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Racconti del mistero

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Com'è piccolo il mondo

Mi risvegliai, sudato ed ansimante, al centro del letto. Di nuovo quegli incubi, quelle dannate visioni. Sangue ovunque, in ogni incubo. E poi quella bambina….. Dio mio. Mi alzai dirigendomi verso la cucina, avevo sete. Vagavo, barcollando dal sonno, con il bicchiere in mano in giro per la casa. Accesi la luce all’ingresso, e mi apparve prontamente la mia immagine riflessa. Ero un cadavere. Avevo perso più di dieci chili. Tutto cominciò quando, una decina di giorni fa, dodici forse, il commissario ci mandò a recuperare quell’auto nel lago di Nosfe. Dal lago riemerse una vecchia auto con i finestrini chiusi, e nel suo interno c’era sangue ed ossa dappertutto. Sangue secco, che emanava un insopportabile tanfo, che mi sembrava di sentirlo ancora sotto il naso. Solo al pensiero lasciai cadere il bicchiere con l’acqua che avevo in mano, in quel monolocale mezzo buio. All’indomani del ritrovamento dell’auto cominciarono i sogni o per meglio dire, gli incubi: stupri, decapitazioni, omicidi di rara brutalità. Avevo paura di addormentarmi e mi toglievano appetito. Tutti gli incubi erano poi tramutati in realtà la mattina dopo da giornali e Tv. Rivedevo le vittime e le conoscevo. Ero in preda ad attacchi di depressione, non potevo parlarne con nessuno, mi avrebbero preso per pazzo. Però stavolta era un po’ diverso, non ricordavo nulla del sogno appena fatto, solo tanto tanto sangue, una bambina che mi fissava in modo abominevole, ed un nome e cognome: Melanie Moore. Quante Melanie Moore ci saranno a Londra? Stavolta il solo pensiero di sentire il nome di quella donna, domani mattina alla tv, mi faceva stare male. Se quello che mi stava succedendo, era di prevedere il futuro attraverso i miei macabri sogni, dovevo fare qualcosa o almeno provarci, evitare che si tramutassero in realtà, lasciarli nel loro mondo. Magari poi sarebbero cessati. Tutto sarebbe tornato normale. Mi vestii in fretta, presi l’elenco telefonico e uscii in strada. In giro solo putta

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   3 commenti     di: Mario Secondo


SPERDUTI - L'isola non ha finito con te

SPERDUTI
L'isola non ha finito con te...


INTRODUZIONE

Molto tempo fa, l'uomo era alla costante ricerca della verità, proprio come tuttora in fondo. A volte però, alcune risposte forse è meglio non conoscerle, per evitare così certe conseguenze spiacevoli. Nel mezzo dell'oceano, in costante movimento nel tempo, c'era un'isola tropicale. Era bellissima ed ospitava immense foreste ricche di frutta, diverse specie di animali, tra i quali alcuni estinti da anni, e immense montagne e vallate, tutte ricoperte di verde. Era un'isola sconosciuta e irraggiungibile dall'uomo, proprio per il fatto che si muoveva nello spazio temporale cambiando spesso posizione. Infatti nessuno ci aveva mai messo piede, profanando, così, forse l'unico luogo al mondo dove la natura non veniva modificata e rovinata dalle costruzioni artificiali. Nel corso dei secoli, solo il protettore dell'isola ci viveva sopra. Ciò che veniva protetto da generazioni, non era altro che una luce intensissima, proveniente dal centro di quest'isola e contenuta a sua volta sotto ad una grotta. Un giorno però, degli uomini arrivarono sull'isola e trovarono quella luce, cercandone un uso personale per poter abbandonare quel luogo maledetto e pieno di misteri, visto che era impossibile andarsene a causa del suo continuo movimento nel tempo. Alcuni riuscirono nell'intento, e raggiungendo tale luce, fecero sì che il tempo divenisse controllabile e manipolabile dalla mano dell'uomo. I danni furono irreversibili. Jackob, ora aveva bisogno di altre persone per proteggere quel posto, così si intromise nella vita privata di alcuni, secondo lui, candidati per tale ruolo, e li condusse con l'inganno sull'isola. Sceglieva persone sole, come lui, prive di uno scopo, e le convinceva a trovarne uno nuovo, più grande e più importante di qualsiasi altra cosa al mondo. Jakcob però aveva un fratello gemello. Era la reincarnazione del male. Quando vennero dati alla luce, alcuni secoli prima, la loro madre, ovvero

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   1 commenti     di: Mirko Raccardi


Matita e carta che generano un sogno

Non riuscivo a studiare, ogni tanto mi sporgevo alla finestra per guardare il cielo, era sereno, argentea era la luna. Ero solo in casa, i miei erano usciti, forse volevo piangere per solitudine, ma lo studio mi teneva impegnato. Poi mi misi a disegnare, sul quel foglio di carta bianca iniziarono a prendere forma delle cose un po' strane. Una sfera, una donna bellissima, la mia potente berlina, forse frutto delle mie fissazioni. Anche se disinteressato, completai il disegno e presi quel foglio di carta, lo stracciai tra le mani con violenza, e lo gettai sul pavimento, non dandogli completamente importanza, giaceva li come se aspettasse di essere spazzato via e gettato nell'immondizia.
Ma stava succedendo qualcosa, si alzò un  vento gelido dentro la stanza, gli appunti di matematica iniziarono a svolazzare ed a ruotare attorno a qualche cosa.
All'improvviso prese forma un fulmine globulare, si materializza all'interno della stanza, eppure fuori non c'è temporale, il cielo è sereno si vedono le stelle.
Quella sfera di energia bluastra, più scura al centro, si avvicina lentamente a me, come volesse sussurrarmi qualche cosa, ma inizia all'improvviso a danzare, a seguire percorsi irregolari come fossero quelli della vita, allora io iniziai a seguirla, nonostante sapessi il rischio che correvo, ma ero sicuro, mi fidavo di quella sfera, quasi intelligente.
Dentro di lei iniziai dunque a vedere diversi fasci luminosi,   si spostava sempre più velocemente, passava a traverso la persiana ed il vetro della finestra, si teneva lontana dalla pareti come se ne avesse paura, entrava ed usciva come se fosse in casa sua, quasi come se voleva sfidarmi.
Poco dopo uscì fuori, e si fermo li di fianco a quella potente berlina.
Allora presi le chiavi e salì in macchina, il fulmine globulare inizia lentamente ad avviarsi in avanti... lo seguo, mi cammina distante come se mi sfidasse alla corsa, allora io accelero a fondo e lo seguo... accelera vertiginosamente,   sembra

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   2 commenti     di: Luca Calabrese


DATEMI TEMPO

Datemi tempo di pensare.
Vedo immagini confuse, solo dei lampi dolorosi che dipingono immagini astratte sulla mia retina.
Ho avvertito un urto proprio sulla coscia.
Subito dopo ho sentito lo sparo... e poi quel bruciore insopportabile alla gamba. E subito dopo la percossa violenta al viso... una botta travolgente!

Bartolomeo era piuttosto rispettato, tra i bambini che trascorrevano i pomeriggi nei pochi metri di strada che univano viale Serao alla scalinata che scendeva al porto e che gli urbanisti della città avevano battezzato “vicolo Sponda”, mentre per i bambini era semplicemente “la vietta”.
Ad essere impietosamente sinceri incuteva più timore che rispetto; Bartolomeo ne era cosciente e, a dirla tutta, la situazione gli piaceva. Quel senso di autorità che riusciva ad imporre ai suoi coetanei era dovuto al suo metro e quarantasette per cinquantanove chili che gli davano di diritto i galloni di capo branco tra i “lupi della vietta”, il gruppo dei dodicenni del quartiere che si riunivano per giocare a pallone o per menarsi proprio nella “vietta”. Il luogotenente storico di Bartolomeo era Nando, suo compagno anche a scuola, lungo e magro, che tutti in sua assenza, chiamavano “il coniglio”, sia a causa degli incisivi gialli ed evidenti da roditore che per l’approcio timoroso che aveva nei confronti della vita.

Oltre ad essere grosso era anche bastardo, Bartolomeo:
- Nando, vedi quel tizio, lì all’angolo, col giornale? Facciamo che se lo becco alle gambe col pallone mi paghi un pralinato, se no te lo offro io...
- Perchè dobbiamo rompergli le palle, scusa? Tanto non ho soldi, oggi...
Bartolomeo inarcò le labbra in un sorrisetto diabolico, poi, stringendo il pallone al petto, diede una spinta a Nando, urlandogli:
- Vaffanculo... ce l’hai!
La sfida era partita, ora Nando doveva per forza rincorrere Bartolomeo e restituirgli la spinta, pena il disprezzo del branco, cosa che nemmeno un coniglio può tollerare.
Rincorrend

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L'osservatore

Osservo, dalla mia prospettiva ma ti osservo.
In questo momento scruti il monitor, avverti una presenza.
Poggio le mie mani sulle tue spalle, senti un brivido scorrerti lungo la schiena.
Ti osservo, vedo il tuo dolore x una vita che non vive.
Getta la maschera, confessa il fallimento.
A cosa è servito? A cosa serve?
Vivi come una cavia da laboratorio in un mondo che non ti appartiene, che senti finto, di plastica.
Eppure ti osservo ugualmente.
Sento i tuoi pensieri, i tuoi piagnistei.
Quanto recrimini, forse è ora che ti sussurri all'orecchio che sei unicamente responsabile di questa catastrofe.
Sorrido, sorrido osservando la tua reazione.
Mi fa piacere che anche tu sorrida, anche se in fondo alla tua anima sento la paura, la paura di tanti fantasmi che lottano x risalire, si spingono, calpestano, pur di risalire dalla feccia in cui li hai cacciati.
Sono incazzati neri.
Cambi espressione, li senti, vedo che li senti.
Un brusio lontano che cresce, un bruciore che dallo stomaco sale come ai vecchi tempi.
Hai seppellito tutto.
Siamo bravi a fingere vero?
No, non sono qui per esigere nulla, sono cazzi tuoi.
Posso solo sussurrarti nelle orecchie come ho sempre fatto, e come farò nel tempo a venire che tu lo voglia o meno.
Sarebbe un buon inizio se togliessi la maschera e riconoscessi che è stata tutta una recita, anzi che È tutta una recita...
Il maalox, non serve amore mio.
Il primo fantasma ha raggiunto la gola, ansima x la stanchezza.
Li ha battuti tutti, gli altri sono scivolati di nuovo in basso, è il più potente e in fondo l'ha sempre saputo.
Quanta violenza vero? Quante sottili sevizie.
È così difficile oggi scindere il reale dalla fantasia.
Come puoi sapere se è reale questo fantasma? Non lo rammenti.
Che importanza può avere? Che sia esistito o meno nel passato ora non conta per una qualche ragione è qui, ed è reale, Dio se è reale.
"Panico".
Non senti la sua felicità nel rivedere la luce?
Soffochi?
Vuoi che ti a

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L'Abbé Mauriac e il manoscritto perduto

Se c'è una morale in questo mondo
senza dubbio si nasconde molto bene.




Chi vuole uccidere il tempo? Con questa domanda surreale e inquietante iniziava il manoscritto dell'Abbé Mauriac. Un'opera destinata a disvelare, e forse a veder riconosciuta tutta la sua profetica forza, solo nella prima parte del terzo millenio. Ma che, nel frattempo, stava per procurare all'autore non pochi fastidi e sventure.

L'Abbé Mauriac era uomo di umili origini e media cultura, che però possedeva una dote invidiata da molti e posseduta da pochi. Questo lo rendeva inviso ai più. Specie a tutti coloro che nella gerarchia ecclesiastica si vantavano di avere cultura ben superiore alla sua. I cosiddetti luminari di Dio, i detentori di ogni conoscenza dei misteri della fede e del mondo e, come tali, i più titolati a discettare di qualsiasi argomento: divino o terreno che fosse. L'Abbé Mauriac aveva da poco compiuto ventinove anni ed era assegnato ad una piccola diocesi, sede dell'Abbazia benedettina di Cluny, con limitati compiti di routine. L'abbazia aveva ormai perso l'importanza da tutti riconosciuta durante il corso dell'Alto Medioevo, e sarebbe stata secolarizzata alla fine del secolo. In tempi molto andati, grazie alla fedele aderenza alla Regola benedettina, Cluny brillò come faro del monachesimo in tutto il mondo occidentale. Spesso soggiorno di religiosi assai dotti, stimati e apprezzati, produsse importanti opere di pensiero. E anche se adesso stava vivendo il suo momento di inesorabile declino, questo glorioso passato non aveva mai smesso di aleggiare fra le sue mura, ispirando i pochi fortunati che ebbero l'umiltà di stare ad ascoltare. Perché in certi luoghi anche le pietre parlano.

Correva l'anno 1759. Tempo in cui l'industria stava cominciando a diffondersi un po' ovunque. Anche se di vera e propria rivoluzione industriale si comincerà a parlare solo agli inizi dell'Ottocento.

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QUI VIKINGO

-Qui Vikingo, ciao Condor?"
- Uei pirlazzo, come stai! -
Vikingo è inchiodato in coda dalle parti del casello di Terme Euganee, causa grave incidente con vittime. Possibilità di sbloccarsi nada ne nada, tanto vale fare due chiacchiere con il Condor, che si è fermato all’Autogrill di Roncobilaccio, ma può riprendere a correre quando vuole, beato lui.
Vikingo pensa che il Condor ha ragione a dargli del pirlazzo. La fretta, pensa il Vikingo, è il nemico principale del camionista, però il camionista è sempre in ritardo per definizione, tutti vogliono la merce consegnata al più presto, se è per ieri è meglio, così il camionista viaggia sempre con il suo nemico vicino, accomodato sul sedile del passeggero.


Oggi il Vikingo, che doveva partire da Padova alle undici, consegna prevista a Firenze massimo alle diciotto, code a Bologna permettendo, è partito dal museo alle quattro del pomeriggio. Non è colpa sua, sono stati quelli del museo a ritardare il carico, è successo di tutto. Parti lo stesso, ha detto lo spedizioniere. Minimo vi arrivo alle dieci ha risposto il Vikingo. Ma noi ti aspettiamo, ha detto lo spedizioniere. Ma la mostra comincia fra tre giorni, ha fatto notare ilVikingo. Tu devi fare quello che ti diciamo noi, ha detto lo spedizioniere, e così il Vikingo, come sempre, aveva una fretta boia e il pepe al culo, e si è fiondato in autostrada, casello Padova Zona Industriale.
Vikingo ha la radio rotta, proprio oggi ha deciso di sfasciarsi ‘sta gran vacca. Non poteva ascoltare l’Onda verde, ma poteva sentire due o tre colleghi in giro. Hai cannato alla grande, dice il Vikingo a sé stesso, forse ce la facevi a levarti dai maroni, ma adesso ci sei dentro, e chissà quando si riparte.

Il Condor è sempre informato in tempo reale su quello che succede su tutte le strade d’Italia, e per dire tutte si intende tutte, anche le provinciali più imbucate, quelle che fanno gli ottomila come Messner su per le montagne, o ti portan

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   3 commenti     di: laura ruzickova



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