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Racconti gialli

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I bambini smisero improvvisamente

I bambini smisero improvvisamente di correre, richiamati dagli strilli dei gabbiani, che a stormi, ruotavano su di un punto al di là di una duna, a non più di cento metri dal bagnasciuga dove stavano giocando.
Elio, il più grande della banda, assunse immediatamente il comando del gruppo e comandò che si marciasse in fila indiana fino a quel posto. Non che si sentisse del tutto a proprio agio, ma l’essere il“capo” comportava di queste responsabilità, e poi, un duro come Elio la paura non sapeva (quasi) cosa fosse.
Ci vollero pochi minuti, ma durante quella marcia silenziosa, disturbata dalle strida sempre più acute degli uccelli, i cinque ragazzini ne fecero di pensieri strani, e Gianni, il più piccolo sia d’età che di taglia, fu il primo a rompere il silenzio ed esclamare :”Cavolo, ragazzi, ricordate quel ch’ha detto Suor Riccarda? Non allontanatevi mai dalla spiaggia della Colonia PER NESSUN MOTIVO!!! E chi disobbedisce finirà in punizione in ginocchio sui ceci!”
Un brivido percorse tutti i membri del gruppo, Suor Riccarda era di fatto lo spauracchio degli ospiti della Colonia Marina Orfani E Trovatelli Della Santa Croce, una donna giovane e magari anche piacente ma dal caratteraccio di un cerbero, ma tant’è oramai s’era in ballo e bisognava proseguire.
A pochi metri dalla duna, mentre erano a circa metà della collinetta cominciarono a sentire tutti quell’odore dolciastro e nauseabondo che emana sempre, qualcosa che marcisce, Sabrina, l’unica bimba del gruppo a quel punto ebbe un sussulto, lei quell’odore, l’aveva già sentito pochi mesi prima, quando dopo una settimana dalla scomparsa, aveva infine ritrovato il suo piccolo Ciccio, il bastardino biondo unico amico della sua infanzia desolata; in un fosso poco distante il Convento, morto, sicuramente sbranato da randagi più grandi e certamente più cattivi del povero innocente cagnetto. “Adesso troveremo un altro povero cane morto “pensò; e una lacrima in ricordo del suo amico apparve f

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   2 commenti     di: luigi deluca


Giocattoli

Rumore dietro la porta. È arrivato il momento. Mi ero illuso che questa volta l'avrei fatta franca, che questa volta non avrei dovuto farlo. Ma non è così, per l'ennesima volta non è così.
Continuo a sentire quel rumore dietro la porta, tra poco non potrò più nascondermi, tra poco dovrò vedermela con lei. Ancora una volta. Il rumore di passi diventa sempre più vicino, poi di colpo smette, guardò la maniglia abbassarsi e la porta schiudersi lentamente ma con decisione. Come se lei volesse godersi quel momento, come se traesse gioia dall'umiliarmi, dallo sminuirmi. E so che è così, è stato sempre cosi.
Alla fine la porta si apre. Il rumore di passi ha prodotto la figura di una donna nel vano della porta, ha partorito i centoventi chili di mia madre sull'uscio. Lo fa di nuovo. Non ho mai capito come ci riesce ma lo fa di nuovo: mi trova all'istante all'interno della stanza. L'ambiente non è certo enorme, tuttavia è ingombro di cianfrusaglie e mobili più o meno malandati, ma il suo sguardo mi individua in un attimo, come se al momento di entrare già sapesse dove mi trovo, come se riuscisse a vedere attraverso i muri e le porte chiuse.
I suoi occhi mi trafiggono. A volte, ma molto raramente, mi accorgo che vorrebbero essere dolci ed amorevoli, che vorrebbero essere gli occhi di una madre che guarda il suo unico figlio, ma quegli occhi mi provocano sempre la stessa sensazione: farmi sentire inadeguato, aver deluso tutte le sue aspettative. Aver fallito in tutto nella vita.
I suoi occhi mi si fissano addosso come calamite, passano alcuni istanti durante i quali mi sembra che il tempo si fermi, sento i battiti del mio cuore accelerare, mentre il respiro diventa affannoso. Finalmente quegli occhi mi si staccano di dosso, ma solo per individuare la causa del mio disagio. Non ho il tempo di rallegrarmi per i suoi occhi che mi lasciano, che mi accorgo che essi guardano anche con peggior cipiglio quello che c'è sul pavimento. Mia madre lo vede facilmente,

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   1 commenti     di: NeroLate


Chiavi & misteri

Questo racconto è nato per una nota manifestazione bresciana riguardante il giallo, e l'anno con cui ho partecipato al concorso per le scuole "A qualcuno piace giallo" i testi da presentare dovevano presentare i personaggi o stili del romanzo giallo tipico di Agatha Christie.

Io ho deciso di far vivere il mio racconto ai suoi 2 personaggi meno noti... i coniugi Beresford magari meno soprendenti di Ercule Poirot o Miss Marple ma ugualmente intelligenti ed interessanti, ora vi lascio alla lettura del mio:

CHIAVI & MISTERI

Personaggi:

Thomas (Tommy) e Prudence (Tuppence) Beresford:
Una simpatica coppia di coniugi investigatori inglesi.

Miss Helene Mahy:
Giornalista libera, residente a Toronto, da ormai 20 anni, negli ultimi mesi, si stava occupando di un articolo “scottante”.

Clarissa (Cle) Lake:
Psicologa d’origine irlandese, amica fidata di Miss Mahy e Mrs Beresford.

Ashley Lake:
Figlia adottiva di Clarissa Lake.

Lady e Miss Carson:
Madre e figlia.

Miss Mary Johnes:
Erpetologa francese, vicina di appartamento di Helene.

Mr. Jerome Dart:
Imprenditore

Mr. Jonathan (Jhonny) Dart:
Figlio di Jerome Dart.

Commissario Westall:
Un gigante buono, grande e grosso, dagli occhi di bambino.







C’è strana posta, oggi, per i coniugi Beresford.
Oltre alla solita posta, nella cassetta delle lettere, c’è una busta di carta azzurro-verde, con un non so che d’infantile. Sembra che faccia parte di uno di quei set che si regala ai bambini, di carta colorata, magari con qualche decoro o disegno, come alcune di quelle buste in cui si mettono le cartoline d’auguri…
La lettera viene da molto lontano. Ha attraversato l’Atlantico, per arrivare lì da loro. Viene da Toronto, in Canada, ed è indirizzata alla signora Beresford.
Albert, il domestico di famiglia, ha raccolto da poco la posta e ora la sta portando alla coppia. Andiamo a vedere cosa succederà…

I P

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Nel nome del padre (Quarta parte)

Il forte puzzo che emanavano i corpi bruciati era insopportabile. Le piogge di quei giorni erano venute in soccorso ai vigili del fuoco alleviando i nostri olfatti, ma non i nostri cuori.
Una stima iniziale aveva contato cinque cadaveri carbonizzati. Quando accorremmo sul posto, trovammo un uomo ancora vivo, ma completamente ustionato. L'ambulanza l'aveva caricato nella speranza di riuscire a scortarlo fino all'ospedale, ma a metà strada aveva spento le sirene.
Era passata una settimana dall'omicidio del Valentino, tre giorni da quello delle Molinette, e appena qualche ora da questo, poco distante da Piazza Castello.
Le lesioni riscontrate dai referti autoptici avevano parlato chiaramente: chiunque fosse stato ad uccidere l'uomo ritrovato nelle acque del Po, aveva utilizzato un oggetto contundente e rotondo, facilmente riconducibile ad una mazzetta. La causa del decesso non era stata la caduta. I rigonfiamenti avevano accertato la presenza di liquido nei polmoni: era morto per annegamento.
Dopo un'accurata ricerca, eravamo convinti che gli omicidi fossero collegati, e lo credevamo per il fatto che nei giorni precedenti avevamo incontrato i parenti delle vittime.

"E se il collegamento fosse il peccato?", chiesi in centrale ad una delle tante riunioni.
Lentini e LoRusso si fissarono. Infine quest'ultimo inarcò le sopracciglia e mi chiese perplesso: "E in che modo lo sarebbe?"
"Pensateci. Il killer uccide sempre in coppia. La moglie subiva forti percosse dal marito, che aveva il vizio del bere. Il peccatore e la vittima."
"Sì, ma questo non prova niente."
Senza distrarmi andai avanti nella mia ipotesi. "È stato inoltre confermato da amici e parenti che l'uomo saltato in aria fuori dell'ospedale era una persona estremamente avida. Guarda a caso è morto facendo l'elemosina."
"Beh, ma questo smonta tutto. È avido e fa l'elemosina?", chiese Lentini.
"È proprio questo il punto. Se il killer sta in qualche modo giocando con i

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   4 commenti     di: Roberta P.


CAPPUCCETTO ROSSO

- La nonna è scomparsa. Nessuno tornerà alle sue cose se prima non salterà fuori! ?" esclama l’ispettore dei carabinieri Bongiorno. Hanno così inizio gli interrogatori.
La prima ad essere chiamata è la mamma di Cappuccetto Rosso. Il brigadiere, carta d’identità della signora in mano, legge ad alta voce:
- Nome Mirella, cognome Tonatoni, professione venditrice.
- L’ha riconosciuta? - sussurra sottovoce l’ispettore all’orecchio del brigadiere.
- Come no! - esclama il brigadiere - Mia moglie vorrebbe anche un autografo. È una delle protagoniste indiscusse del mondo delle televendite, presenta Aspettando le Bellissime.
L’ispettore mantiene un’aria professionale e dice:
- Signora Tonatoni si concentri, sto per farle una domanda da un milione di euro.
La donna assume un’espressione seria e, cuffie alle orecchie, ascolta la voce dell’ispettore.
- Sono pronta?" afferma la bionda mozzafiato e, subito, parte il cronometro alla parete.
- Dove si trovava ieri pomeriggio alle tredici e quaranta in punto? ?" chiede l’ispettore.
- A casa, ?" risponde pronta la Tonatoni?" in attesa del rientro di Cappuccetto Rosso dal bosco.
Incalzante, l’ispettore passa alla seconda domanda:
- Perché la piccola si trovava nel bosco?
- Per far visita alla nonna, come sempre il venerdì pomeriggio dopo scuola - conclude la donna.
- Era al corrente che il bosco è frequentato da gentaccia, come il Lupo cattivo? ?" parte di corsa l’ispettore.
- No, certo… se lo avessi saputo non l’avrei mandata da sola - risponde confusa la donna e, la sua esitazione, la porta subito fuori tempo.
Il gong suona inesorabile.
- Ha fatto malissimo?" conclude l’ispettore?" a causa della sua imprudenza la nonna chissà dov’è finita.
Togliendosi le cuffie la donna esce dalla cabina. È in lacrime. Il brigadiere l’accompagna fuori dalla stanza.
L’ispettore, occhi di ghiaccio, chiama: - Avanti il prossimo.
Entra il Lupo cattivo co

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Empatia

Il direttore dell'azienda condusse me ed il mio partner Aquilani fino alla stanza degli spogliatoi maschili, e spiegò: "L'hanno trovato qui due ragazzi verso le undici. Aveva finito il turno."
Abbassai gli occhi: il corpo se ne stava in terra coperto da una cerata gialla. C'era odore di disinfettante, segno che i ragazzi del coroner avevano ripulito il sangue.
Mi misi sulle ginocchia e scostai appena la cerata. Nel vedere i suoi occhi spalancati, mi ritrovai a pensare a quanto doveva aver sofferto a beccarsi dieci coltellate, e a sapere di star morendo. Socchiusi per un istante i miei, nel vano tentativo di scordarmi il suo volto straziato. Poi lo ricoprii e mi alzai.
Mi imposi con le mani sui fianchi, e osservai il posto: era uno stanzone stracolmo di armadietti, e poco illuminato.
"Chi ha accesso all'area riservata al personale?", domandai.
"Nessun altro. I dipendenti sono gli unici a poter entrare qua."
"Quanti ne conta più o meno questa azienda?"
Il direttore ci pensò su e consultò il collega.
"Circa trecento."
"Immagino che tutti disponiate di un passi o qualcosa del genere."
"Sì, naturalmente."
Il secondo uomo però obbiettò quasi subito.
"Beh, non è del tutto esatto. I tirocinanti e gli stagisti non ne possiedono."
"E per entrare o uscire come fanno?", chiesi io.
"Suonano il campanello, e gli addetti alla sicurezza aprono."
Annuii e feci qualche passo per ispezionare il posto.
Non sapevo bene il perché, ma quella stanza aveva qualcosa di familiare. Forse mi ricordava un po' i miei primi giorni all'accademia di polizia, quando passavo le mie pause immersa in stanzoni silenziosi alla ricerca della solitudine e della quiete.
Tornai alla realtà e mi rivolsi al direttore dell'azienda, e al suo vice.
"Gli agenti resteranno qui per recuperare più materiale possibile, il coroner porterà via il corpo. Verranno affissi i nastri gialli e fino a che non avremo terminato di ispezionare la zona, nessuno potrà

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   15 commenti     di: Roberta P.


Amnesia

Mi ero risvegliato nel letto di un ospedale. Ero solo. Mi ricordo ancora il freddo, quel freddo che mi penetrava le ossa, e mi faceva tremare. E il buio che mi circondava. Un buio confuso come i miei ricordi. Si, sapevo chi ero. Non avevo perso la memoria. Ma la domanda a cui non sapevo dare una risposta era come mai mi trovassi lì, in un letto d’ospedale, solo. La mia mente era annebbiata, confusa. Qualcuno dapprima mi disse che avevo avuto un incidente in autostrada. Un semplice, banale incidente. Di quelli che capitano a decine tutti i giorni. Non so dire ora perché, ma a quella spiegazione, semplice e frettolosa non avevo mai creduto. L'ultimo ricordo che la mia mente metteva a fuoco era una lettera. Una lettera scritta a mano. Una calligrafia rotonda, un cuore disegnato in basso con un pennarello rosso. Un nome. Livia. Si, Livia la ricordo. Il suo corpo snello e le sue labbra, quelle labbra che ho sognato ininterrottamente per quattro anni, da quando la vidi per la prima volta a scuola. E ricordo anche i suoi occhi verdi, e i suoi capelli castani e quel modo di fare, sicuro, consapevole di essere desiderata, ammirata, amata da ogni persona. E io ero tra questi. In realtà non pensavo che si fosse neanche mai accorta di me. Io sono sempre stato troppo timido. Quelle rare volte che mi aveva rivolto la parola avevo fatto la figura del perfetto idiota, balbettavo, tremavo. Eppure ero certo di quello che ricordavo. Ricordavo che tenevo una sua lettera in mano. E ricordavo quel piccolo cuore rosso al fondo. Che fossi io il destinatario? Magari si era resa conto che io ero diverso dagli altri. Si, perché io la amavo. Ma non amavo di lei solo il suo aspetto fisico, attraente ed eccitante, amavo di lei tutto. La sua sicurezza. Il suo modo di essere sempre al centro dell’attenzione, era un sogno per me. Un bellissimo sogno. Ma non ricordavo solo lei. Ricordavo anche Carlo e Marco e i nostri progetti di un week end in montagna. I miei amici. Carlo detto Bongo per

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   4 commenti     di: giulio c.



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