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Racconti del mistero

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Un angelo solo per me

Come ogni notte guardavo le stelle, affacciata sul davanzale della mia finestra.
Amavo perdermi nell’immensità del cielo stellato… Mi piaceva immaginare che da qualche parte, lassù, c’era qualcuno che mi osservava e non viveva che per me. Sarebbe stato bello scoprire che qualcosa del genere fosse reale.
La luce all’interno della mia stanza era spenta, ma la luce della luna era sufficientemente chiara e limpida. Non mi spaventava essere ammantata da quella rassicurante e accogliente oscurità. Il giorno non faceva per me.
Io ero una creatura della notte.
Trassi un profondo respiro, lasciando che l’aria della notte, insieme a tutti i suoi dolci e aspri profumi entrasse dentro di me. Soffiava una fresca brezza, che mi accarezzava morbida la pelle.
Era una sensazione così bella…
All’improvviso mi misi a cavalcioni del davanzale, lasciando penzolare una gamba all’esterno e aggrappandomi alla struttura di legno della finestra. Così era molto meglio: potevo sentirmi ancora di più segreta e silenziosa complice della notte.
Dalle mie labbra socchiuse fuoriuscì una delicata nenia, che accompagnava il canto estivo dei grilli e delle cicale che popolavano il mio giardino, interrotto ogni tanto da qualche solitaria civetta.
Sarei potuta rimanere così per sempre… Con l’aria fresca che mi scivolava sulla pelle e tra i ca-pelli e la soffice luce bianca della luna che mi bagnava la pelle. Socchiusi gli occhi.
Non credo di essermi addormentata. Ma improvvisamente avevo cessato di canticchiare, e con me sembravano aver taciuto anche tutte le altre mie compagne notturne, come se qualcosa le avesse terrorizzate. Era come se riuscissi ad avvertire la loro paura. Il venticello non soffiava, e alle mie orecchie non arrivava più il debole frusciare delle foglie degli alberi.
Sembrava che il tempo si fosse fermato.
Dischiusi piano gli occhi, timorosa di trovare la luce invadente del sole ad accogliermi, come ogni mattina. Tuttavia era ancora notte, ed

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   7 commenti     di: Giulia


Altri Dei

Mancava poco all'alba.
Adriano guidava calmo, asciugandosi di tanto in tanto gli occhi, che lacrimavano.
"Dissociazione della personalità, asociale, mentalmente instabile,
non in grado di nuocere, ma inaffidabile, schizofrenico, a tratti paranoico, non riesce a gestirsi...".
Questi termini gli rimbombavano ancora dentro la testa. Molto bravi i medici e gli avvocati mobilitati da sua moglie Luisa, per poterlo definire. E con queste definizioni era riuscita a ottenere la separazione e se ne era andata con i ragazzi. Le lacrime ripresero a scendere copiose.
Le asciugò bruscamente con una mano, stringendo spasmodicamente il volante con l'altra.
"Dissociazione...". Ma cosa ne sapevano di lui?
Lavorare dalla mattina alla sera, i soldi che non bastavano mai, i mutui, i debiti, gli straordinari e Luisa che gli diceva:
"... e dove accidenti vai ogni tanto che sparisci? Hai un amante? Non è che sei gay, oltre che fallito? Ci manca anche questa!"
Le stranezze di Adriano: non fumava, non beveva, niente scappatelle apparentemente, ma spariva ogni tanto, arrivando tardi al lavoro, tardi a casa. Ma che rincasava a fare? Avrebbe voluto respirare in famiglia, rilassarsi e invece veniva accolto dalle urla e dagli schiamazzi dei reality alla tv, seguiti con religioso trasporto da tutti in casa. Meno che da lui, che si addormentava sulla poltrona, dopo aver mangiato un piatto di spaghetti appiccicoso che gli avevano a malapena lasciato sul tavolo, senza neanche coprirlo.
Niente hobby creativi, se ne fregava di palestre o piscine, solo una grande, soffocata passione per la lettura, ma in casa sua dei libri non sapevano che farsene. Un amore per il cinema, il tutto abbondantemente ignorato e ridicolizzato da Luisa e dai suoi figli. E ora lo avevano lasciato perché, a detta degli avvocati, il fatto che nella sua vita ci fossero dei vuoti che non era in grado, che si rifiutava di spiegare, dava adito a mille congetture, suffragate dalle relazioni caricate dei medic

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   4 commenti     di: alberto tosciri


Io, dentro la grande tela

Mi piace il verde.
Il mio lavoro, la mia vita, si sono sempre divisi tra il verde di questo prato e i depositi dove, insieme a tante altre come me, sono costretta, immobile, ad aspettare.
Mi piace il verde, ho detto.
Mi piace quando è asciutto, pulito, liscio.
Non è sempre così.
Quante volte il prato dove lavoro è bagnato, e quante volte è sporco, polveroso, nemmeno più verde!
Quanti prati sono pieni di buche!
Il mio è un lavoro duro. Il contratto mi impone di subire continue violenze, ed è considerato tanto più bravo chi è più preciso, o più energico, o più tempestivo e veloce nel procurarmele.
Precisi non lo sono sempre. Quando accidentalmente mi scagliano fuori dal prato, mi sostituiscono con una collega, del tutto uguale a me.
A me piace quando, facendomi rientrare nel prato, vengo afferrata da mani robuste, e lanciata sul petto (sì, preferisco sul petto) dell'altro uomo, vestito nello stesso modo.
Non mi piace quando - è capitato anche questo - vado incidentalmente ad incocciare, con tutta me stessa, i coglioni di qualcuno.
Mi piace quando qualcuno tenta di afferrarmi, ma non ci riesce; ed allora capita di imbattermi in una grande tela, a larghe maglie. Ed allora c'è, nel prato, un grande movimento: tanti sono felici, radiosi, tanti altri - con un vestito diverso - sono tristi, o raggelati, delusi. Anche rabbiosi.
Ho compreso di essere io la protagonista. Questo lavoro è spettacolare. Io però mi prendo, mi sembra, solo il peggio: i calci, dovunque.
Chi mi guarda mi ignora. Guarda, apprezza, critica, commenta, paga solo loro: quelli che mi maltrattano.
Oggi è stata una serata speciale.
Appena entrata, un triste argentino mi ha scaricata ad un calvo basso olandese - sguardo intelligente, gelida determinazione - che mi ha subito destinata ad un africano gentile e sorridente. Mi ha accolta con dolcezza e dopo sei passi veloci mi ha spedita verso l'angolo basso della grande tela.
Non mi hanno mai guardata - decine di migliaia,

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La linea 5

Occupava sempre lo stesso seggiolino della linea 5, quella dove non si paga; non si paga perche' non c'e' il fattorino, scendeva sempre alla medesima fermata, Kaisergracht, e si perdeva per il canale omonimo con il suo cammino incerto, un avanzare scordinato.
Un giorno decisi di seguirlo, non era facile pedinarlo perche' la sua camminata era talmente lenta che ad un certo punto mi tocco' superarlo, nel farlo urtai leggermente la sua spalla, un forte formicolio mi invase il corpo, mi girai improvvisamente, impaurito, e finalmente riusci' a vedere i suoi occhi, non c'erano.
Affrettai il passo, desideravo solo allontanarmi più possibile da questo individuo, iniziai a correre, superai canali, strade, prati, boschi, torrenti, nazioni intere, arrivai alla fine del mondo, e lui mi aspettava li'.
Entrammo insieme sulla linea 5 e non pagammo il biglietto, lui sul suo seggiolino io al mio posto di sempre, scendemmo in Kaisergracht e un individuo ci segui', ci supero' e urto' la mia spalla, si giro' improvvisamente indietro e vidi la sua faccia terrorizzata, inizio' a correre, supero' canali, strade, prati, boschi, torrenti, nazioni intere, arrivo' alla fine del mondo, e noi lo aspettavamo li'.

   13 commenti     di: Isaia Kwick


Supercortemaggiore (prima parte)

Accadde nel primo pomeriggio del quinto giorno, il secondo dopo il grande diluvio. Per le striminzite esperienze di noi bambini di strada una pioggia come quella che si era abbattuta sul paese era paragonabile solo a un diluvio. In effetti non avevamo mai visto piovere così tanto e con tanta intensità, una pioggia torrenziale che aveva oscurato il cielo per tre giorni ininterrotti. Eppure era iniziata come una normale pioggia, e nemmeno tanto scrosciante, goccioline fitte, a volte a raffica secondo la direzione del vento, poi in meno di un'ora era aumentata d'intensità fino a diventare "iradiddio". Era iniziata verso le undici del mattino cogliendoci lontano dalle nostre case e costringendoci ad un'affannosa corsa per raggiungerle e dove, peraltro, ci arrivammo inzuppati fradici. Rimettemmo il naso all'aria aperta solo tre giorni dopo, pressappoco alla stessa ora, e per settantadue ore restammo rintanati con il viso appiccicato ai vetri delle finestre a guardare la pioggia. Per strada si venne in breve a formare un torrente in piena che trasportava dai rioni alti sassi, melma e quant'altro trovasse sul suo cammino.
"Gesù, quanta ce n'è!" esclamò mio fratello maggiore con gli occhi sgranati dallo stupore.
"Madonna mia, che paura mi mette" disse la mamma facendosi ripetutamente il segno della croce.
"speriamo che non succeda nulla" sussurrò il babbo con lo sguardo fisso rivolto a chissà quale lontano e triste ricordo.
Infine fece capolino una specie di nebbia causata dalla violenza della pioggia che sollevava da terra degli spruzzi così intensi da farli sembrare tale. In alcuni momenti di maggiore visibilità pulivo accuratamente i vetri dal vapore del respiro e scrutavo le case circostanti nella speranza di scorgere i volti dei compagni che immaginavo come me incollati ai propri vetri. Riuscii solo a intravedere Acquasanta per alcuni minuti sull'altro lato della strada e fu un'esplosione di grida eccitate, ben presto sedate dai genitori. Poi, di consegue

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   4 commenti     di: Michele Rotunno


L'Ultima Onda

Tre Luglio.

Il mare era molto mosso quel giorno. Nuvoloni neri si addensavano bassi all'orizzonte. La spiaggia spazzata dal vento. Nonostante questo una moltitudine di persone sdraiate sulla sabbia.

Passeggiavo osservando le decine di famiglie sotto gli ombrelloni. Camminavo piano, i piedi bagnati dalle onde. Ad un certo punto dovetti rientrare sulla sabbia. Un ostacolo improvviso.

Avevano fatto accomodare una signora molto anziana, almeno novant'anni a giudicare dall'aspetto decadente, su una sedia in plastica, proprio in riva al mare. Una sedia verde scuro, di quelle che si trovano ai tavoli delle gelaterie. L'acqua le arrivava alle caviglie. Il vestito e i suoi capelli bianchi si muovevano, scompigliati dal vento.
"L'hanno messa lì a prendere l'arietta!" pensai sorridendo e mi allontanai.

Quattro Luglio.

Il giorno dopo stesso clima: nuvole e vento.
E stessa arietta per la vecchia! Infatti mi trovai davanti la medesima scena, con un particolare più curioso. L'anziana signora era stata fatta sedere un po' più avanti, e le onde le lambivano le ginocchia, andando a bagnare il vestito. Lei aveva lo sguardo fisso verso l'orizzonte, incurante del vento e delle onde. In mano teneva un bastone, la cui estremità affondava nella sabbia bagnata.
Pareva mormorare qualcosa, frasi incomprensibili.

"... onda".

Cinque Luglio.

Passò un altro giorno ancora. E quando vidi di nuovo la stessa scena immaginai che i parenti della vecchia avessero un piano per ucciderla. E che avessero deciso di attuarlo poco a poco. Ogni giorno, un centimetro in più verso il mare. E nel mare si affonda.
Era ancora nella stessa posizione, ma le gambe posteriori della sedia erano ormai affondate per metà nella sabbia bagnata. La sedia pericolosamente inclinata all'indietro, quasi sul punto di cadere.
E lei, con il vestito ormai fradicio di acqua scura, che mormorava.

"... arriva...". Riuscii a capire solo questo

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   7 commenti     di: paolo molteni


La cosa nel letto

Ci penso e ci medito, ma più lo faccio e più mi rendo conto che questa faccenda non solo ha dell’incredibile, ma che se riuscissi a percepire la realtà ultima di quello che ho visto, non solo diventerei pazzo, probabilmente la mia coscienza si aprirebbe in abissi finora sconosciuti. Ho paura per me stesso, se non scopro la verità morirò d’ansia. E non passa giorno che non torno a controllare quel punto del letto. Eppure potrebbe essere stata una visione e quindi me ne chiedo il motivo. E se invece fosse stata una cosa reale? Cos’era, cos’era quella cosa? Da quale mondo proveniva, perché io poi? Ma andiamo con calma e cerchiamo di spiegare per bene cos’è successo quella sera, cosicché qualcuno forse, saprà darmi una spiegazione reale. È anche vero comunque che più mi sforzo a ricordare e più rimango ammutolito. Come se qualcosa o qualcuno mi trattenesse dal raccontarlo. Sicuramente sarà utile informarvi che sono un grande lettore di Howard Philiph Lovecraft e anzi, sono sicuro che molti di voi lo conosceranno. È un autore di racconti onirici, creatore di quell’universo letterario che è il “Mito di Cthulhu”. Ma d’altronde uno scrittore è legato al fantastico solo per ciò che ne può scrivere, e mai avrei pensato... Ma andiamo con ordine. Premetto che non ho mai creduto a quel libro, “il Necronomicon”, che fosse stato un espediente letterario dello scrittore di Providence ne abbiamo, ormai tutti, le prove. Che qualcheduno poi si sia messo lì a scrivere uno pseudobiblio, rifacendosi alle idee di Lovecraft può sì far incuriosire, ma dopo un studio serio arriverebbe alla mia stessa conclusione, che cioè sono solo fantasie. Nonostante ciò, ho provato i rituali trascritti sul Necronomicon, più per scherzo che per curiosità vera e propria, ma chi non l’ ha fatto? Ebbene, sono proprio delle cialtronerie. Non posso invece negare il mio acceso stupore quando, rovesciando inavvertitamente una boccetta d’inchiostro su una

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   5 commenti     di: Emiliano Rizzo



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