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Racconti horror

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Cose oscure

Sara continuò a singhiozzare. Sola, nell’oscurità, si rannichiò nel suo lettino con le sbarre di legno; era ancora piccola e sarebbe potuta cadere dormendo. Suo padre l’aveva spinta nel corridoio, facendo stridere le rotelline di plastica montate quello stesso sabato pomeriggio, dichiarando che lui e mamma volevano stare un po’ soli. Ma Sara non aveva inteso ragioni; aveva cominciato a piangere e i suoi avevano dato poca importanza alla cosa, prendendo quelle lacrime per degli stupidi capricci. E così, quella sera stessa, era stata messa nel corridoio, nonostante le sue proteste; era troppo piccola per poter esprimere il suo senso di angoscia e di terrore se non piangendo a dirotto. Come avrebbe potuto spiegare altrimenti, che, quando si resta da soli al buio, accadono cose spaventose, cose orrende e che, se non ci sono i tuoi genitori a proteggerti, possono farti del male, strisciando silenziosamente nell’oscurità e avvicinandosi sempre di più...
Stringendo il suo peluche bagnato dal pianto, Sara si addormentò. Si svegliò poco dopo, gli occhi ancora umidi, spalancati in un’espressione di sorpresa : da sotto la porta dell’ingresso filtrava un filo di luce bianca; dapprima tenue, poi sempre più intenso, fino ad illuminare il freddo pavimento di marmo. La piccola ora tremava, non riuscendo a fare altro che gemere sommessamente, mentre la porta si apriva con un sinistro cigolio: una luce abbagliante e poi più nulla.
Il mattino dopo i genitori di Sara, aprendo la porta della camera da letto, trovarono il lettino vuoto e il peluche sul pavimento; la porta era chiusa a doppia mandata e le chiavi erano sul tavolino dell’ingresso. Sconvolti, si precipitarono al telefono per chiamare la polizia, non notando neppure le screziature corvine, che si diramavano da sotto la porta, allungandosi verso il lettino come le nere braccia della morte.



La donna del lago

"Le dirò la verità, non credo molto nella psicoanalisi se sono qui è perché ne ho provate tante. È una vita che tento di uscire da questo incubo, è diventato impossibile, se non risolvo..."
"Va bene, andiamo con calma. Da quello che ho capito questo disagio se lo porta dietro da molto tempo, quanto?"
Filippo Moroni era sdraiato sul divano dello psicanalista Carlo Sigismondo, un eletto nel settore, le sue sedute erano rinomate e la sua parcella era talmente elevata da incidere sul ripristino psico-salutare del paziente.
"La prima volta è successo a sei anni, anni di incubi persistenti che poi sono passati fino a sei mesi fa, quando sono ricominciati. Non voglio tornare nell'angoscia, nel tormento. Voglio uscirne. Questa volta dev'essere definitiva".
Lo psicanalista stava seduto alle sue spalle, le gambe incrociate e sopra un quadernino su cui segnava le parole che si ripetevano o che sembravano la chiave per aprire ambienti ormai stagnanti nella mente del paziente.
"Cominciamo dall'inizio, quando lei aveva sei anni. Cosa è successo?"
Filippo sospirò, la stanza era leggermente buia, chiuse gli occhi e con gli occhi della mente tornò nel lontano 1981, quando era un felice bambino di sei anni in visita dalla nonna.
"Quell'estate i miei genitori decisero di fare una crociera da soli e mi lasciarono nella villetta di mia nonna in campagna. Quella era la casa dove era cresciuto mio padre, poco lontano dal paese di Montespertoli; vicino c'è un grande lago dove puoi fare gite in barca. Amavo andare da mia nonna, avevo delle amicizie con i bambini delle case vicine, ero libero di giocare per la campagna senza essere sorvegliato e questo mi faceva sentire grande e autonomo. Ero contento di andare là."
"Un giorno fu organizzato un picnic insieme ad altre famiglie sulle rive del lago. La mattina tutti i bambini fecero il bagno, abbiamo giocato con la palla in acqua, io quell'inverno avevo fatto il corso di nuoto e mi sentivo importante perc

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   10 commenti     di: Paola B. R.


Spettri di carne

Ne sono ormai circondata. Sono ovunque, non posso più resistere alla vista dei lori ghigni macabri e spenti di ogni emozione che sia di questa Terra.
A questo punto non mi resta altro da fare, se non pensare che è tutto un incubo. Che mi sveglierò. Che mi ritroverò con i capelli incollati alla fronte sudata, col cuore che sembra scoppiare dal petto, ma consapevole di essere lontana da ogni pericoloso incubo, dalla paura che temo di avere ogni qualvolta mi si ripresentano. Loro mi parlano, mi scrutano, mi avvinghiano, mi toccano, mi odono. Loro sono tutto quello che una normale anima rifugge, disperatamente cerca di non conoscere mai nella vita.
Loro sono l'orrore.
Sto scrivendo queste parole con mano tremante e malferma, sudando come una fontana, mentre la penna quasi mi scivola dalle mani.
Potrei morire, lo sento. Sento l'alito gelido e forte della Morte sulla mia pelle. Potrei sprofondare nell'oblio, ma è fondamentale per me che nessuno possa dimenticare quello che sto provando. Un giorno qualcuno comprenderà.
Sono rinchiusa nel bagno di casa mia, loro mi hanno raggiunta pure fin dentro la mia dimora, che fino a poche ore fa era il luogo nel quale poter rifugiarmi da loro, sicura che in questa prigione d'oro avrei potuto trovare solo riposo e sicurezza. Ero sicura che non avrebbero potuto intaccare la mia già vacillante salute mentale, non qua dentro. Sarò stata evidentemente troppo ottimista, perché adesso hanno trovato anche la mia casa.
Mi perseguitano, mi vogliono morta, vogliono trasmettermi quel potentissimo virus che hanno in corpo, e vogliono farlo uccidendomi.
Ma adesso sto divagando, deve restare una testimonianza, una prova che faccia capire in futuro alla gente, se ce ne sarà in grado di comprendere; che sono savia, che le mie continue paure sono soltanto frutto di oggetti reali.
È cominciato tutto sei mesi fa.
Era una sera d'estate, nell'aria si potevano percepire i dolci odori tipici delle serate estive, e tutto e

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   1 commenti     di: Fabiana Caserra


Incubo

C'è freddo. Freddo e buio.
È la prima cosa che Alyce nota non appena apre gli occhi.
Freddo, buio, e un odore selvatico, come di corteccia e foglie bagnate.
Muove qualche passo e sente uno scricchiolio sotto i piedi nudi: un ramo. Si guarda intorno, aguzza gli occhi, che iniziano ad abituarsi alla semi-oscurità che la circonda, e capisce di trovarsi in un bosco.
Gli alberi sono alti e fitti, dai i tronchi sinuosi e puntati al cielo come le spade di un esercito. Il terreno ai suoi piedi è ricoperto di foglie screziate di marrone e di giallo. Una strana foschia avvolge l'ambiente all'altezza delle sue ginocchia.
Si guarda: indossa un abito bianco, lungo e scollato, tenuto su da due sottili spalline che quasi le scivolano dalle spalle. Ha i capelli sudati e appiccicati sul collo e sulle guance, il petto ansante e il cuore in gola, come se avesse corso - ma lei non ricorda di averlo fatto.
Tutto ciò che Alyce ricorda è di aver dato la buonanotte a sua madre, aver indossato il pigiama ed essere andata a letto, come ogni sera. Perché si trova in quel posto? E dove si trova, di preciso?
D'un tratto, una serie di fruscii e scricchiolii di rami spezzati le rivelano che non è sola. Inizia a correre all'impazzata, travolta da un terrore primordiale e assoluto, che le azzera la mente e le contorce le budella fin quasi a farla star male. Quella che prova mentre scappa non è la classica fifa che un essere umano sperimenta abitualmente nel corso della sua vita quotidiana; non è la paura che precede un esame, o un prelievo del sangue, o che accompagna la visione di un film dell'orrore. È la Paura che una preda prova poco prima di essere brutalmente divorata, la Paura che ti spinge a vomitare i tuoi polmoni pur di scappare il più lontano possibile; un sentimento antico e selvaggio come la morte.
Continua a correre, poi si ferma, perché non è mai stata una grande atleta e adesso si sente come se ogni parte del suo corpo stesse per esplodere. Crolla al suolo,

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Chi è più blue?

La notte, lungo le calli veneziane, puoi sentire solo te stesso, il lento e ovattato rumore dei tuoi passi sulle pietre, il tuo respiro, mentre l'umidità ti entra fin dentro il midollo.
Un uomo di mezz'età, dall'aria imponente e severa, cammina parallelo a un canale, fiero e implacabile, una quercia non piegata dal vento che si sta sollevando sulla città.
Sembra non andare in nessuna particolare direzione, indifferente alle sporadiche persone che incontra, all'improvviso rallenta fino a fermarsi, i suoi occhi attirati da una qualche improvvisa apparizione.
Seduta su uno scalino che dà sul canale c'è una figura, piccola e piegata su se stessa, che cerca di ripararsi con l'enorme zaino da quell'improvviso vento gelido.
L'uomo le si avvicina con circospezione: è una ragazza giovane, molto giovane, dall'aria smarrita.
Pare non accorgersi della sua presenza, finché lui non le parla.
- Si è persa, signorina? Ha bisogno di aiuto?
Si volta a guardarlo, non sembra spaventata da quell'enorme e improvvisa presenza maschile a quell'ora tarda, addirittura balena un'ombra di sorriso in quel volto pallido che contrasta con i capelli scuri, sporcato dal pesante trucco degli occhi che si è sciolto.
- In realtà non so dove andare... Ho speso quasi tutti i soldi per il biglietto del pullman e per un hamburger...
La situazione si fa interessante...
- Non conosce nessuno qui a Venezia che possa ospitarla?
- Veramente no... Non so nemmeno perché sono venuta qua. Una volta, anni fa, ci sono venuta in gita con la mia classe. Ero stata felice... forse per questo ho deciso di tornarci... ma non mi rendevo conto di quanto fosse cara...-
Nei suoi occhi appare un'ombra di malinconia, è sola, sicuramente fuggita da casa, infreddolita, eppure non sembra intimorita. Forse è abituata a quella vita, probabilmente è anche tossica.
Molto probabilmente...
- Quanti anni hai?
Ne dichiara diciotto, mente ovviamente... non può averne più di sedi

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   1 commenti     di: Sabrina Abeni


MYSKI - Il mattino

Ho deciso di iniziare a scrivere la mia schifosa …
Si!!! La “mia schifosa”... la o il “MYSKI”, la definirò così quella frase.
Può essere interpretata come un’ ora, una settimana, un anno, una cosa, una persona o forse tutta la MYSKI vita e tutto ciò che sono costretto ad incrociare… sempre… ogni giorno.
Uno stress incredibile da nascondere continuamente, per non sembrare un malato di mente quale già appaio, causa di irrefrenabili istinti omicidi che non controllo.
In quei momenti perdo la ragione. Esco dal MYSKI corpo. Mi gira la testa e di colpo vedo tutte le cose e le persone di color rosso fino a sbiadire in un bianco che non mi fa vedere più niente. Non distinguo più nulla per qualche secondo e un brivido mi scende lungo le mani, fino a farmi tremare la punta delle dita. All’improvviso mi riappare tutto davanti, con la sola voglia di annientare e far sparire tutto definitivamente dalla MYSKI vista.
Finora questi istinti omicidi li ho controllati, ma domani? Chissà?
Aspettando domani continuo a scrivere…

Il “MYSKI” mattino!

Urla terribili mi sfondano i timpani. Stanno sgozzando due maiali con un coltello da trenta centimetri, appesi a testa in giù, agganciati al paranco per il nervo dello stinco.
Un frastuono incredibile causato da uno dei due porci che afferra con i denti il secchio nel quale sta scolando il suo sangue. Lo lancia contro il muro imbrattandolo di rosso. L’odore acre si spande in tutta la stanza.
Mi sveglio di colpo sobbalzando nel letto. Una goccia di sudore mi scorre dalla fronte scendendo sul MYSKI viso, fino a perdersi nella barba incolta di una settimana. La mano mi formicola, visto che ci ho dormito sopra una notte intera. Il cuore batte talmente forte che sembra non riesca più a contenerlo all’interno del torace. Le orecchie mi scoppiano… forse per la troppa pressione del sangue. Accendo la luce ed infilo un dito dentro l’orecchio per controllare che il sangue non stia schizzand

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Soviet Superman

Mosca, ore 4 del mattino.
Anatoli si alzò da terra confuso, trovò un appoggio al bordo del lavandino sopra di lui.
Si muoveva frenetico, la testa scattava a destra e sinistra, il collo si contraeva, faticava a deglutire.
Attese una parvenza d’equilibrio tra uno spasmo e l’altro; cercò la tasca dei pantaloni e vi infilò la mano tremante.
Tirò fuori una banconota da cento rubli, l’arrotolò sottile, a forma di cannuccia. I suoi occhi s’incontrarono nel vetro dello specchio. Si perse nel suo stesso sguardo alla ricerca di un particolare, un ricordo: non trovò che il vuoto. Interdetto, abbassò gli occhi; estrasse dal taschino della camicia una piccola scatola di latta, color verde menta; l'aprì.
Posò il contenitore sul ripiano del lavandino, schiacciò con l’indice la narice destra.
I suoi movimenti iniziarono a rallentare. Impiantò un lato della costosa cannuccia nella narice sinistra, l'altro, nella scatola colma di polvere bianca. Tirò su l’aria e la cocaina discese nel cavo orale.
Rapido, con la fronte aggrottata e le palpebre chiuse, cambiò narice. Ancora un lungo respiro. Un dolore acuto percorse il suo corpo, lo sentì scorrere nella testa, insinuarsi nelle viscere, arrivare alle ginocchia. Alzò nuovamente lo sguardo, gli occhi opachi, il volto pallido. Il dolore lasciò il posto a un rilassato torpore e questa volta, nello specchio, apparvero le prime memorie di quella notte.
Ricordò di essere nel bagno della discoteca più cool di Mosca: il Soviet Superman; ricordò di avere una terribile paura di morire.
Anatoli avverti il cuore accelerare i battiti, una grancassa picchiava al centro del petto.
Una fitta alla tempia lo fece barcollare. Si girò, guardò l'uscita del bagno, faticava a mantenere l’equilibrio.
Sinuosa, una figura femminile teneva poggiata la schiena verso la porta d'entrata.
La musica arrivava forte, incalzava fastidiosa come le grida selvagge che si rincorrevano nella pista da ballo. La donna guard?

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