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Racconti gialli

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Doppio intrigo per Norman Parker

Misterioso decesso durante il concerto di apertura della stagione di musica lirica tenuto ieri al Royal Opera House. La famosa soprano francese Yvette Bourgueis aveva concluso brillantemente la prima parte della sua esibizione e si accingeva a ringraziare il pubblico per la moltitudine di omaggi floreali che continuavano a giungere sul palco accompagnati da calorosi applausi. La vedette aveva attirato, nel famoso teatro della zona di Covent Garden, un enorme numero di spettatori che aveva fatto registrare il tutto esaurito. L’intervento degli uomini della polizia è stato tempestivo ma non è riuscito a stabilire la causa di una morte tanto improvvisa quanto inaspettata.
Tutto farebbe pensare ad una paralisi cardiaca ma coloro che la conoscevano escludono l’ipotesi in quanto la donna era sanissima sotto questo aspetto; qualcuno, invece, ipotizza che potrebbe trattarsi di omicidio ma non è stata ritrovata alcuna traccia utile ad avvalorare tale tesi. Sul corpo della sventurata non è stata rinvenuta alcuna ferita ne altri segni che possano indurre a pensare ad un omicidio. Il cadavere, pertanto è stato affidato all’esame del Coroner da cui si attende un responso definitivo. Pertanto tutto sembra coperto dal massimo riserbo mentre il caso si avvolge in una coltre di mistero. Secondo voci non ufficiali, le indagini del caso sarebbero state affidate all’ispettore Norman Parker della sezione omicidi di Scotland Yard, noto per aver già risolto brillantemente altri complicati casi avvenuti nella nostra città .
Così si leggeva alle prime pagine del Times e del Daily News usciti la mattina di…
lunedì 21 febbraio 1937.

Era una mattina talmente grigia ed uggiosa che sembrava scoraggiare la gente dall’uscire dalle proprie case. La neve accumulatasi nei giorni precedenti si stava sciogliendo a causa di una pioggia frustante che, contro ogni possibile previsione, aveva preso il posto dei candidi fiocchi creando sul selciato una fanghiglia gelida ed in

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Quindici anni dopo - PARTE PRIMA

Mentre si dirigeva in bagno, vide una striscia rossa provenire da sotto la porta. La ragazza tremava e respirava a fatica. Non sapeva cosa fare, e decise di aprire. La finestra era spalancata.
Poi il suo sguardo si fissò sull'immagine del corpo di Marta riverso a terra, col cranio fratturato. Il pavimento era stracolmo di sangue. Avanzò ulteriormente, ma le mancò il fiato per gridare. Sgranò gli occhi e d'istinto le si fiondò vicino, si mise sulle ginocchia e l'attirò a sé, macchiandosi di sangue capelli e indumenti.
Poi udì una voce provenire dal fondo del corridoio.
"Leslie, Marta tesoro, dove siete?"
"A... aiuto. Ti prego..." sillabò.
Non riusciva a parlare. Era come se la gola le si fosse seccata d'un tratto e la voce fosse scomparsa.
La madre di Marta le stava chiamando. Quando arrivò sul ciglio della porta, cominciò ad urlare, e il grido le venne fuori dalla bocca come un suono stridulo e fastidioso.
Mi svegliai di soprassalto nel letto. Sudavo freddo e avevo difficoltà a respirare. Mi guardai in giro e mi assicurai del posto in cui mi trovavo. Feci mente locale pensando: "Sono Leslie Portato, ho trentacinque anni, sono nell'anno 2016, abito in Liguria, lavoro all'ufficio postale del paese."
Quando mi bastò per rendermi conto di essere al presente, socchiusi gli occhi e deglutii. Avevo ancora quegli incubi, non se n'erano andati, neanche dopo quindici anni. Probabilmente non se ne sarebbero mai andati.
Mi alzai e guardai il display del cellulare: erano le tre del mattino.
Andai in cucina e recuperai un bicchiere d'acqua. Poi mi chinai sul lavabo e mi tamponai la fronte e le gote. Dal bagno recuperai un panno e mi asciugai la vita e il collo sudati.
Infine mi rimisi nel letto cercando di riprendere sonno ed essere pronta per affrontare un viaggio che il giorno seguente mi avrebbe ricondotta, una seconda volta, nel mio incubo personale.
Chiusi gli occhi nel tentativo di pensare ad altro, ma l'unica cosa che riuscii a focalizzare, fu

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   7 commenti     di: Roberta P.


Chi diffonde il male

Avvolti nei cappotti, Lentini ed io ci ritrovammo ad attraversare piazza Castello, il martedì della prima settimana di novembre. Erano le sei del mattino e la città cominciava ad animarsi.
Nessuno di quelli già in auto o in tram, diretti alle proprie giornate, sapeva ancora che mentre loro dormivano, una donna veniva massacrata e abbandonata in una delle piazze più famose di Torino.
Una volta sul posto, salutai Lorusso e il nuovo arrivato, il sovrintendente Clensi. Poi mi misi sulle ginocchia e alzai la cerata.
Mi sfilai gli occhiali da sole, la fissai negli occhi per qualche secondo, e memorizzai il suo sguardo. Là, notai qualcosa sul suo viso. "Che roba è?"
Lentini si avvicinò. "Non ne ho la più pallida idea..."
"Dov'è Ferro?"
La sua voce mi giunse da dietro. Ci voltammo.
"Sono qua!", gridò alzando una mano.
"Che ne dici?", domandai facendo segno verso la donna cadavere.
"Non quanto vorrei. Stasera passa da me che nel pomeriggio la esaminerò."
"E a me non m'inviti?", chiese Lentini mandandogli un bacio.
"Mi spiace, ma non sei il mio tipo."
"Cosa sai per ora?", chiesi io.
"È deceduta verso la mezzanotte o poco più. Ha dei tagli veramente molto profondi, è una cosa... raccapricciante."
Io fissai un altro punto, e indossai gli occhiali scuri.
"Ci vediamo stasera", dissi.
"Ti aspetto."
Infine mi allontanai.
Alle ventuno in punto mi trovavo nel parcheggio dell'istituto della Scientifica.
Erano anni che percorrevo quei corridoi, ma non ero mai abbastanza disinvolta per far finta che la puzza di sangue mista al disinfettante non mi desse la nausea.
Raggiunsi Ferro al pianterreno, e lo salutai.
"Puntuale, come sempre."
"È il minimo..."
Appesi il cappotto all'attaccapanni e presi posto.
"Allora, che hai scoperto? Che mi dici di quelle ambigue macchie d'inchiostro?"
"Ah sì, ne ho trovate altre due sulle mani e una sull'ombelico, ma questo non sembra essere rilevante. Senti qua... Luisa Marinetti è morta per la bellezza di d

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   24 commenti     di: Roberta P.


Quindici anni dopo - PARTE SECONDA E ULTIMA -

La mattina seguente mi alzai verso le sette. Mi infilai un maglione e un pantalone della tuta. Zio doveva essere già sveglio. Andai in cucina e mi bloccai sulla porta. Mi appoggiai allo stipite e sorrisi mentre lo guardavo preparare con cura la colazione.
Lui si voltò e mi sorrise a sua volta.
"Se la memoria non m'inganna, latte e caffè, zucchero, torta semplice e biscotti."
Io annuii, mi portai una mano chiusa a pugno sulla bocca, e risi.
Andai a dargli un bacetto sulla guancia e presi posto.
"Non c'era bisogno che facessi da solo, ti avrei dato una mano..."
"Mi fa pacere, e poi non sono riuscito a dormire. Mi sono alzato presto..."
Io annuii, e cominciai ad inzuppare nel latte, prima una fetta di torta e poi i biscotti.
Lui mangiava in silenzio, ma non riuscii a trattenermi dal chiedergli: "Zio?"
"Sì?"
Poteva essere un semplice sogno quello che avevo fatto la notte, ma forse poteva essere qualcosa di più. Valeva la pena scoprirlo.
"La vecchia cascina, quella dove io e Marta andavamo a giocare, è sempre lì?"
"Sì, sempre lì, abbandonata e più malandata di prima. Perché?"
"Perché voglio andare a controllare una cosa."
"Non metterti nei guai, me lo prometti?"
Io annuii. "Sì, te lo prometto."
Un'ora dopo stavo già dirigendomi verso la radura. Parcheggiai sulla stradina e scesi a piedi.
Dopo una buona mezz'ora di cammino, fissai dal basso la strada in alto.
Dal fondo della gola vedevo bene le strade tortuose che portavano al paese vicino, e qualche auto percorrerle.
M'incamminai ancora di qualche metro finché, tra gli alberi, scorsi il tetto malandato della cascina segreta.
M'inoltrai nel bosco ed infine entrai.
Dentro c'era puzza di umido, e il pavimento era frastagliato. Ricordavo bene dove nascondevamo il diario segreto. Avevo voluto lasciarlo lì in ricordo della nostra amicizia. Credevo di essere stata io l'ultima ad utilizzarlo e ad annotarci sopra l'ultimo "segreto": forse mi ero sbagliata.
Salii al primo piano, e m

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   11 commenti     di: Roberta P.


Affetto pericoloso - Parte terza e ultima

Alle due e mezza di un mattino, Lullaby scese le scale e raggiunse la cucina avvolta dal silenzio dell'abitazione.
Si diresse verso l'armadietto, recuperò un bicchiere e lo riempì d'acqua. Stava tornando in camera quando una voce la raggiunse.
"Tuo padre voleva chiamarti Fede."
Lullaby si voltò e nel buio della stanza e la luce della Luna, riuscì a mettere a fuoco l'immagine.
"Mamma, che ci fai qui a quest'ora?"
La donna rimase silenziosa, e Lullaby prese posto di fianco a lei.
"Allora?", domandò nuovamente.
"Tuo padre voleva chiamarti Fede, ma io avevo optato per Libera per via del movimento delle femministe di cui avevo fatto parte negli anni delle proteste giovanili."
Lullaby sorrise.
"Poi quando Ivan ti ha vista piangere durante la proiezione di un film sulla guerra degli anni venti, ti ha soprannominata Lullaby, e ti è rimasto. Era il nome dell'attrice protagonista."
Fece una pausa.
"Lullaby", ripeté la madre come se fosse la prima volta che udiva quel nome.
"Avevi solo cinque anni."
Lull sorrise di nuovo.
"Perché l'hai fatto?", domandò d'un tratto la donna.
La ragazza scosse il capo.
"A cosa ti riferisci?"
Allora lentamente la donna tirò fuori della tasca, un fazzoletto con le iniziali D. M.
"Lo riconosci?"
Lullaby lo fissò. Poi annuì.
"Sì, è un fazzoletto."
"Non è un fazzoletto qualunque."
Fece una pausa. Poi continuò.
"M. D.", disse sfiorando con le dita le iniziali. "Daniela Mavera."
Dopo qualche attimo Lull annuì.
"L'avrà dimenticato l'ultima volta che è stata qui."
La donna sospirò.
"Lo so che cosa hai fatto, Lullaby."
La figlia si toccò l'interno della bocca con la lingua, e rimase con quella smorfia fino a che si appoggiò allo schienale della sedia.
"Dovevo farlo", si decise a dire dopo un po'.
"No, non dovevi", controbatté prontamente.
Poi di scatto si protese in avanti verso il viso di sua madre.
"Quella lì tradiva Ivan, e si era mess

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   2 commenti     di: Roberta P.


Il mistero del Queens

Nella malaugurata ipotesi ci aspetti
un'altra vita nell'Aldilà,
bisognerà cominciare a pensare quali libri
mettere in valigia per ammazzare il tempo.






Refoli di vento muovevano di tanto in tanto le tendine del bow-window. La stanza era in ordine. Calata in una tiepida penombra primaverile. La radio, sintonizzata sul programma di prosa, stava trasmettendo I Ragazzi Irresistibili.
Sprofondato in una poltrona old-america, un uomo sulla cinquantina, occhi socchiusi, un leggero sorriso sulle labbra, sembrava ascoltare, compiaciuto e divertito, alcuni dei dialoghi più acutamente esilaranti che mai penna abbia saputo partorire.
Improvvisamente un lampo illuminò a giorno la scena. Poi, in rapida successione, un altro. E un altro ancora. Il fotografo della polizia bofonchiò qualcosa, girò i tacchi e se ne andò. Due mani aprirono una valigetta e, stancamente, meccanicamente, tirarono fuori tutto l'armamentario per procedere ai rilevamenti di rito. Impronte digitali e compagnia discorrendo. Nel frattempo il medico, sfilandosi i guanti di lattice, e volgendo lo sguardo ad un boccettino scuro che era sul tavolo, sentenziò:
- il settimo suicidio in tre giorni. Di questo passo verrà stabilito un nuovo record. Comunque aspettiamo l'autopsia.-

Negli ultimi giorni, il Queens era stato teatro di quel tipo di dipartite che dovrebbero ogni volta portare sul banco degli imputati una intera società. E la giuria non avrebbe motivo di mostrare né incertezze, né pietà nel pronunciare la sentenza.
E invece, le povere anime che se ne andavano di propria volontà, a meno che non fossero famose, erano circondate dalla più totale indifferenza. Magari con il biasimo e il malcelato fastidio dei benpensanti.
Questa volta però ad attirare l'attenzione fu il numero, il breve arco di tempo, e il fatto che l'area degli accadimenti fosse così circoscritta. Una sorta di Riserva degli aspiranti suicidi. Anche se il Queens non poteva certo essere paragon

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Sushi to die

La pioggia batteva sul parabrezza dell'auto.
Il vetro bagnato aveva l'aspetto degli occhi lucidi di chi trattiene il pianto. Ricordai gli acquazzoni a Yantai.
È una regione estremamente monsonica, e si conta che all'anno cadano circa seicentocinquantadue millimetri di pioggia.
Qiang amava la pioggia. Io no. Avevo paura del rumore dei tuoni.
Poi una sera mi aveva fatto affacciare alla finestra, insieme a lui. Mi aveva fatto notare meglio che i i lampi erano niente altro che luce, e che la luce non annunciava mai qualcosa di brutto e di pauroso, perchè la luce era il bene. E allora mi aveva affascinato il modo alternativo di come riusciva a vedere il collegamento fra lampi e tuoni.
L'arrivo di Qiang mi distolse da quei ricordi tanto belli quanto fasulli. Del bambino che era non aveva conservato niente, non c'era rimasto più nulla. La morte di papà lo aveva come resettato, e lui non aveva mai più voluto saperne di essere ripristinato.
Lo vidi avanzare nella notte indossare abiti scuri.
Uscii dall'auto e attraversai la strada sotto la pioggia battente, rumorosa a contatto col chiodo di pelle.
Qiang svoltò nel vicolo ed io lo imitai.
"Federale o poliziotto è la stessa cosa", udii la sua voce nell'ombra.
Venne avanti, si mostrò alla fioca luce dei lampioni. "Dove andremo a finire se le Accademie non sono neanche più in grado di insegnare un pedinamento come si deve, dico io."
Faccia tosta. E senza cuore. "Puoi ancora pentirti e consegnarti alla giustizia."
"Alla giustizia?", sorrise di scherno. "Ma dici sul serio?"
"Scapperai per il resto della tua vita?"
"Io non scappo, Chan, Io cammino, e anche molto tranquillamente."
"Già, perchè adesso ti temono. Ti fa sentire molto forte, non è vero?"
Mi sorrise.
"Perchè non ti costituisci? Avresti il mio aiuto e la protezione della polizia", tentai a quel punto.
Qiang allora controllò l'orologio al polso. "Molto interessante, sorellina, ma non posso restare ad ascoltarti. Ho molto da fare", dis

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   0 commenti     di: Bobby P. Storm



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