"Lo Specchio."
Accesi la luce e, lentamente, scesi coi piedi dal letto, appoggiai i gomiti sulle gambe e, fra le mani, presi una testa... terribilmente pesante.
Ero stanco. No,... in realtà ero distrutto, una stanchezza profonda.
Con i piedi, nella notte, avevo percorso chilometri, scandagliando tutti gli angoli più lontani del nostro materasso, alla sua ricerca.
Mi sarebbe bastato toccarla, ma che dico... mi sarebbe bastato sfiorarla perché il mio cuore tornasse a battere, per tornare vivo... e invece niente, tutta... quella... fatica... per niente.
Le mani mi scivolarono lentamente sul viso, sentii qualcosa di umido,... stavo piangendo, un pianto silenzioso e dolce... alzai il viso e guardando le mie mani vidi qualcosa di strano... le mie lacrime erano nere.
Quell'istante non so quanto durò, il tempo non aveva più alcun valore... poi,... qualcosa attirò la mia attenzione, un fruscio,... una sensazione, non saprei dirlo, mi girai lentamente e la vidi.
Sdraiata sul letto, ancora addormentata,... Perché i miei piedi non l'avevano trovata nella notte?... ma ora non era importante, era lì, nel mio letto,... nel nostro letto.
Il mio sguardo la percorse tutta, i lunghi capelli arruffati come un manto dorato le coprivano parte del viso, quel nasino che tante volte avevo baciato, quelle labbra dolci come il miele,... dalle lenzuola poi fuoriusciva un piccolo seno, una coppa a cui a lungo mi ero dissetato e una lunghissima gamba, un'autostrada che le mie mani avevano percorso migliaia di volte.
Piangevo. Piangevo di gioia, come un bambino che si era perso e ritrova la mamma... così... io... l'avevo... ritrovata.
Mi avvicinai lentamente, non volevo svegliarla... era così bella.
Mi accorsi di trattenere il respiro, come chi ha in mano un vaso di cristallo ed ha paura di romperlo... le arrivai così vicino da sentire il calore del suo corpo e quell'odore, no,... quel profumo che era la mia irrinunciabile droga.
Poi si mosse, un piccolo movimento del p
...
La casa comunicava con la cantina"garage attraverso una porta che dal piano terra portava al piano cantinato per mezzo di una scala e dall’esterno attraverso una scivola, adibita a passo carraio per la messa in dimora della macchina.
Non vi era null’altro di più bello che una famiglia potesse desiderare.
Nella casetta poco distante mio padre teneva gli attrezzi da lavoro e da giardinaggio, in un angolo tanta legna accatastata, tanto in ordine da lasciare pochi spazi vuoti tra un ceppo e l’altro, questa serviva in caso di emergenza per quando dovesse esaurirsi improvvisamente il gasolio che alimentava la caldaia; a proposito ma la caldaia dov’è che non l’ho mai vista?.. Bho! non ci ho mai fatto caso.
Mio padre era impiegato di concetto presso l’ufficio del Catasto, un lavoro prettamente amministrativo, ma che non gli impediva di coltivare una sua grande passione: L’elettronica.
Ricordo tutte le riviste accatastate nella parete attrezzata, ed alcune per i corsi di elettronica che aveva fatto per corrispondenza. Ricordo ancora….. ed un sorriso mi si stampa sulla bocca, di quando fece il suo primo apparato elettronico: un antifurto che doveva salvaguardare la nostra piccola reggia da possibili intrusioni.
Il giorno delle prove generali per l’infallibile antifurto era arrivato; ci siamo trasformati in poco tempo in una famiglia di ladri, attrezzati di tutto punto con scarpe gommate per attutire il rumore dei passi, bandana che invece di essere messa in testa, l’abbiamo dovuta mettere per ordine del comandante, in faccia! lasciando solo uno spiraglio per gli occhi….. ehee Si! perché il portentoso congegno prevedeva anche delle telecamere a circuito chiuso per immortalare chiunque si introducesse nell’abitazione.
Erano quasi le 20. 00 di una serata di giugno del 1998; aspettiamo acquattati dietro una parete della casa, aspettando che il buio si facesse più fitto…………. bene! ci siamo! disse mio padre, in
Scena 1 settembre 1943
Piazza principale del quartiere.
Presidio 2° reggimento motorizzato SS-Panzer-Grenadier-Division "Reichsführer-SS"
Il portone di legno massiccio si schiuse. Ne uscirono otto soldati che si disposero su due file dandosi le spalle gli uni con gli altri e imbracciando fucili mitragliatori MP-40 si guardarono intorno. Il loro sguardo feroce celava la paura di un imminente attacco delle brigate partigiane che circondavano il paese. Una Mercedes nera con gli interni in pelle rossa frenò bruscamente davanti ai soldati e solo allora uscì dalla porta con passo deciso e cadenzato l’SS-Untersturmführer e i suoi due attendenti.
Non fecero in tempo a salire sull’auto. Da più balconi in un caos frenetico i cecchini cominciarono a sparare in un convulso cielo di piombo. Il loro fuoco era devastante e gli uomini delle SS colti di sorpresa caddero in breve tempo. L’SS-Untersturmführer venne colpito alla testa, un proiettile gli bucò il suo impeccabile berretto facendogli saltare il lucente distintivo che finì in un tombino li vicino. Il proiettile proseguì il suo viaggio e andò oltre la calotta cranica, nella sua materia cerebrale e poi su una panchina di granito. Era morto. Gli altri colpi su quell’elegante divisa nera furono soltanto la conseguenza di un’ira che avrebbe voluto uccidere quel cadavere una volta di più. Era morto e la vendetta era compiuta. Era morto e se n’andarono via come fantasmi.
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Scena 2 settembre 1993
Piazza principale del quartiere.
Andrea, 16 anni ascoltava nel lettore cd una suite strumentale di Mike Oldfield forse troppo rilassante per accorgersi di ciò che intorno si muoveva e viveva. Gli studenti scocciati alla fermata del bus, ansiosi di arrivare in tempo per la puntata dei Simpson, l’edicola con le ultime su Lady D, il cinema con l’ultimo film su Twin Peaks di David Lynch… tutto questo e
La bambina fissò la porta. Non sapeva cosa avrebbe dovuto fare. La sola cosa che ricordava era l'immagine di sua sorella maggiore entrare nella stanza senza vederla tornare.
Erano le nove di un lunedì mattina. Dal cielo cadevano grossi fiocchi di neve, e il vento faceva oscillare i pini a suon della sua musica.
"Tu aspettami qua. "
Caterina l'afferrò per un braccio e la bloccò.
"Zio non vuole che entriamo lì dentro. " Sussurrò per non farsi sentire.
Giada disse: "Zio non vuole che ci entriamo perché là dentro ha ucciso zia Livia. "
"Zio non ha ucciso zia Livia! " Rispose quasi offesa.
"Allora come ti spieghi la cintura e il coltello insanguinati avvolti nel fazzoletto che abbiamo trovato nel suo cassetto? "
Caterina esitò nel rispondere e la sorella continuò nel suo discorso: "Se non è stato lui perché ci ha fatto dire delle bugie alla polizia? "
"Zia è morta perché era molto malata. "
"Zia è morta perché zio la picchiava di continuo. "
Giada fissò sua sorella e mettendole una mano sulla spalla per rassicurarla, disse: "Voglio solo dare un'occhiata dentro quella stanza. Non appena avrò finito ce ne andiamo in cucina a bere una cioccolata calda. Va bene? "
Caterina rispose solo dopo alcuni secondi.
"Va bene. "
Giada stava muovendosi verso la stanza quando la sorellina la chiamò.
"Sì? "
"Posso venire con te? "
"No. Tu devi rimanere qui. " Disse facendo segno con le mani. "Devi stare di guardia. "
Poi si mosse verso la porta, fece appena in tempo a posare la mano sulla maniglia che Caterina la chiamò nuovamente.
"Cosa c'è? "
"Se zio è un assassino perché noi siamo ancora qui? "
"Appena avrò compiuto diciotto anni ce ne andremo. È solo questione di tempo. "
Giada si voltò un'ultima volta e con lei lo fecero anche la massa di riccioli d'oro.
Una volta entrata, la porta si era richiusa.
Caterina aveva aspettato per più di due ore, seduta sul freddo pavimento di marmo, con
"Chi sono questi -altri-"?"
"Faresti meglio a dire -chi erano- visto che sono morti tutti."
"Frena un attimo Juliette; mi scuserai ma non ci sto capendo veramente un cazzo! Perché tua sorella e tuo padre dovrebbero tentare di ucciderti? E come fanno ad essere tutti morti!"
Juliette si spaventò nel sentirlo alzare leggermente la voce e si strinse contro lo schienale del divano. Il ricordo della sorella che tentava di ferirla con un coltello le apparve nitido nella testa. Iniziò a piangere.
"Non lo so!" rispose alzando la voce a sua volta. Una piccola lacrima si staccò dalla palpebra scendendo solitaria lungo la guancia; non tentò nemmeno di asciugarla perché sapeva ne sarebbero arrivate altre. "Ad un certo punto è stato come se..." un violento singhiozzo la obbligò ad interrompersi. "... come se fossero impazziti. E non è successo solo a loro, ma anche ad altre persone."
Patrick vide con chiarezza il coraggioso tentativo di Juliette di non lasciarsi andare ad un pianto dirotto, ma terminata la frase cedette, facendolo sentire un perfetto idiota.
"No ti prego, non piangere. Sono stato uno stupido ad alzare la voce..."
Lei agì istintivamente buttandosi tra le sue braccia; non si accorse nemmeno di averlo fatto fino a che non senti le mani di lui accarezzarle con dolcezza la schiena.
"Ho paura Patrick, tanta paura." Ora a lui sembrava di abbracciare una bambina indifesa e si domandò cosa avesse davvero visto prima di fuggire nel deserto.
Il mistero non faceva che infittirsi sempre di più.
Rimasero così per un tempo indefinito, tanto che Patrick iniziò a pensare potesse essersi addormentata; venne subito smentito da un suo movimento.
"Va meglio?" le domandò prendendola per le spalle e guardandola dritta negli occhi. Quella mossa si rivelò essere un errore; erano talmente belli che fu colto da un fortissimo desiderio di baciarla. Resistette a fatica dandosi anche dell'idiota per il solo pensiero.
"Molto meglio grazie!"
"Cosa vuoi fare ora? P
La fiammella del mio torace si tramutò in rogo.
Inviai la conferma.
Come liberato da un qualche legaccio, mi concessi una visita oziosa del territorio che ora volevo possedere cognitivamente.
Affittai una vecchia auto americana, bianca con interni rossi, una sontuosa Eldorado degli anni 50.
Decapottabile.
Un bianco cappello a tesa larga, occhiali da pilota USAF e musica nella mente più potente delle lagne venezuelane che la radio, dal cruscotto, riversava nell'aria.
Euforia e leggerezza condizionavano il mio essere in quei giorni.
Frequentai assiduamente stamberghe e bordelli.
Un sorriso doloroso turbava il mio viso.
La figura di Gonzalo Almirante entrò a far parte delle mie conoscenze in una gita a Puerto de la Cruz.
Il nome altisonante apparteneva ad un uomo scuro di pelle, dalla magrezza nervosa, dinoccolato e sdentato e gli stava addosso, il nome, come la giacca da uomo ad un bambino.
Rapido d'intelletto e assai di più di coltello, era intervenuto in mio aiuto in un tentativo di rapina che aveva me come bersaglio.
Due "desperados" armati di machete nella penombra di un imbarcadero, avevano tentato di alleggerirmi dei dollari, che maneggiavo con troppa disinvoltura, e anche della testa, credo, giusto per divertimento.
Il cuchillo di Gonzalo era apparso, dopo un sibilo, infisso nella gola dell'assalitore più minaccioso.
Il secondo figuro si era dato alla fuga dimostrando, a mio parere, molto buon senso.
Dal buio era emerso il mio salvatore e si era presentato motteggiando i nobili spagnoli del passato, per poi riderci su sgangheratamente.
La sbornia, che fino ad allora aveva anestetizzato i miei sensi, si era dissolta, per ciò ritenni opportuno ripristinarla con la compagnia del mio nuovo buon amico Gonzalo Almirante, gran cavaliere dei pontili e patrono dei babbei, dato che tale mi ero dimostrato.
Portai con me, di quella notte, il fotogramma di un corpo malamente disteso sul pontile di legno, illuminato dal flebile cono di lu
I
Ricordo un pomeriggio d’estate passato in compagnia di una persona. Cupa e silenziosa essa stava ad ascoltare i miei sperduti discorsi. Mi accorgevo, dopo tanto tempo, di essere ascoltato, ammirato. Ma questo ascolto diminuiva con la mia stanchezza. Quando il mio ammiratore scomparve tornai a casa e mi misi a letto cercando di prendere sonno…in quei momenti stranezze. Solo stranezze. Mi chiedevo cosa stesse accedendo. Mi sentivo osservato, la stanchezza, bah. Una figura sfuocata, rapida e rumorosamente silenziosa…E in quella camera un avvenimento imprevedibile investì il mio esile corpo. Il mattino seguente mi trovai in una camera di un albergo di una sperduta via di una città sconosciuta. La prima cosa che i miei occhi fissarono fu il tenue bagliore emanato da una bottiglia scheggiata posta sul davanzale. Scheggiate sembravano anche quelle rose ormai morte che vi stavano dentro. In quel mattino seguente sapevo che avrei dovuto raggiungere il centro della città, ma non sapevo il perché. Mi trovavo in un luogo mai visto ma già incontrato. Durante il mio tragitto non potei non osservare gli occhi dei passanti che mi accusavano di qualche crimine che non avevo commesso… - a suo tempo?" pensavo senza un buon motivo?" ho conosciuto una ragazza speciale, che mi ha accompagnato nella mia esistenza. Ma il tempo provocava un’ effetto strano sulle nostre persone che si erano unite. Quella ragazza era il mio angelo, la mia vita, tutto in quel momento e nessuno sguardo scambiato era oscurato da pensieri cattivi, ma da parte mia era la solitudine.- continuavo intanto a camminare. E più quelle persone mi scrutavano, più il mio corpo era afflitto da un enorme peso…e così vivendo, da solo giunsi in una piazzola, semi- porticata dove sei figure erano ferme appoggiate ad una sola colonna. Nonostante riuscissi a difficoltà a riconoscere il loro sesso, esse mi osservavano…cigolavo. Giunto era ormai il tempo di chiedere informazioni per uscire dalla ci
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