La cena era appena cominciata; avevano almeno un quarto d'ora buono di tempo.
Anna si fermò davanti alla porta della diciannove, si guardò intorno, poi provò ad inserire la chiave.
- Dai, muoviti - disse Bart, continuando a lanciare occhiate al posteggio deserto ed alla porta principale del motel. Evidentemente il non sentire il misterioso ospite lo aveva turbato tanto che ora si fidava più della propria vista che delle proprie percezioni.
Anna armeggiò con la serratura per ancora qualche lunghissimo istante. Le tremavano le mani e non riusciva ad introdurre la chiave. Finalmente vi riuscì e fece scattare la serratura.
Il click metallico del chiavistello sembrò loro risuonare come uno sparo. Per qualche istante rimasero immobili, trattenendo il fiato, come se da un momento all'altro tutte le persone presenti nel motel dovessero riversarsi fuori sulla veranda, attratte da quel fragore.
- Dai, muoviti - il primo a riscuotersi fu Bart.
Anna non se lo fece ripetere: sospinse la porta, che cigolò con un lamento che sembrava lo strazio di un animale ferito - da quanto tempo nessuno oliava le porte delle stanze - e sgusciò dentro, seguita da suo fratello.
Si richiusero la porta alle spalle.
Un fioco chiarore filtrava dalle tende della finestra, che erano chiuse.
Strano, pensò Anna mentre i suoi occhi si abituavano all'oscurità, di solito aprire le tende è la prima cosa che si fa entrando in una stanza. Invece le lunghe tende che arrivavano a terra erano chiuse, esattamente come le lasciavano le cameriere, e solo un filo di luce contornava i bordi del pesante tessuto.
Davanti a loro c'era quello che avevano visto migliaia di volte: una stanza di motel. Il letto matrimoniale con di fronte una piccola scrivania, sulla sinistra un armadio, sulla parete opposta alla porta la finestre. A sinistra la porta socchiusa del bagno. Una poltrona in un angolo completava l'arredamento.
Bart fece qualche passo verso il centro della stanza. Il copriletto era pe
-Quando sono arrivata qui, non era come ora- diceva a tutti "La Pazza" , una vecchia, curva, di cui tutti, persino lei, ne ignoravano l'età e che viveva da sola.
Aveva il corpo ricoperto da strane ferite e graffi profondi ormai cicatrizzati, che avevano contribuito a darle quel soprannome.
Era rimasta vedova da tanti anni, ma aveva avuto una bambina, che giocava quel giorno, vicino all'edificio appena costruito dove erano arrivati tanti nuovi amici.
E non era più tornata.
I bambini, si sa, inventano le cose, ma "Il Rosso" sembrava convinto di quel che diceva e piangeva disperato davanti ai poliziotti e alla madre che, arrabbiati, gli dicevano di dire la verità.
La verità era quella: l'aveva presa l'Edificio!
Veniva chiamato così quello stabile di cinque piani costruito nel dopoguerra.
In quegli anni, poche erano le persone che avevano visto un simile mostro d'acciaio e cemento poiché arrivavano quasi tutti dalla campagna in cerca di una situazione di vita migliore in fabbrica, in città.
Erano abituate a grandi cascine con molte stanze, dove abitavano più famiglie e dove, per avere acqua, dovevi andare al pozzo, fuori in cortile.
In città ogni famiglia aveva la propria abitazione e l'acqua arrivava direttamente in cucina, dal rubinetto.
Quasi una magia.
Dove avevano costruito l'Edificio, c'erano i resti carbonizzati di un antico rudere, circondato da grandi campi coltivati, ma all'improvviso, tutto fu recintato e ci furono scontri fra i proprietari terrieri e le forze dell'ordine.
C'era un mandato della contea e non si poteva discutere.
Lì sarebbe nato un palazzo di cinque piani e avrebbe dato rifugio alle famiglie dei venti nuovi operai che avrebbero iniziato a lavorare alla grande fabbrica della città!
Era stato messo ai voti democraticamente.
I più anziani, li avevano avvertiti, quelli là, i capi cantiere, di non fare niente... loro non sapevano... non erano del posto.
Ma veniva riso loro in faccia dicendo che le superstizioni non po
Un fine pomeriggio nuvoloso e triste raggiungo a piedi il palazzo dove abitava lo zio. È un edificio con l'intonaco scrostato e l'erba che cresce sui tetti.
Entro dall'androne.
"Sono venuto per il funerale... Vorrei vedere lo zio..." dico al portiere deforme con la faccia grossa piena di foruncoli seduto dietro il banco.
Lui prende una chiave dalla casella e me la porge:
"Ultimo piano. Penultima porta in fondo al corridoio".
Le scale sono malrischiarate dai finestroni sporchi. Salgo appoggiandomi alla ringhiera in ferro e arrivato in cima percorro un corridoio oscuro con le piastrelle che traballano.
Attaccato alla penultima porta qualcuno ha appeso un cartello con la scritta: <<Lutto di famiglia>>.
Apro. La porta di legno stride orribilmente raschiando sul pavimento. Odore di cera e di fiori appassiti.
Una stanzetta semibuia con gli attaccapanni. Un'altra porta aperta che conduce in cucina.
La bara sta al centro su due cavalletti. Intorno ci sono alcune sedie scompagnate, qualche mazzo di fiori...
Lo zio è dentro alla cassa aperta, col coperchio posato per terra. Due candele ardono quietamente in silenzio. Mi avvicino di più e guardo dentro alla cassa.
Lui sta disteso, come in attesa... Attorno alla testa ha un tovagliolo annodato per tenere chiuse le mascelle. Il viso è rasato e sembra di cera. È vestito con giacca blu notte, pantaloni nuovi dello stesso colore; camicia bianca e cravatta azzurra. In vita non lo ho mai visto vestito così elegante. Forse questo abito non lo ha mai messo conservandolo per il futuro...
Le fiamme delle candele si sono mosse. C'è una corrente d'aria da qualche parte.
Il volto è bianchissimo, gli occhi chiusi. Sembra che dorma. È così forte l'impressione che sia addormentato che a volte mi pare che il torace si sollevi nel respiro. Ma no. È solo suggestione. A forza di fissarlo non sono più sicuro di niente. Provo a toccargli una mano. È fredda e dura come il marmo.
Il tempo passa, gocciola lentamente nella
La barba lunga porta prurito, troppo prurito e questo lo sapeva bene; ma non gliene fregava un cazzo. Si limitava a grattarla come un forsennato soprattutto nei pressi del pomo d'Adamo.
Spense l'ennesima cicca nel posacenere che ormai strabordava di mozziconi puzzolenti... ma anche di questo non gli importava nulla. Il cuscino verde scuro (come il resto del divano) su cui teneva poggiata la testa tendeva a cadere e quindi lo aggiustò, mettendosi anche più a suo agio. Si limitava a guardare il soffitto, lasciando che il fiume dei pensieri scorresse libero nella sua testa: un fiume inquinato, lurido, spiacevole era quello che lo attraversava. Ma si doveva per forza pensare? Non c'era un modo per non pensare? No. Non c'era. Ma c'era un modo per rendere i pensieri più piacevoli... MOLTO più piacevoli. Si mise a sedere e non potè non pestare le numerose lattine di birra e i cartoni di pizza che giacevano sul tappeto. Si alzò e si diresse in cucina, dove i piatti, invece di stare nei ripiani sopra il lavandino, stavano dentro il lavandino con la compagnia di numerose mosche e moscerini. Ma anche di questo... non gli importava un figo secco. Si sedette al tavolo dove una volta avrebbe trovato un'ottima pietanza preparata da un altrettanto ottima donna. Ma ora su quel ripiano c'erano soltanto scatole di cibo cinese, posate in plastica e riviste strappate. Con un energico gesto del braccio spazzò via tutto. Estrasse dalla tasca dei jeans una bustina, iniziò ad aprirla ma si fermò. Nel posto in cui era seduto vedeva la sua immagine riflessa nello specchio del forno, iniziò a piangere come un bambino: non riusciva a credere che quell'uomo era lo stesso di quello di una volta. Forse era uguale l'involucro esterno, ma all'interno erano cambiate molte, molte cose. Si girò a guardare la parete, solo che ora vedeva un quadro che raffigurava un galeone al largo accompagnato dal sole al tramonto. Questo gli evocò alla mente quando suo figlio, all'età di circ
Ho ottenuto il posto di guardiano notturno a motivo della mia malformazione alla gamba. Un altro tizio aveva raggiunto un punteggio più alto del mio, ma all'ultimo momento ha rinunciato all'incarico.
Così eccomi qui, completamente solo, in questa fabbrica di verdure conservate. Sono le 1 e 45 di una notte di novembre. Stando dentro alla guardiola sento dei rumori in lontananza. Sono colpi ripetuti a volte forti a volte appena percettibili.
Decido di fare un giro di ispezione nel magazzino.
Il magazzino è un locale sopraelevato pieno di scatole, pile di lattine, una basculla e un montacarichi... Fuori dalle finestre il vento fa oscillare la lampadina sul cortile affossato, pieno di botti. Le lance in ferro del cancello creano ombre dentate. La fabbrica è vecchia e avrebbe bisogno di riparazioni.
Intanto il rumore è cessato. Dopo un po' riprende di nuovo.
Entro nella sala del lavaggio e cammino sul pavimento allagato. Alla cruda luce delle lampade vedo tutto in ordine. I lunghi tavoli di smistamento, la caldaia nera. Il nastro forato per calibrare le cipolle, la trancia per le carote, rape, cetrioli... Tutto è immobile e sembra abbandonato per l'eternità. C'è freddo e silenzio qui dentro. Il rumore sembra provenire da più lontano.
Apro un'altra porta e scendo giù per ispezionare le cantine. La fila di lampadine sotto il soffitto rischiara l'ambiente basso e umido, pieno di botti. Silenzio opprimente. Forte odore di salamoia.
Quando apro la porta della cantina successiva sento rumore di passi e un respiro profondo. Tiro fuori la pistola e faccio scattare l'interruttore delle luci gridando: "Chi va là?"
Con precauzione cammino fra le botti. Non c'è nessuno qui. Penso che forse ho sentito male o forse saranno stati i topi.
Improvvisamente sento una corrente di aria fredda sulla schiena. Mi volto di scatto. Nulla. La porta dietro è chiusa.
Apro la porta successiva ed entro nel deposito dei tini per l'aceto. I tini alti sui piedistalli torreggiano sc
Un cupo e possente rombo devasta il silenzio del posto dimenticato da Dio che prende il nome di villaggio di Marik.
Le vecchie case tremano come alberi scossi dal vento, per quanto la detonazione sia avvenuta a chilometri di distanza da qui.
Dannazione.
'Sono il tenente Ivo Serlianovic, e vi guiderò fino alla morte' avevo giurato quando era iniziata questa maledetta guerra. A quanto pare è giunto il momento di terminare il mio lavoro.
Affacciato alla finestra senza vetri della casa in cui ho fatto dislocare i miei commilitoni, un temprato manipolo di undici uomini, duri come l'acciaio, posso vedere i bagliori dell'esplosione. È avvenuta a nord, deve aver colpito una città di cui nemmeno gli abitanti sapevano nemmeno il nome. E nemmeno io avrò modo di controllarlo, visto che la cartina di questi maledettissimi luoghi è andata in fiamme insieme a molte altre cose utili, come la radio.
Sono rimasto il più alto graduato, ma per quanto sia giovane ed inesperto, i miei uomini mi hanno dato la loro fiducia e continuano a fidarsi di me, anche in un momento come questo.
Un dannatissimo gruppo di serbi in mezzo alle linee della Federazione, non siamo altro che questo...
In un villaggio isolato a una sessantina di chilometri a nord di Sarajevo, siamo davvero soli.
Comincio a dubitare dei serbi di Bosnia che siamo venuti ad aiutare. Le forze della repubblica srpska ci hanno lasciati qua, in mezzo al nulla, in un territorio sconosciuto.
Dannati bastardi.
È stata una grazia del cielo trovare Marik, un minuscolo villaggio abbandonato, in cui però grazie a Dio abbiamo trovato un tetto sotto cui riposare e molti oggetti utili, come viveri e coperte, che gli antichi proprietari hanno lasciato nel turbinio della fuga.
"Tenente, venga subito!"
La voce giovane del soldato Miric richiama subito la mia attenzione. Comincio a camminare verso l'esterno, dove si trova il ragazzo, producendo battiti ritmici con il rumore degli stivali sul legno del pavimento.
FASCICOLO N. 23 ( PROGETTO BLUE BOOK)
FBI HEADQUARTER, WASHINGTON D. C.- 14 NOVEBRE 1988 Agente Spencer Rymer
Martedì 2 ottobre 1988, il sessantacinquenne Henry Miltz, scomparve misteriosamente mentre percorreva la statale A34, una strada periferica nei pressi di Bellefleur, nell'Oregon. La sua auto, una Ford Fiesta grigia, con la scritta NICE TO MEET YOU coreografata sul tettuccio di essa, venne trovata sul ciglio della strada dolcemente posteggiata vicino ad alcuni alberi. Al suo interno non venne rinvenuto nulla di anormale, e di strano c'era solamente la portiera del conducente aperta di pochi centimetri. Quel giorno, a testimoniare quella "improvvisa mancanza" del signor Miltz, c'era anche il mio collega, l'agente speciale Morris Colemann, che insieme a me rimase stupefatto di una così totale assenza di indizi che permettessero di trarre una prima ipotesi. A circa duecento metri dalla macchina, all'interno del bosco, e più precisamente in una radura chiamata DEEP GROVE, gli agenti di Bellefleur trovarono una sorte di macchia circolare che aveva letteralmente bruciato l'erba al suo interno.
Quando io e l'agente Colemann arrivammo sul posto, notammo anche noi la strana macchia su tre metri di diametro, e da subito, (in realtà la mattina seguente, poiché erano già le due di notte passate), allestimmo una zona di protezione, dove la scientifica del nostro dipartimento cercò chiarire una prima dinamica dell'accaduto. Una settimana dopo quello strano fatto, nessuno giunse ad una minima ipotesi che fosse in grado di spiegare la scomparsa di Henry Miltz, nemmeno grazie alle risposte che io e il mio collega ricevemmo dai parenti ed amici dell'uomo. Mailtz era stato un pluridecorato dalla marina, aveva lavorato come pilota collaudatore oltre che ad essere un esperto di missilistica. La sua residenza è stata verificata in Rusbery Road, Bellefleur, insieme alla moglie e ai due figli.
Il 4 novembre 1988, poco più di un mese dopo la scomparsa, un cicl
Questa sezione contiene storie dell'orrore, racconti horror e sulla paura