Osservo, dalla mia prospettiva ma ti osservo.
In questo momento scruti il monitor, avverti una presenza.
Poggio le mie mani sulle tue spalle, senti un brivido scorrerti lungo la schiena.
Ti osservo, vedo il tuo dolore x una vita che non vive.
Getta la maschera, confessa il fallimento.
A cosa è servito? A cosa serve?
Vivi come una cavia da laboratorio in un mondo che non ti appartiene, che senti finto, di plastica.
Eppure ti osservo ugualmente.
Sento i tuoi pensieri, i tuoi piagnistei.
Quanto recrimini, forse è ora che ti sussurri all'orecchio che sei unicamente responsabile di questa catastrofe.
Sorrido, sorrido osservando la tua reazione.
Mi fa piacere che anche tu sorrida, anche se in fondo alla tua anima sento la paura, la paura di tanti fantasmi che lottano x risalire, si spingono, calpestano, pur di risalire dalla feccia in cui li hai cacciati.
Sono incazzati neri.
Cambi espressione, li senti, vedo che li senti.
Un brusio lontano che cresce, un bruciore che dallo stomaco sale come ai vecchi tempi.
Hai seppellito tutto.
Siamo bravi a fingere vero?
No, non sono qui per esigere nulla, sono cazzi tuoi.
Posso solo sussurrarti nelle orecchie come ho sempre fatto, e come farò nel tempo a venire che tu lo voglia o meno.
Sarebbe un buon inizio se togliessi la maschera e riconoscessi che è stata tutta una recita, anzi che È tutta una recita...
Il maalox, non serve amore mio.
Il primo fantasma ha raggiunto la gola, ansima x la stanchezza.
Li ha battuti tutti, gli altri sono scivolati di nuovo in basso, è il più potente e in fondo l'ha sempre saputo.
Quanta violenza vero? Quante sottili sevizie.
È così difficile oggi scindere il reale dalla fantasia.
Come puoi sapere se è reale questo fantasma? Non lo rammenti.
Che importanza può avere? Che sia esistito o meno nel passato ora non conta per una qualche ragione è qui, ed è reale, Dio se è reale.
"Panico".
Non senti la sua felicità nel rivedere la luce?
Soffochi?
Vuoi che ti a
Patrick Dempsey quella mattina pensò di avere le allucinazioni quando, guardando fuori dalla finestra del suo ranch vide una persona avvicinarsi barcollante. La figura distava ancora più di duecento metri ma l'avrebbe notata chiunque in mezzo a quel nulla che la circondava.
Patrick infatti non stava a Sidney, oppure a Melbourne; in quel caso non si sarebbe stupito più di tanto di tale presenza. L'uomo da dieci anni a quella parte abitava in quello che veniva chiamato il Grande Scudo Australiano, ai margini del deserto Gibson, uno dei luoghi più inospitali della terra. Per la precisione stava a Farina, 600 chilometri a nord di Adelaide; trattandosi di sole tre case che costeggiavano la strada non poteva nemmeno essere definito paese.
Patrick, assieme ad una giovane coppia ora in vacanza, era l'unico abitante. Per trovarne altri era necessario percorrere alcuni chilometri verso nord, oppure scendere a sud, verso Lyndhurst. Qui però la distanza da percorrere sarebbe stata maggiore.
Abbandonò la finestra e uscì all'aperto tenendo gli occhi incollati sulla figura che si avvicinava; qualcosa nella sua andatura non andava. Il passo non era regolare e sembrava trascinasse i piedi, quasi le mancasse la forza per alzarli.
Erano le nove del mattino e il termometro appeso all'esterno del ranch segnava già 34° gradi; il sole picchiava in maniera terribile e Patrick iniziò a chiedersi da dove arrivasse quello sconosciuto. Non essendoci molte alternative concluse che per forza di cose doveva provenire da nord: Country Rock era l'unico paese nelle vicinanze. Contava non più di cinquanta anime e trovandosi ad un paio di chilometri dal ranch, Patrick poteva tranquillamente vederlo dalla finestra di casa sua.
La persona era a meno di cento metri quando, dopo un passo completamente scoordinato crollò a terra di colpo. La caduta lo convinse finalmente ad andare ad aiutarla. Si mise a correre sulla sabbia a piedi nudi non facendo caso a quanto scottasse, oramai
Il rospo Armando
ovvero:
Favola bislacca
(cantabile)
anzichenò
per lettori miscredenti.
In quel giorno di vigilia ch’è del Santo Liberato, il pittore Gaetanino si portò con gran contegno verso casa del cliente, seco lui recando appresso cavalletto, arnesi, tela, e ogni sorta d’accessori che gli fosser di mestiere per portare a compimento il ritratto di un borghese, e cioè a dire d’un signore reso alquanto stravagante dalla morte della moglie - a prestare qualche fede ai racconti della gente.
Era questi?" si diceva?" un ex sarto, don Turiddu ’U maravìgghia, uomo ingenuo, assai sgraziato, e di cranio disboscato; grossi gonfi e fuor di testa gli occhi orrendi roteanti, ma in compenso alla bruttezza si può dire che esibiva con avvezza dignità quel curioso portamento conferito di diritto a chi si trovi, a Dio piacendo, nel prezioso e non ambito fiore di decrepitezza.
Sistemati in bell’assetto gli strumenti ed i suoi aggeggi, Gaetanino il ritrattista imprendette prestamente con bel garbo di maestro le movenze necessarie all’artista di gran pregio:
?" Don Turiddu, io vi faccio un servizio sopraffino, per cui Voi m’avete a dire quale posa preferite, che profilo Vi compiace… come debbo io effigiarvi…
?" Certamente, caro amico, proprio giusta la dicete, sono ormai molto convinto ch’è arrivata l’ora in cui più non posso rimandare una cosa assai importante: qui si tratta di affidare agli eredi ed ai parenti, agli amici, ai conoscenti un ricordo degno e sacro della mia persona stessa, per cui bando all’incertezza, e mettiamo mano all’opra che mi dia, come mi spetta, il conforto di sapere che quand’io già dipartito mi riempio la mia fossa non ci sia mai per nessuno titubanza o dubbio alcuno su chi occupa un tal sito.
Ciò dicendo,’u maravigghia, si sedette tutto tronfio su un scanno ben speciale: era infatti una poltrona di fattura bella e antica, messa in piedi con talento dalla moglie sua defunta, tutta a mano costru
Elise osservava il lago mutare colore, mentre il sole calava lentamente, inghiottito dalla linea infuocata dell’orizzonte. Un venticello lieve le metteva in disordine la corta capigliatura corvina, portandole alle narici l’odore dolce dello specchio d’acqua che si trovava a pochi metri di distanza da lei. Era seduta su una sedia a straio, sulla veranda del suo casale, sorseggiando un aperitivo, prima di cenare.
Il lago di Loch Ness, in quella sera d’ottobre, sembrava possedere un fascino particolare, intrappolato in uno scenario da fiaba, nel quale lei stentava ancora a credere di fare parte.
Era trascorso appena un anno da quando aveva sposato suo marito Cristian ed insieme erano andati a vivere nella città d’Inverness, dove lui possedeva quel casale, circondato dalla campagna e un’antica distilleria di whisky, ereditata dai suoi genitori. la quale si trovava a Tomintoul, sui monti Grampani.
Elise si portò il bicchiere alle labbra, sorseggiando lentamente il rosso contenuto, attendendo che il retrogusto amaro del suo bitter, prendesse il sopravento sulla dolcezza che le solleticava il palato.
Si sorprese a ragionare che la sua vita aveva qualcosa in comune con quella bevanda colorata. All’apparenza era piacevole, ma se si andava al di là di quella soavità rivelava la sua amarezza.
“Come sta la mia bella Elise, questa sera?” . La voce di Cristian le giunse alle spalle, ma ancor prima di udirla, avvertì il buon profumo dell’acquavite che si portava addosso dopo aver passato diverse ore nella distilleria di whisky.
Si sedette di fronte a lei in silenzio, accarezzandole una guancia. Elise rimase immobile per un istante, fissando il suo volto dai tratti delicati e i suoi occhi talmente verdi, da superare in bellezza il colore del lago, poi gli prese la mano, venendo a contatto con la ruvidità e il tepore del suo palmo.
“Mi sei mancato”, gli disse infine, “ho atteso per tutto il tempo il tuo ritorno”.
“Ti do la mia parola
questa mattina. . . rileggendo alcune delle tue mail, mi sarei fatto prendere volentieri dalla voglia di tornare a scrivere una poesia. . . ormai è da tempo che non lo faccio, da quando mi sentivo pieno d'amore
Oggi invece vivo giorni in cui mi sento vuoto. . . insignificante, eppure oggi avrei voluto tanto potesse essere uno di quei giorni di primavera, carico di colori di luce, di sole di silenzio.
Se lo fosse stato, avrei rubato questa giornata alla mia vita per regalarla alla mia voglia di vivere, in passata l'ho fatto tante volte. . . si, me ne sarei andato alla ricerca di un posto da poter definire tutto mio. . . e li me ne sarei stato da solo ad ascoltare il rumore della natura, delle onde, degli animali.
Ed invece. . . sono rimasto qui, tra il fare ed il pensare ha vinto l'illusione di tornare a fare. . . però, un sorriso me lo sono sentito nascere dentro, perchè ho capito che quella voglia di andare arrivava da te.
Sei tu che oggi mi hai fatto tornare ad aver voglia di scrivere, e non scrivere a caso ma tornare a scrivere poesie, che altro non sono che emozioni che sentiamo dentro, e che vogliamo cercare di trasmettere a chi ci sta intorno. . . a chi ci sta vicino, a chi vogliamo bene.
Piccole frasi gettate d'impulso per cercare di fermare come una fotografia ciò che in questo momento stiamo provando.
La mente corre veloce, e la mano tenta di lasciare impressa su un foglio di carta ciò che il pensiero ed il cuore ci suggerisce,
e lo fa senza nessuna selezione, senza correzioni, senza essere rivisto.
Questo modo di scrivere lascia a te che leggi lo spazio per interpretare quel che il mio messaggio vuol dire. . . . trasportare a te parte delle mie sensazioni sotto forma di parole. . . di sensazioni.
Oggi le emozioni sono pericolose, esiste l'organizzazione, esistono le regole,
la perfezione, l'apparire. . . si, l'apparire è molto più importante dell'essere.
Chi si ferma è perduto. . .è per questo che non si vede mai nessuno sedu
Mi svegliai nel cuore della notte tutto sudato. Non riuscivo a respirare. Pensavo fosse il raffreddore ed, invece, ero perfettamente in salute. Per modo di dire. Mi girai tra le lenzuola per un paio di minuti, poi, sopraffatto dalla nausea, mi mummificai guardando il soffitto. Respiravo a fatica, respiravo con la bocca. Tutto quello che avevo mangiato era dentro di me, ricordi, emozioni, sensazioni di un quotidiano fatto a mostro. Il sonno era svanito, la pesantezza mi opprimeva. Avevo voglia di urlare. Ci provai, ma non uscì niente dalla mia bocca. Un bruciore saliva dallo stomaco fino alla gola. Annaspavo nel mio stesso pensiero. Un toc continuo batteva nella mia mente. Urla, rumori, macchine e treni che ripetevano il loro squallido rumore nel mio cervello. Non ne potevo più. Volevo urlare, volevo girarmi, chiudere gli occhi e dormire. Così feci. Fu allora che vidi la sua faccia brancolare nel buio. Un breve riflesso della luna illuminava il suo sporco volto. Non aveva lineamenti. Semplici occhi, così come tutto il resto del suo volto. Quasi pareva un manichino, un manichino che fissava i miei occhi, che fissa quello che io non potevo vedere dentro di me. Ebbi paura, lo ammetto, ma non fu solo quello a terrorizzarmi. Una presenza sembrava avvolgermi tra le coperte. Non ero più padrone del mio corpo. Non riuscivo a muovermi. Solo lo sguardo fisso in quegli occhi da manichino. La luna splendeva fuori e il vento fischiava. Ho pensato sul serio di morire. Così sarebbe stata la mia fine, strozzato dai miei sterili pensieri, ucciso tra le bianche lenzuola nel cuore buio della notte mentre un manichino mi teneva compagnia. Poi qualcosa cambiò. Di preciso non so cosa, forse una chiave che finalmente trova il suo lucchetto. Sì, era una chiave, una chiave che gira e si spezza. Tutto il peso della giornata sul mio stomaco. Non riesco a respirare, sto per morire, questo pensai. Di nuovo quel toc, di nuovo quel martellante frastuono del quotidiano che si schiantava nel
[continua a leggere...]Mi ero soffermato a fissare un vecchio dalla folta barba, seduto lì su una panchina con quel che forse doveva essere il suo piccolo nipote.
Notai quei gesti, il sorriso, il modo delicato che aveva nel parlare, l'amore infinito che i suoi occhi trasmettevano.
Pensai allora che l'età non è la condizione della carne, ma l'evoluzione dello spirito..
Lo sguardo non invecchia mai, tutt'altro.. aumenta semplicemente d'intensità.
Io e Michael camminavamo in quel parco innevato di San Pietroburgo, ero trasandato come al solito, vestito di scuro, pieno d'anelli collane e orecchini.
Lui invece incarnava e trasmetteva quella perfezione che non m'apparteneva, la barba curata, un completo pulito ed elegante, gentile nell'incedere e nel fare.
"Perchè ti vesti così?".. Mi chiese, osservandomi appena.
"Credi che abbia importanza per noi?" Inarcai un sopracciglio, rispondendo senza fissarlo mentre un'altra sigaretta si fermava all'angolo delle mie labbra.
"Se incontri qualcuno che ti giudica per le vesti mio caro Michael, la colpa è solo tua, perché hai fatto in modo che i tuoi occhi e le tue parole valessero meno degli abiti che indossavi.."..
Sorrisi lieve, sbuffando verso l'alto il fumo, e notai il suo mormorare, quell'espressione che gli si dipingeva in volto ogni volta che era silenziosamente d'accordo...
"Tu appari spesso a loro.." era sottile il suo sguardo, fisso ora sulle persone, sugli uomini le donne e i bambini che vivevano senza accorgersi di noi, e lui li guardava, cercando di trarne una risposta dalla domanda che stava per pormi..
"Credi sia necessario?"..
Indicai una madre, poi alcuni ragazzi attorno alla fontana..
"Niente è realmente necessario, se noi non lo rendiamo tale Michael.."
Feci un altro tiro, poi ripresi.
"Io so soltanto, che alle volte gli uomini hanno bisogno.. bisogno di credere che il mondo non sia marcio, bisogno di credere che non sono soli quando tutto intorno a loro brucia e
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