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Racconti del mistero

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Premonizioni

Premonizione: informazione paranormale concernente il verificarsi di eventi futuri.


La donna cadde sul pavimento, mentre la ragazza tentava invano di farla alzare in piedi strattonandola per un braccio; la testa rapata le ciondolava sul collo sottile, dando come la inquietante sensazione che si sarebbe staccata da un momento all’altro. Indossava solo un camice azzurro chiaro, aperto sul dietro, rivelando un corpo pallido e scarno.
“Avrò un’altra premonizione”diceva, come in preda al delirio”è lei, sta per arrivare”.
“No mamma, ti prego, alzati! Forza!” la ragazza piangeva e implorava, ma la donna non aveva alcuna intenzione di mettersi in piedi. Si trascinava sul pavimento sporco e scrostato, come se aderire ad esso fosse tutto ciò che le restasse al mondo.

Lisey si svegliò di soprassalto con il cuore che le batteva all’impazzata; guardò la sveglia digitale sul comodino e vide che era da poco passata la mezzanotte. Provava una strana sensazione di soffocamento, come se una mano le si stringesse lentamente intorno al collo. Quel sogno, le provocava un malessere intollerabile. Scott dormiva russando e non se la sentì di svegliarlo, nonostante la sensazione divenisse sempre più opprimente e fastidiosa. Non riusciva a spiegarsi il senso di ciò che aveva appena sognato: l’immagine di lei, completamente nuda, con solo una specie di vestaglia azzurra addosso, Anne che cercava di sollevarla da un pavimento lurido… e quel blaterare senza senso sulle premonizioni. Pensò che dare un’occhiata alle ragazze l’avrebbe fatta sentire meglio; scese dal letto, posando i piedi nudi sul freddo pavimento di marmo bianco. Cercò di non fare rumore per non svegliare il marito e si diresse verso la stanza della figlia maggiore. Anne era immersa in un sonno profondo, come ebbe modo di constatare, e aveva un’espressione serena e tranquilla dipinta sul volto, abbracciata al suo peluche preferito, nonostante avesse già 23 anni. Diceva sempre

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   8 commenti     di: Francesca Tanti


isla de aves - 2 capitolo

Quante volte si muore e si rinasce in una vita?
Non esiste statistica! A mio giudizio è un alternarsi costante e necessario.
Risorgere dal buio a nuova luce.
Lo sguardo purgato dal male di vivere.
Riscoprire a poco a poco la meraviglia assoluta della realtà in cui fluttiamo.
Sospetto che questo costituisca il senso ultimo del vivere: “una eterna rivelazione”.

Con questa fiammella nel petto ricominciai a esistere.

Gradualmente, seguendo i bisogni elementari, iniziai a radicare la mia presenza nelle giornate di Cumanà.
La scorta di dollari era sufficente per risparmiarmi l’urgenza di sostentarmi.

Nel volo dall’Italia avevo scambiato, in spagnolo, alcune opinioni sulla cultura meso-americana antica con un certo Prof. Manfred Ulrich, volto intelligente di sessantenne dagli occhiali l’oro, di origine centro-europea... che curiosa equivalenza.
Era un uomo distinto e sensibile, diceva di occuparsi di affari e cultura.
Aveva reso meno faticoso il viaggio.
Resosi conto delle mie erudizioni, mi aveva consegnato il suo biglietto da visita, invitandomi a contattarlo per eventuali affari.
Avevo infilato il biglietto nella tasca della camicia estiva con automatismo, certo com’ero della sua inutilità.

Smentii me stesso dopo un paio di settimane.
L’inoperosità cominciò a erodere la mia pazienza.
Ero preda di una smania nascente di fare, di capire, di scoprire.
Essere, in fine, unico giudice del mio sentire e al diavolo la “STORIA”.

Alla reception del residence dove aloggiavo chiesi il telefono e, ritrovato il biglietto, composi il numero di Monaco di Baviera che vi era riportato.
Immaginai la scintilla della trasmissione percorrere lo smisurato cavo telefonico sul fondo dell’Atlantico, risalire la penisola iberica, attraversare la Provenza...
Dopo alcuni squilli rispose una prima segretaria, mi destreggiai con la lingua inglese e dopo tre passaggi di voci femminili mi rispose quella maschile del Prof. Manfred.

Fui

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Coccige

Sandro si trovò per l'ennesima volta dal medico, una lunga fila di anziani lo precedeva tanto che decise di andarsene quasi subito. Non ne poteva più di quei dolori però, andavano e venivano e man mano diventavano sempre più forti. Tornato a casa e dopo essersi sparato l'ultima dose di antinfiammatorio si rilassò sulla propria poltrona preferita tanto da addormentarsi. Alcune ore dopo si svegliò con i dolori al loro apice tanto da dover pensare a qualcosa di alternativo per lenire le proprie sofferenze. Andato distrattamente su un motore di ricerca in internet digitò "dolori colonna vertebrale" e nelle migliaia di risposte cliccò una a caso. Era un link sponsorizzato che pubblicizzava la casa di cura "New Lumbar" che si prometteva con tecniche alternative di affrontare in maniera diversa i problemi alla colonna vertebrale tanto da essere invogliato a proseguire. Migliorò la sua ricerca notando con interesse che una sede si trovava anche nella propria città. Non passò molto tempo e si decise di telefonare al numero che aveva trovato e, con un appuntamento in mano per il giorno successivo, se ne andò a letto felice.
Il mattino seguente si recò alla sede con un largo anticipo per studiare meglio il posto e farsi un idea se si trovasse di fronte all'ennesimo impostore o meno. il palazzo si trovava in periferia e ospitava gli ambulatori in mezzo ad un giardino incantevolmente immerso nel verde. Come entrò dalla porta principale fu accolto da un canto celestiale che veniva trasmesso da delle piccole casse d'alta qualità occultate alla vista. Fu ricevuto addirittura in anticipo e l'infermiera carina che lo accompagnò dallo specialista si poteva definire veramente educata e tranquilla, a differenza di quelle a cui era abituato negli ospedali pubblici.
Fu visitato da una dottoressa di mezza età ma ancora in gran forma che lo fece spogliare ed iniziò a tastargli le vertebre una ad una individuando i punti di maggior dolore segnandoli poi su di un block no

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Le porte si chiudono

L’aveva vista di nuovo, allucinante!
All’inizio gli sembrava sempre di confondersi, sempre all’angolo della visuale, sempre con la coda dell’occhio, e quando si girava, non c’era più.
Ormai era un’ossessione, da giorni, ovunque vedeva quella donna strana. Strana? No, neanche lui sapeva spiegarselo meglio. Era bella, ma sembrava…
Cavolo! Ho bisogno di trovarmi una ragazza! …In bianco e nero?
Arrivò al lavoro, entrò in ufficio, 72° piano, grafico pubblicitario, e stasera doveva assolutamente finire il lavoro, altrimenti il capo lo sbranava.
Eccola, vestita di nero? No, forse non era lei. Non era mai riuscito veramente a vederla, sempre e solo un’ombra, un movimento, uno sguardo, poi niente.
Va beh! Lavoro finito, meno male, anche stavolta il capo starà buono, però sono le sette e mezza e sono l’unico pirla dentro l’ufficio! Va all’ascensore, entra, lei è lì.
Le porte si chiudono, buio, lei lo sfiora, la lingua sulla sua bocca, la mano va sotto, erezione pazzesca, un attimo, la sente sorridere, un dito sulle sue labbra, le luci si accendono, ascensore al 10° piano, fa appena in tempo a riaprire gli occhi prima che le porte si aprano.
Pazzesco! Arriva a casa sconvolto, non riesce a pensare ad altro.
Cosa è successo? Ma è successo? Non è che improvvisamente sto impazzendo?
Sotto la doccia, cena, tv. No, non oggi. Apre le porte dello studio, si mette al computer e fa l’unica cosa che è capace a fare: disegna.
Cerca di fermare quell’immagine che ha di lei, quei frammenti, quel volto, quelle mani,
quella bocca.
Alla fine la vede, lì sullo schermo, ed è lei, sicuro, e gli sembra impossibile, uscita da un’altra epoca, con quel vestito grigio e nero, antico, il velo sugli occhi, ma è lei.
Va in Internet e manda quel disegno ovunque conosce, tutti i blog che di solito frequenta, lo appende a qualunque bacheca trova: “Qualcuno ha mai visto questa donna?”.
Va a dormire un po’ più tranquillo.
Al lavoro di nuovo,

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Ufficio condoni

Ufficio Condoni
Così c’era scritto sulla targa in ottone attaccata alla porta. Una grande porta di legno. Oreste Titoni, anzi il signor Oreste Titoni, continuava a guardare e a riguardare quella targa, non capiva.

Da quanto tempo era lì? Non se lo ricordava più. La luce era una luce fredda e artificiale. Il corridoio dove si apriva quella porta era pieno di altre porte altrettanto grandi e con sopra altrettante targhe, ognuna delle quali indicava un ufficio diverso: ufficio prestiti, ufficio concessioni, ufficio crediti, ufficio reclami e così via…
C’era molta gente. Gente che arrivava, gente che prendeva il proprio numero di prenotazione, gente che aspettava seduta composta e in silenzio, gente che entrava negli uffici, ma nessuno che ne usciva se si escludono quelli che venivano trascinati via a forza da uomini vestiti con una divisa nera con cappello rosso. La cosa strana che però aveva notato il nostro signore era che nessuna delle persone che aspettava il proprio turno desse particolare attenzione a quello che succedeva attorno, era indifferente a quelle urla dei disperati. La gente continuava ad arrivare, prendeva il proprio numero e diligentemente si metteva a sedere davanti alla porta dell’ufficio presso cui doveva andare.

Lo stesso aveva fatto il signor Oreste Titoni, solo che non si ricordava più né il motivo, né come era arrivato fin lì, non sapeva neanche a che piano fosse di quel palazzo che sembrava immenso. Un largo e lungo corridoio si distendeva all’infinito davanti ai suoi occhi, i soffitti altissimi, nessuna finestra, illuminato da grandissimi lampadari, le pareti tinte di un grigio chiaro, il pavimento in graniglia bianca e nera. Lungo i lati del corridoio, oltre alle innumerevoli porte erano disposte delle sedie. Sedie vecchie, in legno che scricchiolavano al minimo movimento delle più o meno ingombranti terga delle persone che sostenevano.

Il signor Oreste Titoni, si andò a sedere anche lui, guardò il numero c

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Tre dubbi

Entrai in quel bistrot, all'ingresso del quartiere latino, con tre dubbi fra le mani. Uno lo regalai al pianista e fu subito canzone di rondini e giallo intenso. Non ero certo di trovarla lì, anche se al telefono mi sembrò donna che gioca tutto in un colpo solo sperando di perdere, persuasa che vincere non è realizzare un sogno ma smettere di sognarlo. Con l'altro dubbio volli pagarmi i due Pernod che portai al tavolo in angolo, con la Senna alla finestra. Sul candeliere-bottiglia, sopra il foulard rosso, la cera colava e lentamente si induriva. Ritmo della vita attorno, misura di emozioni impilate come scatole cinesi, stella di fantasie disegnate ad ombre grigie sui muri rosa. Lei entrò, mi riconobbe e rise forte. Probabilmente vide scivolare dalla tasca destra bucata della giacca, il terzo dubbio.

   6 commenti     di: Carlo Diana


La casa fantastica (parte sesta)

Non capisco chi possa essere, la mano sulla mia spalla esercita una pressione delicata, quasi controllata, come per dire non aver paura.
Fisso con insistenza il casco con la visiera oscurata, quella “persona” mi accarezza il viso e mi prende per mano, senza dire una parola mi accompagna al portatile, lo accende e comincia a mostrarmi una serie di foto che ritraevano mio nonno, mio padre e tante altre persone che io non conoscevo.
Apre un programma dove la matematica, la fisica e l’astronomia si fondono,
mi fissa intensamente con lo sguardo, prende subito una decisione.
Con la mano fa leva da sotto il mento e solleva il casco!
Papa?... Sei tu?
Ma  non dovevi essere al lavoro?
Salvo! è venuto il momento di doverti delle spiegazioni, tu sai della mia grande passione per l’informatica e l’elettronica, ebbene io da oltre venti anni che do ragione ad una mia teoria e cioè che il presente, il futuro ed il passato, sta nello spazio, l’uomo è la testimonianza di questo, in quanto registra ed evoca nella sua mente tutti i passi della sua vita.
Noi abbiamo all’interno del cervello una sorta di videoregistratore con la facoltà di aumentare la velocità del pensiero ed allo stesso modo riprendere velocemente il passato con lo stesso meccanismo del riavvolgimento, praticamente è attraverso lo spazio-temporale che si sposta la materia, basta aumentare i processi mentali ed è attraverso questo che avviene la migrazione, ma! forse ti sto confondendo le idee.
Fisso negli occhi mio padre: papà! avrei mille domande da farti, tutto questo mi affascina e mi preoccupa, vedo che avevi indossato il casco! cosa stavi per fare? dove stavi andando?
Un sorriso si stampa nel volto di mio padre che, rimettendomi la mano sulla spalla mi dice: non sei pronto per adesso! devi sapere figlio mio che questa mia scoperta mi ha aiutato molto anche nel mio lavoro.
Il mio lavoro prettamente amministrativo, fino a qualche anno fa era tutt’altra cosa:  andavo di person

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   2 commenti     di: Carmelo Rannisi



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