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Racconti gialli

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Fantasmi del passato - Parte seconda e ultima

Parcheggiai qualche metro lontano dal magazzino, recuperai l'arma e m'incamminai a piedi.
Quella era una zona industriale abbandonata: il posto ideale per nascondere una bambina e coprire le grida.
Arrivai davanti al posto e alzai gli occhi sull'insegna che diceva proprio "Dall'Angelo Custode".
La serranda del garage era a metà, e immaginai che l'avesse lasciata lì come una sorta di invito ad entrare. E così feci.
Feci qualche passo e mi guardai intorno: nella penombra notai che il posto era pieno di macchinari. Sembrava essere un vecchio magazzino dove a suo tempo veniva prodotto materiale di sicurezza alla persona: impalcature, pedane, ponteggi e capii il perché del nome.
Stavo esplorando il posto quando sentii un rumore. Tesi l'orecchio e lo risentii.
Immediatamente capii che c'era qualcuno in quello stanzone con me. Distinsi un'ombra, alzai l'arma e gliela puntai contro.
"Ah ah ah ah!", mi disse come un rimprovero. "Non così in fretta."
"Lascia andare la bambina", lo intimai io. "Adesso."
Nel buio e nella poca luce che c'era nel magazzino, percepii i suoi occhi infuocati puntati addosso. Poi udii una risata.
"Non sei più un poliziotto e vai ancora in giro con un'arma?", mi domandò.
Avevo ancora paura, lo sentivo. Ma ero carica di rabbia nel ripensare a tutto quello che aveva fatto.
"Allora è proprio vera quella storia che i poliziotti che vanno in pensione, prima o poi si ritrovano coinvolti in qualche caso anni dopo."
"Beh, sei stato tu a volerlo", gli risposi.
"Volevo rivederti da vicino. Mi sei mancata."
Era come se il mio corpo fosse una specie di ventosa: la mia sudorazione aumentava e sentivo i capelli attaccati al viso e al collo, pizzicarmi.
Alla fine cercai di inghiottire quel nodo che sentivo in gola, e dissi: "Voglio la bambina."
"La bambina?"
"Niente giochetti, vai a prenderla."
"Tu non sei in grado di salvare le persone. Te lo ricordi, vero?"
Deglutii.
"Io me lo ricordo bene. Ero lì con voi."
"Dammi

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   10 commenti     di: Roberta P.


Odeon

Seduto in una di quelle piccole, sobrie poltrone di un cinema ormai lontano dagli standard moderni, con i rivestimenti di un velluto elegantissimo, e l’odore di tempi che ormai non tornano più. Tutta la sala occupata, pronta, vivida, carica di aspettative, brulicante di gente che ingoia uno dopo l’altro film a raffica senza nemmeno digerirli. Atmosfera piacevole, rilassata, espressioni distese.
Una ventina di teste sconosciute davanti alla mia e una serie di facce che non distinguo dietro le mie spalle. Non so cosa stia per iniziare, “un biglietto” ho detto, senza nemmeno costatare che la trama fosse esaltante, l’attrice bella e sensuale, il regista vincitore di un qualche importante premio. Non avevo la minima intenzione di finire qui dentro, ma la folla dietro la strada era davvero invitante e il luogo ideale.
Ed eccomi qui, sistemato tra due coppiette disgustosamente ingorde di pop-corn, bicchierone gigante da tre, quattro euro.
La poltroncina è scomoda, inizio a diventare impaziente.
Il bisbiglio di fondo termina, calano le luci ed appaiono le montagne della Paramount. Scorrono veloci i titoli di un film che non ho scelto, i nomi di attori che non conosco, e anche se il ritmo della colonna sonora è veramente incalzante, io non sono assolutamente interessato. Non sono qui per bere Coca-Cola né tanto meno per carezzare timidamente la gamba della mia compagna, per mangiare liquirizie o per capire se il protagonista merita quel cazzo di Oscar. Inizio a sudare, inizio a sudare perché sono fermo da almeno cinque minuti. Odio stare fermo, lo odia anche il mio corpo.
La scena si dipana all’interno di uno di quegli uffici che vivono esclusivamente nelle realtà americane; un mare di impiegati con la camicia bianca, ognuno nel suo mini box con un computer a schermo piatto della prossima generazione e una stampante ultramoderna. Pannelli divisori bianchi panna, persone perfettamente curate, uomini appena rasati, colletti candidi, giacche stirate.

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   2 commenti     di: Andrea Testa


Redenzione

Dopo la prima volta che l'avevo visto mendicare, ero tornata in quella zona tante altre volte.
Gli avevo portato da mangiare, e qualche volta l'avevo accompagnato al bar a prendersi cappuccino e brioche.
Col tempo aveva imparato a fidarsi di me ed era arrivato a raccontarmi parti personali della sua vita precedente. Mi aveva raccontato di quello da cui scappava, degli incubi che lo tormentavano e che lo portavano ad avere ancora paura.
Adesso me ne stavo davanti ad una tomba, intenta a fissarla. Avevo pagato io la sepoltura, e in quel momento ripensai ad un istante passato.

Ce ne stavamo affacciati al balcone di pietra intenti a fissare il Po illuminato dai lampioni.
"A volte vorrei poter rimediare ai miei sbagli", mi disse.
Mi voltai verso di lui: "E non puoi?"
"Non in questo caso, no."
Annuii, mi umettai le labbra e fissai un altro punto.
"Una volta ho letto che la vita non è altro che ricerca della redenzione."
"Che significa?"
Tornai con lo sguardo sul suo viso stanco e rugoso, consumato dal tempo e dalla paura.
Infine dissi: "Che in fondo tutti vogliamo essere perdonati. Da qualcuno, per qualcosa."
Mi guardò e chinò il capo per nascondere le lacrime. Poi non disse più nulla. Capii che per il momento non voleva parlarne, ed io rispettai la sua scelta.
Infine tornai a fissare il Po, e mi accorsi che all'orizzonte si stava facendo buio.

Tornai al presente e controllai l'orologio. Diedi un ultimo saluto alla lapide ed uscii dal cimitero.
Una volta in commissariato, Lentini non esitò a fare domande.
"Dove sei stata?"
"Sono passata in un posto."
"Hai un fidanzato?"
"Sì, e se proprio lo vuoi sapere è molto più bello di te."
Lui annuì. "Gentile come sempre."
Presi posto alla mia scrivania, e risposi: "Sei tu quello che non si fa mai gli affari propri, e poi si lamenta se gli rispondono male."
Aprii il cassetto chiuso a chiave, ed estrassi un fascicolo.
"È stata da quel barbone amico suo. Il ca

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   15 commenti     di: Roberta P.


Vendetta

Il giudice chiese ed ottenne silenzio, si apprestava a leggere la sentenza.
Non appena ebbe finito, prima timidamente, poi con entusiasmo, la platea si associò al suo giudizio con un applauso.
Un altro processo era finito, ci sarebbe stato l'appello, ma intanto quei delinquenti sarebbero andati in galera, una piccola soddisfazione per tutti quelli che erano stati vessati, minacciati, intimiditi, e in qualche caso rovinati da attentati alle proprie attività. Una contentezza moderata dal timore che tra qualche giorno avrebbero conosciuto qualcuno che subentrava ai primi, con la consapevolezza che quelli dopo sono sempre più cattivi. Ma per qualche giorno c'era sempre la speranza che non sarebbe successo.
Il giudice Rosi era obbligato a vivere con una scorta, suo malgrado, ma questa era la condanna per il suo impegno contro tutte le forme di delinquenza. Aveva come una seconda famiglia, formata da quei ragazzi che lo seguivano ovunque.
C'erano momenti e posti più pericolosi di altri, dove l'attenzione doveva essere estremamente rigorosa, ed altri, come in Tribunale, dove al contrario regnava, per una malintesa abitudine, una certa rilassatezza.
In ogni caso quella mattina in quel Palazzo di Giustizia era stato segnato un punto a favore della legalità. Non c'erano altri processi, per cui si stava svuotando, e anche fuori, tutti i pulmini delle televisioni stavano smobilitando.
Non c'era quasi più nessuno quando anche il giudice Rosi uscì, passò davanti alla scorta, li salutò facendo segno che sarebbe andato a prendere i giornali all'edicola di fronte. Ritirò la borsa piena di quotidiani che gli era stata preparata e tornò indietro. Non li avrebbe mai letti. Era esattamente al centro della strada quando un'auto lanciata a folle velocità lo falciò lanciandolo in aria, per poi precipitare a terra, macchiando all'istante l'asfalto col suo sangue. Fu una sequenza velocissima, e stranamente silenziosa. Quando fu realizzato l'accaduto la macchina era sparita

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   0 commenti     di: ivano51


Veleno

Mi misi a giocherellare con un elastico quando esordii: "Mettiamo caso che avessi portato di proposito le patatine salate per farti venire sete. Poi mettiamo anche caso che mentre andavi in bagno abbia aperto la tua borsa e che abbia avvelenato la tua acqua."
Il suo sorriso svanì in un attimo.
"Forte, no?", le chiesi sorridendo.
"Stai scherzando, vero?"
"Io dico che tra qualche minuto lo scopriamo."
Poi la fissai, e notai che anche lei mi stava fissando a sua volta. La fronte corrugata.
M'indicai, e senza distogliere lo sguardo dal suo viso, dissi: "Credo che ti stia uscendo del sangue dal naso."
Fluido scivolò rosso sporcandole la bocca, il collo, la camicetta e i pantaloni. In poco tempo si ritrovò urlante imbevuta nella pozza del suo stesso sangue, mentre io quasi me la facevo addosso dalle risate.

   10 commenti     di: Roberta P.


piadina a metri 100 (1a puntata)

In un cielo sgombro dal Mito, protetto al di sotto di un pigro capannello di nembi, il falco pellegrino veleggia sfruttando colonne invisibili di aria calda. Come una piccola divinità veglia indifferente la lunga riga grigia, generata dallo stilo di Emilio Lepido, che da Mediolanum passando da Bononia giunge sull’Adriatico.
Quella Domenica calda di una Estate calda il mondo va in ferie.
Il caporedattore di un news di internet difficilmente può permettersi una lunga vacanza estiva, tanto più lui l’ “indistruttibile” Bartoli, detto dai colleghi della redazione “Bartok” per i suoi modi rapidi ed essenziali di gestire le notizie che giornalmente deve metabolizzare per la ”rete”.
Nel capace bagagliaio della station-wagon, in un angolo, tra le valige, sta in paziente attesa, ben imborsato, un potente computer portatile dotato di modem e di tutte le periferiche necessarie; tre telefoni cellulari lo minacciano dall’interno del cassetto nel cruscotto dell’auto e un fortissimo senso di efficenza lo pervade rendendo il giornalista fastidiosamente ansioso.
La tensione gli conferisce una parziale immunità al senso di claustrofobia dovuto al suo stare immobile in fila tra le altre migliaia di forzati dell’estate in riviera costretti al tradizionale rito iniziatico delle code in auto, colorate, massicce, nauseabonde per i gas di scarico e deformate dalla spessa aria calda d’Agosto.
Per uno come lui votato alla rapida semplicità delle cose, il lavoro costituisce una dimensione naturale ben diversa dal “quasi matrimonio” con Louise, dal “quasi rapporto” con Francesca e le incerte avventure da pub, cercate come terapia distensiva. Certo è per ciò che la sua solitudine lo rende vagamente pago, senza alcuna pulsione o bisogno particolare.
Fermo con il climatizzatore al massimo freddo, un buon CD di John Coltrane nello stereo, guarda con distacco decrescente al di fuori dell’abitacolo dove al di sopra di magliette griffate da caimani, c

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L'omicidio dell'Ammiraglio Joseph Finley

Dopo quarant'anni di servizio nella Reale Marina d'Inghilterra, l'Ammiraglio Joseph Stanley comandava per l'ultima volta i suoi marinai perché quel giorno sarebbe andato in congedo. I suoi colleghi gli avevano preparato la festa d'addio al circolo velico proprio vicino alla villa. Aveva costruito la sua villa sul mare. Il giardino era visibile solo dal cancello, perché il muro, tranne la parte che dava sul mare, era circondata da alberi alti. Il circolo rappresentava per lui un luogo di ricordi, in quanto quel posto, quando era bambino suo padre, un Capitano di vascello, lo portava a vedere quei marinai che si davano da fare con le vele. Un giorno, suo padre si sentì male e fu portato in ospedale, Joseph promise a suo padre che avrebbe intrapreso anche lui la carriera nella marina reale, suo padre gli sorrise e poi spirò. Quella sera, in alta uniforme tenne il discorso d'addio. La festa sarebbe continuata fino a tardi, ma lui decise di andare via verso mezzanotte. La sua segretaria gli si avvicinò e gli disse: "Ammiraglio, va a casa?". Domandò. "Sì Kate, sono un po' stanco. Passerò dalla spiaggia, vorrei sentire il rumore del mare per l'ultima volta". Gli rispose. Quando la festa finì, la sua segretaria vide le luci della villa spente e non si preoccupò più di tanto e andò a casa. La mattina dopo due ragazzi che correvano sulla spiaggia videro una figura sdraiata. Il ragazzo si avvicinò e vide che era morto e chiamò la polizia. Il lunedì mattina è sempre traumatico dopo un fine settimana spensierato, eravamo appena entrati in ufficio quando chiamarono dalla portineria: "Dimmi tutto Fred". Risposi. "Commissario, ha chiamato l'Ispettore Finley dal dipartimento di Portsmouth e mi ha detto che due ragazzi questa mattina hanno trovato un cadavere sulla spiaggia". Mi disse Fred. "Non può occuparsene l'Ispettore Finley, in fondo sarà il solito ubriaco che dopo una notte si è sentito male ed è morto!". Gli dissi. "Mi ha detto se può chiamarlo". Mi disse

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   0 commenti     di: maurizio



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