, come una mamma che ha sorpreso il figlio con le mani infilate nella torta. Alzo lo sguardo dalla tastiera alla pagina sul monitor, vuota, sempre vuota, ostinatamente vuota nonostante tutti i miei sforzi. Alla fine mi accorgo che la visione dello schermo bianco mi provoca più dolore di qualsiasi altra cosa, faccio ruotare la sedia quasi con sollievo, perché so che qualunque cosa vedrò sarà più sopportabile della vista del monitor vuoto. E me la ritrovo davanti, bellissima e freddissima, dolcissima e crudele.
La mia espressione deve essere veramente sconsolata, perché persino sul suo volto truce vedo passare per un istante un'ombra di compassione, che lei si affretta a far sparire subito, probabilmente per paura che io la interpreti come una minima forma di incoraggiamento. "Senti," Comincia a dire, so già quello che dirà, mi preparo a sentire le sue parole come potrei prepararmi a ricevere un proiettile in fronte guardandolo arrivare al rallentatore. "mi dispiace che debba essere proprio io a dirtelo, ma è stato un bel sogno, solo un bel sogno, e come tutti i bei sogni è svanito nel nulla con l'arrivo dell'alba."
"Sei quasi più brava di me con le parole." Dico, cerco di sorridere, ma come risposta lei indurisce ulteriormente lo sguardo, per non concedermi nessun appiglio, nessun'ancora di salv
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