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Racconti del mistero

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L'ombra di Cougar Hill

"Se mi vogliono sono così, di certo non posso cambiare: perché io, di sentire dei
cavalli che mi spingono la schiena, ne ho bisogno come dell'aria che respiro".
Gilles Villeneuve


I duecentottantacinque cavalli sembravano voler uscire da sotto il cofano e liberare altrove la loro frenetica potenza, ma il possente propulsore, simile a un vecchio e ruvido sergente di cavalleria, riusciva ancora a tenerli imbrigliati. I quattro pistoni scorrevano impazziti lungo le pareti rivestite di una speciale pellicola in lega di alluminio e spingevano l'auto da corsa a una velocità di quasi duecentosessanta chilometri all'ora.
La pista, era ancora bagnata dalla pioggia di un precedente temporale continuato con ostinazione tutta la notte e rispecchiava le forme irregolari degli sfreccianti bolidi dagli occhi scintillanti e dell'immoto autodromo. L'asfalto dal manto lucido e scuro, era imbrattato dai residui di gomma di precedenti frenate o sgommate. Il manto non era di quelli drenanti e non assorbendo l'acqua piovana, diventava il peggiore incubo per un pilota inesperto e una sfida per il campione smaliziato.
Gli occhi grigi di Kim si alternavano dalla pista al contagiri. Stava percorrendo il lungo rettilineo e la punta dell'ago arancione andava quasi a pungere gli ottomila giri stampati nero su bianco, poi fece un rapido semicerchio in senso antiorario, la Bmw era quasi in prossimità di una stretta chicane che avrebbe smorzato, almeno per una breve durata, la boria di quei poderosi destrieri.
Kim osservava spesso i retrovisori e ogni volta malediva il muso bianco e blu della Chevrolet Cruze, perché sembrava avere un gancio di traino che collegasse il suo avantreno all'assale posteriore della Bmw, incollandola a pochi decimi dal suo primato. E questo irritava Kim Lancetti, abituato a larghi margini di vantaggio in questo tipo di gare.
Un inconveniente tecnico ancora non ben identificato, impediva al Team De Angelis di comunicare con Kim, rendendolo solo in questi

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   0 commenti     di: Ognibonus


Ufficio condoni

Ufficio Condoni
Così c’era scritto sulla targa in ottone attaccata alla porta. Una grande porta di legno. Oreste Titoni, anzi il signor Oreste Titoni, continuava a guardare e a riguardare quella targa, non capiva.

Da quanto tempo era lì? Non se lo ricordava più. La luce era una luce fredda e artificiale. Il corridoio dove si apriva quella porta era pieno di altre porte altrettanto grandi e con sopra altrettante targhe, ognuna delle quali indicava un ufficio diverso: ufficio prestiti, ufficio concessioni, ufficio crediti, ufficio reclami e così via…
C’era molta gente. Gente che arrivava, gente che prendeva il proprio numero di prenotazione, gente che aspettava seduta composta e in silenzio, gente che entrava negli uffici, ma nessuno che ne usciva se si escludono quelli che venivano trascinati via a forza da uomini vestiti con una divisa nera con cappello rosso. La cosa strana che però aveva notato il nostro signore era che nessuna delle persone che aspettava il proprio turno desse particolare attenzione a quello che succedeva attorno, era indifferente a quelle urla dei disperati. La gente continuava ad arrivare, prendeva il proprio numero e diligentemente si metteva a sedere davanti alla porta dell’ufficio presso cui doveva andare.

Lo stesso aveva fatto il signor Oreste Titoni, solo che non si ricordava più né il motivo, né come era arrivato fin lì, non sapeva neanche a che piano fosse di quel palazzo che sembrava immenso. Un largo e lungo corridoio si distendeva all’infinito davanti ai suoi occhi, i soffitti altissimi, nessuna finestra, illuminato da grandissimi lampadari, le pareti tinte di un grigio chiaro, il pavimento in graniglia bianca e nera. Lungo i lati del corridoio, oltre alle innumerevoli porte erano disposte delle sedie. Sedie vecchie, in legno che scricchiolavano al minimo movimento delle più o meno ingombranti terga delle persone che sostenevano.

Il signor Oreste Titoni, si andò a sedere anche lui, guardò il numero c

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Missione mortale

Aveva un sorriso raggiante. Capelli castani mossi e occhi scuri giganti.
Lo incontravo tutti i pomeriggi alla fermata del pullman.
Se ne stava lì con la sua tracolla, e il giornale del Politecnico in mano. Ecco, quella era l'unica informazione che possedevo: sapevo che con molta probabilità era uno studente del Politecnico di Torino.
Quel giorno sembrava agitato. Continuava a fissare l'orologio e a guardarsi in giro.
Avrei voluto avere il coraggio di farmi avanti, ma non ero mai stata intraprendente.
Una volta sull'autobus, presi posto in uno dei sedili davanti; guardai fuori del finestrino. Ero intenta a fissare quel cielo così grigio che prometteva pioggia e conciliava il sonno, quando mi sentii toccare una spalla.
“Scusa? ”
Mi voltai: era lui.
“Sì? ”
“Scusa, puoi dirmi che ore sono? ”
Risi sotto i baffi: ok, era un tipo che ci stava provando. L'orologio ce l'aveva, avevo visto che leggeva l'ora pochi minuti prima di salire sul pullman.
Risposi: “Sono le cinque e mezza. ”
“Grazie. ”
Io sorrisi e di rimando indicai il suo polso: “Cos'ha il tuo che non va? ”
Lui balbettò qualcosa d'incomprensibile. Poi mi tese la mano e si presentò: “Massimo. ”
“Caterina”
“Non vorrei che tu pensassi che sono uno che abborda le ragazze sui pullman... ”
“Oh no! Perché dovrei? ”
Si toccò il capo e commentò. “Ho fatto una figuraccia, vero? ”
Anche se ero maledettamente diffidente, lì per lì mi venne da ridere.
“Non fa niente, tranquillo! ”
Quella fermata caricò un numeroso tot di anziani e di conseguenza mi alzai per lasciargli il posto. Sì, perché se poi non lo fai, s'incazzano e ti guardano male. Tanto vale...
Mi spostai e Massimo mi seguì.
Non so dove trovai il coraggio per domandargli: “Vai al Politecnico? ”
Lui inclinò il viso e socchiuse gli occhi: “Come lo sai? ”
Indicai il giornale che teneva in mano.
Lui seguì il mio sguardo e sorrise.
“Sì, sono un assistente di un

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   6 commenti     di: Roberta P.


Andiamo

un corpo muore, la sua anima lenta risale insieme a me.
Non servono parole per spiegare, tutti capiscono nell'attimo stesso in cui mi vedono, che non rivedranno mai più il mondo come prima.
Chiedono, mi domandano chi sono e dove andranno e tutti vogliono vedere Dio, tutti si preoccupano dell'inferno e del paradiso.
Non rispondo. Voglio che si girino a guardare il mondo, gli uomini.
Non servono più parole adesso che sanno osservare.

"Dobbiamo andare... adesso.."

   5 commenti     di: Anthony Black


San Giorgio

SAN GIORGIO

L’aria era torrida e pesante in quell’assolato giorno estivo di campagna, in un imprecisato luogo di un imprecisato tempo. Il cavaliere, sceso da cavallo, osservava ansimante l’orizzonte, la sua fronte era madida di sudore, così come il suo corpo, pesantemente agghindato con l’armatura color selce, che lo ricopriva quasi per intero. Ansimava e scrutava il paesaggio, coi suoi occhi celeste chiaro, mentre teneva sotto braccio l’ elmo, riccamente cesellato dai migliori fabbri del regno, sul quale erano scolpite alcune delle sue più famose imprese, mentre cercava di far riprendere aria al volto, ai suoi fulvi capelli, riaccordati sopra la testa tramite un rosario di finissime perle bianche, dono di una vergine convertita, da lui prontamente salvata dalle libidinose mire dell’uomo a cui era destinata in matrimonio, e a quell’accenno di barba riccioluta che cominciava a crescere sulla parte inferiore del volto. Ma questa operazione poco serviva a non sentire l’arsura del sole allo zenit, un sole che nella sua perfetta immobilità, rendeva l’aria rovente e immota come una lastra di ferro appena uscita dalla fornace di un maniscalco.
Mentre il suo cavallo era leggermente discostato dalla strada ed era intento a brucare quei radi fili d’erba che riusciva a trovare, il cavaliere guardò la punta della lancia, che teneva saldamente stretta nell’altra mano, per osservare se qualche alito di vento agitasse lo stendardo a croce che vi era issato in cima. ma non un solo Zefiro era stato mandato, quel giorno, dalla Sapienza, per rinfrescare l’aria. “D’altro canto è mezzogiorno…. l’ora in cui il Diavolo è più forte…” disse tra sé e sé il cavaliere, sul cui volto parve comparire un accenno di disincantato sorriso.
L a posa statuaria che aveva assunto in mezzo alla strada, si mutò , nel batter di un ciglio, in un risoluto e marziale passo verso il suo destriero, sul quale rimontò in breve tempo, deciso a riprendere la st

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SPERDUTI - L'isola non ha finito con te

SPERDUTI
L'isola non ha finito con te...


INTRODUZIONE

Molto tempo fa, l'uomo era alla costante ricerca della verità, proprio come tuttora in fondo. A volte però, alcune risposte forse è meglio non conoscerle, per evitare così certe conseguenze spiacevoli. Nel mezzo dell'oceano, in costante movimento nel tempo, c'era un'isola tropicale. Era bellissima ed ospitava immense foreste ricche di frutta, diverse specie di animali, tra i quali alcuni estinti da anni, e immense montagne e vallate, tutte ricoperte di verde. Era un'isola sconosciuta e irraggiungibile dall'uomo, proprio per il fatto che si muoveva nello spazio temporale cambiando spesso posizione. Infatti nessuno ci aveva mai messo piede, profanando, così, forse l'unico luogo al mondo dove la natura non veniva modificata e rovinata dalle costruzioni artificiali. Nel corso dei secoli, solo il protettore dell'isola ci viveva sopra. Ciò che veniva protetto da generazioni, non era altro che una luce intensissima, proveniente dal centro di quest'isola e contenuta a sua volta sotto ad una grotta. Un giorno però, degli uomini arrivarono sull'isola e trovarono quella luce, cercandone un uso personale per poter abbandonare quel luogo maledetto e pieno di misteri, visto che era impossibile andarsene a causa del suo continuo movimento nel tempo. Alcuni riuscirono nell'intento, e raggiungendo tale luce, fecero sì che il tempo divenisse controllabile e manipolabile dalla mano dell'uomo. I danni furono irreversibili. Jackob, ora aveva bisogno di altre persone per proteggere quel posto, così si intromise nella vita privata di alcuni, secondo lui, candidati per tale ruolo, e li condusse con l'inganno sull'isola. Sceglieva persone sole, come lui, prive di uno scopo, e le convinceva a trovarne uno nuovo, più grande e più importante di qualsiasi altra cosa al mondo. Jakcob però aveva un fratello gemello. Era la reincarnazione del male. Quando vennero dati alla luce, alcuni secoli prima, la loro madre, ovvero

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   1 commenti     di: Mirko Raccardi


L'invito

L’invito



La signora * penetrò nello studiolo, dove sapeva avrebbe sorpreso il marito posatamente inten-to ai suoi disbrighi?" che richiedevano un raccoglimento e un’operosa inerzia più volte rogati e nondi-meno mai (pressoché) incontrastati?" con la medesima intrepida arditezza che la “Pucelle d’Orleans” a-vrebbe profuso nello sguardo rivolto ai fortilizi da prendere d’assalto:
?" Per venerdì prossimo (non questo, ma quell’altro ancora), siamo stati invitati a una festa in campagna. Il signor *, che nel corso degli anni aveva imparato ad opporre il più misurato sangue freddo alle traversie che la sorte recapita, lasciò smottare giù in caduta libera le palpebre, sopraffatte da un peso improvviso, e se in apparenza appoggiò quieto la schiena alla poltroncina, in realtà si abbatté sullo schienale, folgorato nella psiche.
?" Io, per me, una festa in campagna la preferisco?" incalzò l’aggreditrice?" : c’è più cordialità, si sta più rilassati senza troppe formalità, c’è un senso maggiore dell’ospitalità, meno bisogno di fare ele-ganza… non credi? ?" ma l’interrogativo, lungi dall’essere retorico soltanto, nascondeva?" eccome! ?" un’inflessibile asserto, comparabile a quello di quel gran sardo: “… e chi non beve con me… peste lo côlga!”
Il signor * accolse l’ambasceria con genuina apprensione, poiché provava un’istintiva ripulsa per i ricevimenti in genere, e con la più giocosa amara ironia che seppe trarre, debolmente si difese:
?" Chissà che non ci troveremo pure quella simpatica signora che conosce impareggiabilmente tutte le storie delle famiglie e non si lascia sfuggire la benché minima occasione di riversare il suo sapere nelle orecchie del più vicino ascoltatore... Era in effetti un’apologia scarsotta, dalla moglie facilmente dispersa replicando che no, la donna era fuori sede, a trovare la figlia maritata con un ufficiale medico della Marina, provveduto di baffi

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