Non vi era molto di cui discorrere nella Piazza di Cerro Veronese in quel malinconico pomeriggio estivo del 7 Luglio 2014. Da queste parti la popolazione è un crogiolo indefinito di residenti, gente che proviene da montagne ancora più lontane in cerca di un po' di città, e cittadini che espiano i loro peccati urbani e metropolitani saccheggiando la Lessinia delle sue emozioni e dei suoi profumi.
Chi sicuramente fatica a fare della propria vita un'opera d'arte, come imporrebbe l assioma D'annunziano, è chi in queste terre è cresciuto senza avere mai la concreta possibilità di migrare, di seguire la propria strada, di uscire da quel caldo, sicuro, ma vertiginosamente stretto sentiero che la sua famiglia aveva generazione dopo generazione scavato negli altipiani dell'incertezza per garantirgli un avvenire sereno. Sarebbe troppo facile dipingere su una tela grinzosa con tempere spente e colori freddi le figure del panettiere del paese, piuttosto che del gelataio o dello staff di ragazze assuefatte dalla nicotina che si avvicendavo vorticosamente al Bucaneve, quartier generale del villaggio che insieme alla Pizzeria Araldo permetteva alla cittadina di Cerro di essere spesso inserita negli itinerari dei gastronauti; tutte queste figure si possono fotografare con una vecchia Polaroid, se ne possono far sviluppare le sagome, e si può accatastarle tra tutte quelle inutili e soprattutto inutilizzate cianfrusaglie con cui soffochiamo le nostre soffitte, sperando di soffocare così anche la nostra sete di ricordi e l'inquietante consapevolezza che il passato non tornerà mai più. Per descrivere il personaggio che animerà il nostro racconto e ci distoglierà momentaneamente dagli affanni quotidiani occorrono ben altri strumenti, occorre quella tempera che avevate accantonato perché si era sporcata con dell'altro colore, occorre quella penna che scrive divinamente ma che a tratti pare abbia finito l'inchiostro, occorre quella macchina fotografica di ultimissima generaz
La casa fantastica (parte Settima)
Il rapporto con mio padre, aveva assunto degli aspetti di complicità: avevamo abbattuto quella barriera che si crea tra un genitore ed un figlio.
Infatti si ripetè per più volte di andare insieme al cinema, macchè! quale cinema!.
Facevamo finta di andare al cinema, in realtà andavamo nel nostro rifugio segreto.
A Mamma e mia sorella Sara, sarebbe venuto un colpo se avessero saputo dell’esistenza di tale struttura sotterranea, tanto, chi gli avrebbe detto qualcosa?
Anche io sono rimasto allo scuro per tanto tempo… se non fosse stato per quella circostanza fortuita della cassapanca.
Ma! ritorniamo al racconto: mio padre mi centellinava poco per volta delle sue ricerche e delle sue scoperte.
Aveva incentrato tutto il suo sapere sul teletrasporto, creando dei software adatti a questo tipo di viaggio.
Un giorno, mi ricordo una domenica primaverile, ma di stagione autunno! Mio padre portò tutta la famiglia, ad una gita fuori porta, visto che noi abitiamo in un posto così ameno, non abbiamo fatto tanta strada per arrivarci.
Mia madre era felicissima nel vedere la famiglia riunita “ cosa rara per uno che ha gli impegni di lavoro come mio padre”.
Mia sorella Sara scorazzava tra gli alberi inseguendo le farfalle, mia madre inseguiva lei per non perderla di vista.
Mio padre facendomi segno con la testa mi dice: Salvo! vieni, ti faccio vedere dove nascono i funghi! là in fondo ci sono gli alberi secchi bruciati dalla lava, guardandomi in faccia ammicca!
Ci incamminiamo per una leggera salita, tutto attorno è sublime, alberi di castagni e betulle che fanno insieme una cornice al canto degli uccellini di bosco, un odore acre si alza dal terreno al calpestio dell’erba fresca, mi distraggo da tanta bellezza: Salvo, là!
Mio padre indica con il dito puntato come una pistola, una radura.
Da lontano, intravedo al centro di quella piccola zona priva di alberi un traliccio, arrivammo fin sotto la struttura metalli
Lettera dal cuore.
La sera buia e silenziosa, arriva puntuale ed entra senza mai bussare sicura di se, perché sa di essere lei la padrona della mia vita, dei miei pensieri. A volte mi chiedo se sono i miei stessi pensieri che hanno bisogno di incontrarla, o se della sua naturalezza ne hanno necessariamente bisogno per riuscire ad addormentarsi.
Si, deve essere così, arriva perché sa che la sto aspettando, ed in me ritrova i monologhi muti di un intero giorno, li trova annodati ed imbavagliati e prendendoli per mano, li scioglie e li riordina uno ad uno.
Poi, li prende per mano, li culla, li riassapora, li rivive, li coccola fino ad assopirli nella mia mente, fino ad imprimerli notte dopo notte come il ripetersi di una lezione imparata a memoria, e finalmente riesce ad addormentarli con me, fino a
non ricordare più nulla se non l’averti sognata.
Ho provato anche a parlarle e nella sua quiete le ho detto che un giorno diverrò nuovamente io il suo padrone, perché prima o poi il buio lascerà la mia vita tornando a donarmi un mondo pieno di luce.
Non sarà la luce che hai saputo accendere tu, ma non sarà più velata di lacrime e quel giorno saprò guardare al tuo sorriso sorridendo, vedere la tua felicità tornando ad essere felice, si... quel giorno saprà arrivare.
Ma non ora, quel giorno è ancora troppo lontano per me, oggi fingo di essere felice nel sapere che per te è tutto diverso... ma fingo male, e se per un istante i tuoi occhi potessero vedermi lo capirebbero come leggere queste parole che non ti sapranno mai arrivare.
È facile raccontare una bugia... a volte perfino troppo semplice renderla convincente... ma puoi renderla veritiera per tutti tranne che per te stesso.
Ogni falsa parola che provi a pronunciare nell’illusione che uscendo dalle tue labbra possa farle del bene, muore ancor prima di prendere voce... annegata in quelle lacrime che ti sforzi di tenere a bada, segregando dentro di te ciò che invece vorresti pote
Jorge
Os Senhores da Guerra (Madredeus)
Jorge aveva il suo sogno, un sogno abbastanza ambizioso da tenere occupata la mente sia durante i lunghi mesi sul mare che nei brevi soggiorni a terra: Jorge voleva mettere da parte abbastanza denaro per tornare definitivamente a casa e comprarsi un bar.
Aveva solo ventun'anni ma era già stanco di quella vita sulle navi da crociera, imbarcato come cameriere, ogni tre mesi con una Compagnia diversa. Gli restavano ancora poche ore di quel giorno e la notte intera da passare in Portogallo, poi avrebbe preso servizio sulla Danska Maru: armatore nipponico, itinerario scandinavo e clientela mista, zeppa di crocieristi generosi. Ma non era sicuro che, tra stipendio e mance, avrebbe raccolto la somma che gli serviva.
Quanta acqua doveva ancora navigare prima di poter comprare il suo bar? Il Cafe Oceano di Afife, che era già nei sogni di suo padre., che aveva passato tutta la vita a desiderare il bar, a procreare e a bucare i biglietti dell'Elevador di Santa Luzia, a Viana do Castelo, proprio a dieci minuti da quel bar (se viaggi in auto).
Jorge aveva cominciato a diciassette anni a lavorare a bordo delle navi. Dopo tutto questo tempo speso a preparare cocktail e servire tramezzini, dietro il bancone del ponte principale, sarebbe stato un barman eccezionale, anche se dalle sue parti avrebbero tranquillamente tollerato perfino il peggior sguattero. Ma se un giorno fosse arrivato il turismo internazionale anche nell'alto Minho, lui sarebbe stato pronto. Del resto il suo lavoro l'aveva obbligato ad imparare quattro lingue.
Jorge stava facendo la corte al Sogno anche sulla corriera che in quel momento lo stava portando a Lisbona per l'ennesimo imbarco (comoda, la corriera, comoda ed economica: seicentotrenta escudos per la tratta Porto-Lisboa sono davvero pochi).
Erano trascorse in un baleno le due settimane passate a casa per la festa più importante del nord: la Romaria de Nossa Senhora da Agonìa, che culmina ne
Novembre. Gli alberi puntano i rami spogli al cielo plumbeo che li sovrasta. Folate di vento fendono l'aria, l'erba, i corpi.
Emma e Save rabbrividiscono, stretti l'uno all'altra, infagottati negli spessi cappotti invernali.
Emma prende un respiro profondo, allontanandosi lievemente da lui e dalle sue labbra infuocate.
Era stato dolce, all'inizio. Le aveva dato i suoi tempi, non l'aveva forzata a far nulla. Ma adesso che Emma era pronta, lui voleva tutto.
E lo voleva adesso.
Con un gemito di tristezza, Emma riflette sullo sconfinato squallore della loro situazione attuale: Save era fidanzato. E a quanto pare lei era l'unica a ricordarselo. Erano tante le cose che Emma aveva imparato su di lui durante quella loro relazione clandestina. Una di queste era che Save era capacissimo di scrivere un messaggino romantico zeppo di "ti amo" falsi e cliché amorosi alla sua ignara fidanzata, proprio mentre stringeva Emma e la intrappolava nella morsa delle sue labbra voraci e braccia vigorose. Emma lo amava più di quanto avesse mai amato qualcun altro in vita sua, ma neanche l'immenso sentimento che provava per lui poteva impedirle di comprendere chi fosse davvero Save.
Un ragazzo bellissimo, che sotto l'apparenza angelica e innocente celava un'essenza per certi versi diabolica. Ricordò improvvisamente ciò che le era stato riferito da un amico: quando un compagno di classe aveva fatto notare a Save che uscire con un'altra ragazza era piuttosto sbagliato nei confronti della sua attuale fidanzata, lui aveva semplicemente risposto che non gliene importava.
Emma lo guarda negli occhi, sgranando i propri con aria stupita e ferita insieme. Per la prima volta, sente di riuscire a vedere Save per ciò che davvero è: bugiardo, manipolatore, egoista, subdolo, infido.
Predatore.
I suoi occhi continuano a fissarla, impazienti, mentre il suo respiro caldo le accarezza il collo le accarezza il collo e le strappa ulteriori brividi. Le sue mani dalle dita lunghe e affusol
Che dolore!
Con anticipo sulgli altri sensi, sento contusioni acciacchi che il sonno aveva anestetizzato.
Apro gli occhi a fatica vincendo con coraggio la luce del giorno che irrompe nella stanza che non riconosco.
Il mal di testa mi rende difficile riordinare i pensieri e i ricordi.
Alzo con grande sforzo il capo dal cuscino.
Una sottile inquetudine si fa strada nelle mie interiora.
Non ho memoria!
Indosso la tunica nera tenendomi in piedi a fatica.
Guardo con maggiore attenzione la stanza.
Ne ricavo una impressione deprimente.
Raggiungo il bagno.
Dio mio! Che pallore.
Dannazione! A parte qualche sensazione, non recupero la memoria.
Che strano!? Un vasto silenzio al di là delle finestre.
Una porta nera in fondo al corridoio.
Un sorriso cattivo modifica la mia espressione.
Non ne capisco la ragione.
Darei un tesoro per ricordare.
Le mie mani! Lunghe con le dita sottili... inquietanti.
Ritorno agli specchi antichi del bagno... i miei occhi!
Grandi e neri senza iride... mostruosi.
Chi diavolo sono? Che cavolo faccio?
Perchè questo silenzio?
Una rosa in un vaso attira la mia attenzione. La accarezzo.
... maledizione!
La rosa ora è cenere.
Mi viene il sospetto che questa mia condizione sia inusuale... che la mia natura è nella notte, sono estraneo al giorno.
Trovo il coraggio e apro una finestra.
Un odore acre, putrido... di Morte.
Ora ricordo!
Un sorriso convinto e cattivo devasta il mio muso ossuto.
Ho avuto il solito attacco di sonnambulismo.
Tutta colpa del troppo lavoro...
Ufficio Condoni
Così c’era scritto sulla targa in ottone attaccata alla porta. Una grande porta di legno. Oreste Titoni, anzi il signor Oreste Titoni, continuava a guardare e a riguardare quella targa, non capiva.
Da quanto tempo era lì? Non se lo ricordava più. La luce era una luce fredda e artificiale. Il corridoio dove si apriva quella porta era pieno di altre porte altrettanto grandi e con sopra altrettante targhe, ognuna delle quali indicava un ufficio diverso: ufficio prestiti, ufficio concessioni, ufficio crediti, ufficio reclami e così via…
C’era molta gente. Gente che arrivava, gente che prendeva il proprio numero di prenotazione, gente che aspettava seduta composta e in silenzio, gente che entrava negli uffici, ma nessuno che ne usciva se si escludono quelli che venivano trascinati via a forza da uomini vestiti con una divisa nera con cappello rosso. La cosa strana che però aveva notato il nostro signore era che nessuna delle persone che aspettava il proprio turno desse particolare attenzione a quello che succedeva attorno, era indifferente a quelle urla dei disperati. La gente continuava ad arrivare, prendeva il proprio numero e diligentemente si metteva a sedere davanti alla porta dell’ufficio presso cui doveva andare.
Lo stesso aveva fatto il signor Oreste Titoni, solo che non si ricordava più né il motivo, né come era arrivato fin lì, non sapeva neanche a che piano fosse di quel palazzo che sembrava immenso. Un largo e lungo corridoio si distendeva all’infinito davanti ai suoi occhi, i soffitti altissimi, nessuna finestra, illuminato da grandissimi lampadari, le pareti tinte di un grigio chiaro, il pavimento in graniglia bianca e nera. Lungo i lati del corridoio, oltre alle innumerevoli porte erano disposte delle sedie. Sedie vecchie, in legno che scricchiolavano al minimo movimento delle più o meno ingombranti terga delle persone che sostenevano.
Il signor Oreste Titoni, si andò a sedere anche lui, guardò il numero c
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