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Racconti del mistero

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LIBERO ARBITRIO?

LIBERO ARBITRIO

MARZO 1990
"Sono solo ora, nella stanza dell'ufficio ove lavoro. Sono andati via tutti; no, che dico? È rimasta la segretaria.
La sua stanza e' lontana dalla mia. Meno male, nessuno mi disturbera'!
Il giornalino dei pronostici della corsa tris, come sempre, alle mie spalle, in uno scomparto dell'armadio. Lo prendo.
È il momento più bello questo, per un giocatore! E non solo nel gioco, come diceva il Leopardi nel suo sabato del villaggio. L'attesa, la speranza... uff... speriamo che stavolta...
... uff... che strana sensazione!
Ho i brividi! Che succede?
La mia mente viaggia a ritroso nel tempo.
Ed ora, perche' sto ripensando a quel matto di Christian? Che tipo, interrogava i morti, come lui diceva; con il pendolino!
Anche un bambino se ne accorgeva. Era lui che muoveva impercettibilmente la mano.
Perche' mai poi con me? Voleva convincermi, ah! ah!... Che strano... e se veramente poi fosse? Magari funziona!
Ah! Ah! Forse sara' che, come quasi tutti i giocatori, sto diventando superstizioso! Che strano poi questi giocatori! Tantissimi lo sono!
Credono che il risultato finale di una corsa puo' essere influenzata dall'aver precedentemente visto un gatto nero, o dalla richiesta inopportuna da parte di qualcuno di accendergli la sigaretta.
Credono, insomma ad una forza misteriosa, elusiva, invisibile, che si accanisce contro di loro e li "Fa Perdere"!
Che infatti poi perdono sempre.
Tutta la vita, continuano a perdere!..
Tutta la Vita!"

GENNAIO 2004
All' epoca, l'idea era quella di interrogare un defunto. Qualcuno che mi desse la possibilita' di Vincere. Sembrava uno scherzo... lo era... ma nonostante cio' ero pervaso da una particolare e strana sensazione, incredibile, che non valutavo essere una specie di autosuggestione; anche perche' non credevo a quello che stavo facendo!
Mi "armai" di chiave e spago e feci un "pendolino casereccio". Su di un foglio disegnai un cerchio diviso in ventiquattro sett

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   4 commenti     di: Phil Ethasimon


Supercortemaggiore (prima parte)

Accadde nel primo pomeriggio del quinto giorno, il secondo dopo il grande diluvio. Per le striminzite esperienze di noi bambini di strada una pioggia come quella che si era abbattuta sul paese era paragonabile solo a un diluvio. In effetti non avevamo mai visto piovere così tanto e con tanta intensità, una pioggia torrenziale che aveva oscurato il cielo per tre giorni ininterrotti. Eppure era iniziata come una normale pioggia, e nemmeno tanto scrosciante, goccioline fitte, a volte a raffica secondo la direzione del vento, poi in meno di un'ora era aumentata d'intensità fino a diventare "iradiddio". Era iniziata verso le undici del mattino cogliendoci lontano dalle nostre case e costringendoci ad un'affannosa corsa per raggiungerle e dove, peraltro, ci arrivammo inzuppati fradici. Rimettemmo il naso all'aria aperta solo tre giorni dopo, pressappoco alla stessa ora, e per settantadue ore restammo rintanati con il viso appiccicato ai vetri delle finestre a guardare la pioggia. Per strada si venne in breve a formare un torrente in piena che trasportava dai rioni alti sassi, melma e quant'altro trovasse sul suo cammino.
"Gesù, quanta ce n'è!" esclamò mio fratello maggiore con gli occhi sgranati dallo stupore.
"Madonna mia, che paura mi mette" disse la mamma facendosi ripetutamente il segno della croce.
"speriamo che non succeda nulla" sussurrò il babbo con lo sguardo fisso rivolto a chissà quale lontano e triste ricordo.
Infine fece capolino una specie di nebbia causata dalla violenza della pioggia che sollevava da terra degli spruzzi così intensi da farli sembrare tale. In alcuni momenti di maggiore visibilità pulivo accuratamente i vetri dal vapore del respiro e scrutavo le case circostanti nella speranza di scorgere i volti dei compagni che immaginavo come me incollati ai propri vetri. Riuscii solo a intravedere Acquasanta per alcuni minuti sull'altro lato della strada e fu un'esplosione di grida eccitate, ben presto sedate dai genitori. Poi, di consegue

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   4 commenti     di: Michele Rotunno


Il condominio

Improvvisamente a Milano dove un tempo c’era il luna park delle Varesine, in viale della Liberazione, è cresciuto in pochissime settimane un nuovo condominio. Gli abitanti della zona se ne accorsero solo quando il nuovo grattacielo con la sua altezza nascondeva a loro la luce del sole.
Il palazzone era enorme, bello a vedersi e realizzato con materiali che sembravano molto costosi. Tre porte d’ingresso, cinque ascensori, quindici piani e dai cinque agli otto appartamenti per piano.

Il caseggiato era di forma quasi circolare, sembrava un grande cilindro non chiuso, l’unico anello completo era quello del tetto che ricopriva tutto il palazzo e faceva da grande e altissimo arco nella parte dove l’edificio rimaneva aperto. Dentro c’era un piccolo giardino ben curato, alcuni giochi per i bambini, lo scivolo, l’altalena, delle panchine per le mamme e qualche pianta.
All’esterno la facciata, di ferro e grandi finestre di vetro brunito, era perfettamente liscia. Gli unici balconi si aprivano sull’interno, mentre il tetto dalla morbida forma ricurva era un enorme terrazzo verde di piante e colorato di fiori diviso in più parti a seconda del numero degli appartamenti sottostanti. C’era qualcuno che aveva fatto mettere anche una piccola piscina privata.

Dall’alto dei quindici piani si godeva una vista spettacolare e unica in tutta Milano. Nelle giornate limpide le montagne di Lecco sembravano talmente vicine da poterle quasi toccare. Si vedeva il grattacielo Pirelli, la Madonnina del Duomo, e la stazione di Porta Garibaldi così piccola da sembrare quasi un modellino. Insomma era un condominio di grande prestigio. Fuori sul portone c’era ancora un cartello che diceva: “vendesi appartamenti signorili di diverse metrature”.

23 maggio. Il signor Umberto Pirola era lì fuori seduto su una panchina che aspettava l’agente immobiliare per andare a vedere una proposta di vendita. Era un uomo di circa sessant’anni, preciso e abitudinario. Guard

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Tornando a casa

Tornando a casa.



Chicago, novembre 2006.

Era davvero un’impresa titanica, alzarsi quella mattina, fare i conti con un nuovo giorno, con nuove e terribili fatiche…
Ogni volta, prima di riordinare i pensieri e di realizzare di essere davvero sveglia, Chloe si stiracchiava pigramente e ancora più mollemente si girava e rigirava nel suo morbido e avvolgente letto, sospirando e rivolgendo il primo pensiero mattutino alla sua magnifica ossessione….
Chissà se anche lui, il suo Alex, era solito pensarla all’alba di ogni nuovo giorno; ma no!, conoscendolo, era molto probabile che preferisse dedicarsi con tranquillità alla toilette, sorseggiando un buon caffè caldo, accompagnato dalla lettura quotidiana delle sue riviste preferite. Spesso Chloe lo immaginava compiere questi gesti abitudinari e avrebbe tanto voluto essergli accanto nel momento del risveglio, quando Alex si preparava ad uscire dal bellissimo attico in cui viveva, situato nel centro della vitale e magnifica Chicago.
Osservando il soffitto color lilla della sua graziosa camera da letto, Chloe pensava che Alex fosse diverso da lei, nel senso che non possedeva, per fortuna o sfortuna sua, quella sfumata sensibilità (tipica, invece del proprio carattere) che si esplicava in attese trepidanti e in improvvisi gesti d’amore del tutto irrazionali.
No, non era proprio il tipo. Era però, fuori ogni dubbio, forte e concreto, qualità che avevano fatto breccia nel cuore di Chloe.
Perdendosi in queste ed altre infinite elucubrazioni della mente, la ragazza guardò allarmata l’orologio. Erano gia’ le sette del mattino, e con rassegnazione, cominciò a vestirsi in fretta, sbirciando, distrattamente ma con approvazione, la sua immagine riflessa nello specchio della camera da letto. Voleva che il suo aspetto fosse ordinato ed impeccabile, nonostante fosse stata assunta per i suoi meriti e non per la sua avvenenza; ci teneva comunque, a non sfigurare con il capo, ma soprattutto con le co

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I fantasmi del passato.

Mattina presto.
Malgrado non ne avesse più bisogno non riusciva a svegliarsi più tardi delle 7.
Mancanza di bisogno di sonno o indotto senso di responsabilità?
Se lo era chiesto tante volte; senza risposta, come tante altre domande.
Un’occhiata alla stanza, sempre la stessa.
Sorrise pensando al disordine che regnava nella sua casa.
Malgrado tutti i buoni propositi nessuno aveva come dono quello dell’ordine.
Una famiglia tutto genio e sregolatezza, pensò dirigendosi verso la cucina per prepararsi il primo caffè della giornata.
In una mattina simile di molti anni prima si era trovato davanti alla prima vera responsabilità della sua vita: comunicare la morte del fratello più piccolo al fratello superstite.
Lo aveva incaricato la zia da cui erano stati mandati la sera prima.
Una telefonata durante l’ora di cena.
I genitori che scappavano e gli lasciavano confuse istruzioni, l’arrivo dei nonni, una seconda telefonata che aveva fatto stare male il nonno, la corsa alla ricerca di una medicina per il cuore.
In quel momento aveva realizzato che il più piccolo della famiglia era morto.
Il trasferimento dalla zia e quella strana sensazione…… doveva sembrare tutto normale.
Passata la notte e arrivata la luce del giorno però il mistero doveva però essere svelato.
Era stato scelto lui. Non gli sembrava possibile. Ancora non aveva inteso cosa volesse dire MORIRE e doveva comunicarlo al fratello.
Lo aveva fatto. Aveva immaginato pianti, disperazione, recriminazioni. Invece nulla. Aveva continuato a giocare al piccolo flipper di plastica rispondendo un semplice “lo so’.
Come tante altre volte si trovò a pensare se e quanto questo lutto avesse modificato la sua vita.
Ma la caffettiera cominciava a borbottare.
Si versò un’abbondante dose nella grande tazza e prese a sorseggiare la bevanda bollente.
Una volta la prima tazza di caffè era necessaria per accendere la prima sigaretta della giornata.
Da tempo aveva smesso. Era una cosa

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Racconto onirico [secondo quadro]

Metamorfosi...
La febbre era scesa, ma mi sentivo tutto in subbuglio e in testa avevo un dolore opprimente. Mi trascinai per prepararmi un caffè. Vidi apparire mio fratello sui gradini della cucina. Gli chiesi se avesse sentito rumori o voci. Niente. Aveva dormito come un sasso.
"Vivo stati di allucinazione!". Raccontai dell'incontro con la bambina e la donna, delle voci della notte.
"Saranno stati gli effetti della febbre". Mi disse.
"Forse! Ma le immagini, le voci, i rumori sembravano reali! È come se stessi comunicando con un altro mondo!".
"Cosa vuoi dire?".
"Mi giungono frammenti di un'altra realtà. Ieri sera ho visto un'ombra di donna dietro i vetri. Quella figura cercava qualcuno... forse cercava me".
"Perché ti cercava?".
"Non lo so! Ma tra lei, la bambina, la vecchietta, il procuratore, l'uomo dalla voce tagliente c'è un legame invisibile".
"Vedrai, non appena la febbre cesserà, anche queste alterazioni scompariranno!".
"Mi dispiacerebbe, perché sento di essere in contatto con un'altra realtà, sto comunicando con qualcosa di diverso".
"E se si trattasse di un incubo?".
"Allora mi sveglierei".
"Non capisco".

Sentivo da lontano un suono di fisarmonica. La febbre cominciava a risalire. Entrammo in un antro di cantina. Si sollevarono grida di saluti. Mi trovai seduto di fronte a zio Giovanni. Aveva gli occhi lucidi e brilli. Una comitiva mangiava e beveva. Avevano allestito una lunga tavolata di legno. Tre ragazzi con in mano un bicchiere accompagnavano cantando il musicista.
Ci sedemmo di fronte a zio Giovanni e bevvi un primo bicchiere di vino.
Posai il bicchiere vuoto sul tavolaccio.
"Vuoi che te lo riempio io?". Disse zio Giovanni.
Qualcosa m'aveva disgustato nelle parole, nel tono, nel movimento delle labbra e degli occhi, nel modo di gesticolare.
Lo guardai torvamente e gli dissi con un sorriso di sfida: "Ti piacerebbe? Eh?!".
Lui si girò dalla parte di mio fratello e fece finta di non dare peso alle mie parole.
"Ti curi a

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   2 commenti     di: Bruno Corino


L'uomo al balcone

Un uomo stava affacciato al balcone del secondo piano di una strada assai trafficata e osservava il caotico via vai d'auto, moto o autobus e l'intenso scorrere dei pedoni. Le ore scivolavano via una dietro l'altra, ma lui restava immobile notte e giorno su quel balcone, insonne.
L'uomo al balcone era depresso, viveva solo ed era disoccupato. In effetti era depresso proprio da quando era disoccupato, sostituito nelle vecchie mansioni da moderni macchinari e sconfitto nella sua ricerca d'una nuova occupazione dalla crisi economica, in quel periodo al suo apice. Aveva perciò perso l'equilibrio interiore e per giunta aveva cominciato a soffrire d'insonnia. Si girava e rigirava nel letto senza riuscire a dormire più di un paio d'ore e intorno alle cinque del mattino era già in piedi, più stanco di quando si era coricato.
Non sopportava né di star chiuso tra le mura di casa né d'uscire col rischio d'incontrare conoscenti a cui dover spiegare la propria triste situazione. Abbattuto com'era non desiderava frequentare né donne né amici. Inoltre aveva perso interesse verso qualsiasi svago, sport, cinema, internet, musica o lettura che fosse. Non aveva addirittura nemmeno più voglia di guardare la tv.
Così aveva preso l'abitudine, appena fatta colazione, di sistemare una sedia sul balcone, poggiare i gomiti sulla ringhiera e trascorrere lì le giornate, incurante perfino del sole, che sorgeva intorno alle nove da dietro l'edificio in diagonale e irraggiava la sua postazione durante le sette otto ore successive. Rientrava nel piccolo appartamento quasi solo per mangiare e dormire e usciva da casa appena due o tre volte la settimana, verso le 12, 30, quando i negozi erano semivuoti, giusto il tempo per comprare lo stretto necessario dal panettiere e dal fruttivendolo all'angolo.
Si era installato sul poggiolo ad aprile, non appena il clima di quell'inverno particolarmente freddo e piovoso aveva cominciato a permetterlo, e non lo aveva più abbandonato. Vi resta

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   12 commenti     di: Massimo Bianco



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