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Racconti gialli

Pagine: 1234... ultimatutte

Buio

Non sapeva se fuori fosse giorno o notte.
Non sapeva che giorno fosse, non sapeva da quanto tempo era là, con i piedi e le mani legate da una corda robusta, steso su quel pavimento dimesso e ruvido.
Cosa certa era che in quelle condizioni ci era da troppo tempo perchè aveva la gola riarsa dalla folle sete e sentiva il forte dolore all'ossatura delle mascelle inattive da troppo.
I calci nello stomaco che gli avevano dato i suoi aguzzini, lo avevano spinto a vomitare più volte, e lui non sapeva cosa vomitava, ma aveva avveritito il sapore caldo e amaro del suo sangue.
La benda gli copriva gli occhi gli stringeva la testa dolorante. Nessun raggio di luce la trapassava e questo lasciava presagire che la stanza fosse immersa nell'oscurità più densa.
I suoi persecutori non avevano volto, nè nomi.
L'avevano assalito da dietro, l'avevano caricato su un camion e l'avevano colpito e lui aveva subito perso i sensi.
Quando si era risvegliato, non sapeva quanto tempo fosse passato di preciso, si era ritrovato lì, così legato.
Non sapeva nulla, dunque. Non immaginava neanche perchè lui era una persona tranquilla che, a vederlo, non sembrerebbe stato capace di uccidere una mosca fastidiosa.
Non aveva mai dato torti nè tantomeno si era sognato di commettere angherie e soprusi.
E ora era lì, inerme, allo stremo, che non ce la faceva più a gridare, e aveva le labbra rotte e gli occhi gonfi al di sotto della benda.
Tutto era buio, un buio doloroso e lancinate, e il tempo era fermo e sembrava che mai più sarebbe ripartito.
Sentì un rumore poco distante. Forse, l'aveva sognato, forse stava dormendo, forse era morto, non se ne era accorto. Era morto e quello era il buio della sua bara.
Era questa la morte, allora? E il paradiso, l'inferno, dov'è che sono?
Il rumore si ripetè, e pensò che forse era ancora vivo.
Ci fu ancora, e allora si disse che, per ora, era ancora in vita.
ci furono dei passi in avvicinamento, e venne assalito dal terrore.
Riconobbe

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   0 commenti     di: serena


Dissennato da un delitto ( seconda parte )

Dissi tra me e me che stavo esagerando,
che mi stavo facendo coinvolgere troppo
da quella storia.
Cominciai a prepararmi, di li a poco sarei andato
da Lisa, la mia ragazza per accompagnarla a
lavorare.
Entrai nella macchina, sistemai lo specchietto
e allacciai la cintura, infine misi in moto
e lasciai adagio il vialetto che antecedeva il garage
dividendo in due il giardino.
Appena fui sulla statale, telefonai a Lisa per
dirle di prepararsi in fretta, altrimenti avremmo
fatto tardi. Arrivai da lei in pochi minuti,
quella mattina non c'era traffico.
Ed eccola lì, com'era bella, la osservavo
mentre si avvicinava alla macchina.
La guardavo con lo stesso sguardo e lo stesso
entusiasmo di due anni prima, cioè quando
ci scambiammo il primo bacio.
Ebbene si, per me non esisteva che lei, ne ero
profondamente innamorato.
Quando fù in macchina, mi salutò dandomi un bacio
e senza aggiungere altro, mi fece cenno di muovermi
con la mano. Quel suo movimento, brusco e secco,
mi riportò alla realtà. Mi scusai dicendole che mi ero
perso in quei suoi bellissimi occhi verdi, che però,
cambiavano tonalità ad ogni variazione della luce.
Lei mi liquidò con un sorriso e si voltò dall'altra
parte, per gurdare fuori dal finestrino i giganti di
cemento, che man mano ci lasciavamo alle spalle.
Giunti al fast food, dove lei aveva la mansione
di cameriera, scese di corsa dalla macchina e
dirigendosi verso l'entrata del personale,
sul retro del locale, mi disse che ci saremmo visti
nel primo pomeriggio, per pranzare insieme.
Avevo un foglietto in tasca, lo estrassi, era la lista
del materiale che avrei dovuto comprare
per una delle mie creazioni. Pensai che era strano,
non ricordavo di aver scitto quella lista,
nè tantomeno, di avere un altro lavoro in programma,
anzi, in verità avrei dovuto ancora ultimare
una miniatura della Torre Eiffel,
richiestami da un'anziana signora francese,
trasferitasi qui col marito.
Il fatto però, non susc

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Amnesia

Mi ero risvegliato nel letto di un ospedale. Ero solo. Mi ricordo ancora il freddo, quel freddo che mi penetrava le ossa, e mi faceva tremare. E il buio che mi circondava. Un buio confuso come i miei ricordi. Si, sapevo chi ero. Non avevo perso la memoria. Ma la domanda a cui non sapevo dare una risposta era come mai mi trovassi lì, in un letto d’ospedale, solo. La mia mente era annebbiata, confusa. Qualcuno dapprima mi disse che avevo avuto un incidente in autostrada. Un semplice, banale incidente. Di quelli che capitano a decine tutti i giorni. Non so dire ora perché, ma a quella spiegazione, semplice e frettolosa non avevo mai creduto. L'ultimo ricordo che la mia mente metteva a fuoco era una lettera. Una lettera scritta a mano. Una calligrafia rotonda, un cuore disegnato in basso con un pennarello rosso. Un nome. Livia. Si, Livia la ricordo. Il suo corpo snello e le sue labbra, quelle labbra che ho sognato ininterrottamente per quattro anni, da quando la vidi per la prima volta a scuola. E ricordo anche i suoi occhi verdi, e i suoi capelli castani e quel modo di fare, sicuro, consapevole di essere desiderata, ammirata, amata da ogni persona. E io ero tra questi. In realtà non pensavo che si fosse neanche mai accorta di me. Io sono sempre stato troppo timido. Quelle rare volte che mi aveva rivolto la parola avevo fatto la figura del perfetto idiota, balbettavo, tremavo. Eppure ero certo di quello che ricordavo. Ricordavo che tenevo una sua lettera in mano. E ricordavo quel piccolo cuore rosso al fondo. Che fossi io il destinatario? Magari si era resa conto che io ero diverso dagli altri. Si, perché io la amavo. Ma non amavo di lei solo il suo aspetto fisico, attraente ed eccitante, amavo di lei tutto. La sua sicurezza. Il suo modo di essere sempre al centro dell’attenzione, era un sogno per me. Un bellissimo sogno. Ma non ricordavo solo lei. Ricordavo anche Carlo e Marco e i nostri progetti di un week end in montagna. I miei amici. Carlo detto Bongo per

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   4 commenti     di: giulio c.


Affetto pericoloso - Parte prima

A volte l'affetto non sempre è sinonimo di positività. Quello maniacale ed ossessivo poi, non potrebbe essere più pericoloso.

PASSATO:
La bambina dai capelli lunghi e biondicci fissò con odio le mani della ragazza sfiorare il profilo del viso che aveva di fronte, e i suoi occhi rispecchiarono la ferocia in persona. D'ora in poi sapeva cosa avrebbe dovuto fare.

PRESENTE:
Lullaby entrò nella stanza e si richiuse la porta alle spalle. Daniela si voltò sentendo lo scatto.
"Lullaby!", esclamò chiudendo il cassetto, col rimbalzo del sedere. "Mi hai spaventata!"
"Scusa, non era mia intenzione."
Trascorse qualche secondo prima che riprendesse a parlare.
"Stavi cercando qualcosa? "
La donna scosse il capo.
"Solo una matita per annotarmi un appunto", disse sorridendo per mascherare il timore.
Lullaby annuì incredula.
"Ora se non ti dispiace, vado di sotto e ne cerco una".
Prese a camminare quando Lullaby, con una domanda la costrinse a bloccarsi.
"Non me lo vuoi proprio dire cosa stavi cercando nei mie cassetti? "
"Scusa?", domandò voltandosi.
"I miei cassetti."
Daniela cercò di mantenere la calma e sorrise ancora.
"Te l'ho detto, solo una penna."
"Lo so cosa mi hai detto. Bisogna capire se è la verità o meno."
La donna la fissò indispettita, e incrociò le braccia.
"Stai cercando di dirmi qualcosa?"
Lullaby sorrise, e Daniela a quel punto fece lo stesso.
Nessuna delle due avrebbe mollato tanto facilmente, ma Daniela decise di parlare per prima.
"Sei solo una pazza."
Lulluby continuava a fissarla col sorriso stampato in volto.
"E... per quale motivo mi considereresti pazza?"
"Ho scoperto il tuo segreto. Ti ho osservato bene in queste ultime settimane; da quando sto con Ivan non hai fatto altro che metterti in mezzo e mandare a monte i nostri progetti... Ho visto i diari che tieni nascosti nel muro, e li ho letti. Ho le prove della tua pazzia. Sorella affetta da gelosia eccessiva", disse em

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   0 commenti     di: Roberta P.


Blade Trinity

Giorno uno
Ponte Milvio. L’estate, a Roma, è ormai agli sgoccioli. Da poco è trascorsa la mezzanotte ed un lieve Ponentino increspa il Tevere. In penombra il volto di una giovane donna diventa duro quando il suo compagno s’allontana nell’oscurità. Lei resta immobile, accanto al lampione centrale, riconoscibile per gli innumerevoli lucchetti degli innamorati. Un istante dopo una lama brilla nella notte e la testa della donna rotola via. Incastrata tra due colonnine del parapetto sembra sorridere ad una splendida Roma by night.

Giorno due
Il capitano dei carabinieri Federico Mirabile arriva a Ponte Milvio per unirsi alla squadra omicidi che fin dall’alba è sul luogo del delitto.
“Uno spazzino l’ha trovata poco prima dell’alba. L’ho lasciato andare perché sconvolto” riferisce il maresciallo Giulia Trevi.
Il capo della scientifica Luciano Rodolfi: “è stata decapitata nella notte, forse tre ore fa. Devo comunque prima portare il corpo in laboratorio e procedere alle analisi di routine”. Il dottor Rodolfi lo chiamano “lo scozzese”, per via del pelo rossiccio su tutto il corpo. “Forza capitano, è ora di entrare” e, così dicendo, guida la squadra verso il tendone.
S’avviano verso il lampione centrale attorno al quale entrano ed escono carabinieri in tuta bianca. Rodolfi indica una scatola piena di mascherine, sovra scarpe e guanti di gomma.
Prima d’entrare lo scozzese afferma: “la donna è stata decapitata con una spada. Ha un solo taglio sul collo e, ad una prima analisi, non mostra segni di stupro”. Il maresciallo Giulia Trevi si morde un labbro: è alla sua prima indagine.
Sul parapetto del ponte c’è il corpo di una giovane donna senza testa nella posizione in cui l’assassino l’ha sorpresa, con le braccia rigide oltre il parapetto. Sulla sua maglia grigio perla la luce delle lampade batte in modo spettrale.
Un carabiniere si sente male ed esce di corsa dalla tenda.
“La vittima non aveva documenti?

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Una buona ragione... per essere ammazzato

Se il bersaglio è buono,
la freccia colpisce meglio.


Le perplessità del commissario erano palesi, la ricostruzione sembrava credibile, razionale, l'unica possibile, troppi particolari però gli parevano forzati e costruiti. Come comprare un puzzle con le tesserine numerate. Troppo semplice.

"Sembra di plastica", puntuale la sua frase preferita quando qualcosa non lo convinceva.

Non si poteva ritenere un esperto, erano passati almeno dieci anni dall'ultimo caso di omicidio, anzi l'unico. Un uxoricidio risoltosi con una confessione in piena regola, dopo che per un niente la pratica non era stata archiviata come tentativo di furto finito tragicamente. Al giovane commissario, che già si era fatto notare per la sua ostinazione, era sembrato tutto troppo facile e aveva continuato ad indagare finché non era riuscito a individuare la falla. Una caratteristica che aveva mantenuto nonostante il destino gli avesse riservato una vita quasi tranquilla: un emiliano atipico, riservato e solitario con pochissimi amici, in un Commissariato di provincia lontano dalla vita caotica della metropoli. Di buona cultura e una meticolosità caratteriale che invecchiando era diventata quasi mania.
Svolgeva tutto con grande professionalità, che si trattasse di furto di biciclette o di rapina. Figuriamoci l'attenzione per un delitto. E che delitto!
Un assessore ucciso nel suo ufficio richiama l'attenzione della stampa nazionale, delle televisioni, per non parlare dei politici, del prefetto. Come sempre in queste situazioni molti tentavano di sfruttare la vetrina, altri temevano per quanto avrebbe potuto emergere da una indagine approfondita. Non a caso crescevano di ora in ora le pressioni e qualcuno cominciava già a suggerire che si trattasse di un caso troppo delicato per un commissariato minore. Era abituato a non farsi condizionare, a non dar troppo ascolto alle apparenze e decise di partire dall'unico elemento davvero oggettivo:

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   5 commenti     di: Ivan


L'ombra della morte (Cap. 1)

Otto e mezza di lunedì mattina appena passate. Dalla finestra del mio ufficio guardavo le persone indaffarate nello shopping natalizio, chiedendomi dove avrei passato il Natale. Mi alzai e andai in mensa per un rifornimento di caffeina. Due colleghi si avvicinarono e mi posero la fatidica domanda
<<Dove passi il Natale?>>
<<Ho in programma un pranzo in famiglia.>> risposi, mentendo spudoratamente.
<<Noi abbiamo organizzato una festa tra colleghi.>>
<<Dove?>> chiesi, fingendomi interessato.
<<In un locale a pochi chilometri da qui.>>
<<Ah. Beh, non contate su di me.>>
<<Ok. Però a capodanno ci sarai, vero?>>
<<Certo.>> avevo risposto poco convinto.
<<Comunque se dovessi cambiare idea…>>
<<So dove trovarvi.>>
“Passerai il Natale da solo come gli altri anni” pensai.
Mentre bevevo appoggiato al muro della sala relax sentii squillare il telefono nel mio ufficio. Alzai la cornetta al dodicesimo squillo e temetti che avessero riagganciato, quando sentii la voce del sovrintendente Corsi chiamarmi per grado.
<<Ispettore Morante?>>
<<Si.>>
<<È arrivata una segnalazione di un cadavere ritrovato tra i rifiuti alla discarica comunale.>>.
<<Va bene, Corsi. Grazie.>>
“Si può morire il giorno prima di Natale? Non dovevano essere tutti più buoni a Natale?” pensai scendendo le scale che conducevano in garage.
Salutai l’agente di guardia all’ingresso e svoltai con la mia auto sul lungomare.

Arrivai alla discarica mezz’ora più tardi, a causa del traffico natalizio.
Scesi dall’auto e una ventata d’aria gelida mi ricordò che non avevo preso la sciarpa dall’ ufficio. Imprecai tra le labbra e mi avvicinai alla scena del delitto.
Un’agente mi riconobbe e sollevò la striscia fluorescente della polizia di stato, facendomi passare. Riconobbi una collega accanto al lenzuolo che copriva il cadavere e mi avvicinai.
Si chiamava Alessandra Montevago, era alta, castana, ab

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   3 commenti     di: Emilio Algerino



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