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Racconti del mistero

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La casa delle tre vedove

Un giorno di Novembre, alle prime luci dell'alba, quando la bruma mattutina si condensa in strati sottili e sembra galleggiare nell'aria, seguendola in quel dolce dondolio in guisa di monotona risacca marina, e la luce tremula si insinua tra le fumanti zolle di terra, risplendendone in mille riflessi cristallini, un uomo camminava lungo la strada che uscendo dal paese si adagiava per valli e colline seguendo un percorso dettato più dalla casualità che dalla logica. Nell'accingersi ad oltrepassare il cancello della casa delle tre vedove ebbe come un attimo di smarrimento, un momento di sospensione dell'incessante battito del tempo e dello spazio, provando la netta sensazione di trovarsi sull'orlo di un precipizio. Dovette appellarsi a tutte le sue forze per restare in piedi, cercando disperatamente un sostegno. Prima di cadere a terra la sua mano venne afferrata da una gelida propaggine, dalla quale istintivamente cercò subito di divincolarsi, reputando l'appiglio più pericoloso dell'abisso che percepiva sotto di lui.
- Si sente male, signor Maltoni? - Chiese una voce fredda e dura come l'acciaio,
provocandone l'immediata ripresa dei sensi. Si trovava nel viale che dal cancello di ingresso conduceva alla villa, ed il freddo sostegno che gli aveva consentito di non cadere in terra era in effetti la mano di un uomo.
- No, no, ora mi passa, è stato solo un capogiro. La ringrazio, comunque. - Disse
cercando di riprendere contatto con la realtà.
- Le signore la stanno aspettando, se vuole seguirmi. - soggiunse quello che sembrava essere il maggiordomo, avviandosi in direzione della villa.
Le brune mura sbrecciate, testimoni di passate battaglie, di antichi assedi, di splendide vittorie e di triste sconfitte, edificate con il sudore e difese con il sangue, ora rimanevano esangui testimoni di glorie trascorse e di inconfessate speranze.
Fiera testimone della potenza militare della signoria, l'antica rocca aveva subito l'onta del tempo divenendo residenza

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Quel maledetto messaggio

Giulia era felicemente sposata con Amedeo da un anno appena. Era un uomo basso, scorbutico e abbastanza geloso, ma per lei i suoi difetti non esistevano. Si erano conosciuti quattro mesi prima del grande giorno, si direbbe proprio sia stato un colpo di fulmine.
-“Giulia ti prego pensaci bene, non prendere decisioni affrettate.”- le aveva detto una mattina Teresa, la sua amica del cuore.
Prese il diario da un cassetto del comodino nella camera da letto ed iniziò a sfogliarlo. Arrivò a quella maledetta pagina e la sua espressione mutò improvvisamente. Si voltò verso Amedeo che in quel momento era intento a guardare la televisione.
-“Teresa è morta e ancora stento a crederci. Era una ragazza dolce e socievole con tutti, com’è possibile?”-
-“Cerca di dormire Giulia, più ci pensi e peggio è”- Amedeo prese le lenzuola coprendola e le donò un lungo bacio appassionato. Lui aveva ragione, doveva dormire, alla mattina si sarebbe celebrato il funerale.
Il giorno seguente Giulia si svegliò di buon’ora, erano appena le sette ed aveva ancora qualche ora a disposizione prima di recarsi alla chiesa. Si vestì velocemente non curandosi del suo aspetto e rimase silente in attesa che anche il marito fosse pronto per uscire.
Esattamente alle dieci in punto giunsero alla chiesetta dove si avrebbe dato l’ultimo saluto a Teresa. Una giovane donna dai capelli lunghi e neri andò loro incontro.
-“Giulia, Amedeo! Prego da questa parte”- li esortò a seguirla oltre la piccola porta in legno.
-“Lo so quanto le eri affezionata, ti deve mancare molto. A dire il vero manca a tutti, era una persona eccezionale”- Giulia annuì senza proferir parola alcuna.
Mancava poco all’inizio della cerimonia, quando Giulia si sentì vibrare nella tasca dei suoi jeans. Aveva dimenticato il cellulare acceso e qualcuno la stava chiamando.
-“Giulia hai lasciato il telefono acceso? Insomma, siamo ad un funerale. Dov’è finito il rispetto?”- Amedeo assunse un tono

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   1 commenti     di: Vale B


Sterminio di Massa

STERMINIO DI MASSA

“Maggio di 2005. Larry Barris comunica il numero della sua carta di credito intestata falsa e acquista per posta, dalla “American Type Culture Colletion di Rockville, una società di forniture biomedica del Mary land, tre fiale contenenti “Yersina pestis”, il bacillo che causa la peste.
I bacilli sono stati modificati geneticamente per renderli estremamente letali, progettati perché siano resistenti a più di 30 antibiotici e alle normali terapie antisettiche.
Giugno di 2005. Terroristi infiltrati nei grandi centri commerciali, scuole e parchi di divertimenti, disseminano segretamente il batterio della peste contagiando gran parte degli sprovveduti cittadini americani.
Dopo una settimana, i medici diagnosticano la malattia in 50 persone. Si esegue una rigorosa terapia antibiotica ma questi pazienti non danno segno di miglioramento. Nei giorni che seguono, il contagio si espande. Si diffonde un panico collettivo. Scoppiano polemiche e tumulti ovunque. Il sistema sanitario va in “tilt”. Gli stati chiudono le frontiere. L’economia da forte segno di debolezza. Ad un mese dalla disseminazione del batterio, la malattia si è diffusa in ben 25 stati americani e in 15 altre nazioni. Generalizza il caos mondiale. I normali programmi televisivi sono stati sospesi per trasmettere in diretta le notizie provenienti da ogni angolo del globo. A quel punto, 50. 000 persone sono state contagiate e sono quasi 5. 000 i morti. Gli esperti calcolano che nel giro di tre settimane, il numero salirà a ben due milioni, metà di loro morirà.
Contemporaneamente, altri gruppi terroristici presero di mira i bovini, iniettando agenti patogeni negli alimenti. Cani e gatti che tutt’a un tratto impazziscono costringendo i loro padroni ad abbatterli per paura che siano infettati dal virus della rabbia.
Tonnellate di pesci cercano di raggiungere la terraferma e li muoiono avvelenati da una sostanza ancora non identificata.
Cresce la paura di un attac

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   3 commenti     di: Eliude Santana


DATEMI TEMPO

Datemi tempo di pensare.
Vedo immagini confuse, solo dei lampi dolorosi che dipingono immagini astratte sulla mia retina.
Ho avvertito un urto proprio sulla coscia.
Subito dopo ho sentito lo sparo... e poi quel bruciore insopportabile alla gamba. E subito dopo la percossa violenta al viso... una botta travolgente!

Bartolomeo era piuttosto rispettato, tra i bambini che trascorrevano i pomeriggi nei pochi metri di strada che univano viale Serao alla scalinata che scendeva al porto e che gli urbanisti della città avevano battezzato “vicolo Sponda”, mentre per i bambini era semplicemente “la vietta”.
Ad essere impietosamente sinceri incuteva più timore che rispetto; Bartolomeo ne era cosciente e, a dirla tutta, la situazione gli piaceva. Quel senso di autorità che riusciva ad imporre ai suoi coetanei era dovuto al suo metro e quarantasette per cinquantanove chili che gli davano di diritto i galloni di capo branco tra i “lupi della vietta”, il gruppo dei dodicenni del quartiere che si riunivano per giocare a pallone o per menarsi proprio nella “vietta”. Il luogotenente storico di Bartolomeo era Nando, suo compagno anche a scuola, lungo e magro, che tutti in sua assenza, chiamavano “il coniglio”, sia a causa degli incisivi gialli ed evidenti da roditore che per l’approcio timoroso che aveva nei confronti della vita.

Oltre ad essere grosso era anche bastardo, Bartolomeo:
- Nando, vedi quel tizio, lì all’angolo, col giornale? Facciamo che se lo becco alle gambe col pallone mi paghi un pralinato, se no te lo offro io...
- Perchè dobbiamo rompergli le palle, scusa? Tanto non ho soldi, oggi...
Bartolomeo inarcò le labbra in un sorrisetto diabolico, poi, stringendo il pallone al petto, diede una spinta a Nando, urlandogli:
- Vaffanculo... ce l’hai!
La sfida era partita, ora Nando doveva per forza rincorrere Bartolomeo e restituirgli la spinta, pena il disprezzo del branco, cosa che nemmeno un coniglio può tollerare.
Rincorrend

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LA CITTÀ DELLE ILLUSIONI

“Questo maggio è forse l’ultimo maggio del mondo di illusioni che mi sono costruito intorno; il mese prossimo penserò con nostalgia a questo me stesso di poche settimane più giovane: ma adesso, oggi, fatico persino a ricordare come tutto abbia avuto inizio.
E perché non ricordo? Solo perché lo scontro frontale che ho avuto con la betoniera è stato così violento?
Andiamo…
Forse è invece per il sonno, che in questa tarda primavera, troppo calda per non definirla precoce estate, mi avvolge, molle e denso come melassa infernale, e non lascia spazio nemmeno ai ricordi, per non parlare di qualsiasi altro pensiero sensato, accidenti!”
Così vaneggiava Emeraldo Diaz, in mezzo all’Avenida De Cormollo di Mexico City, nella pozza di bitume nella quale si trovava immerso dopo l’incidente.

Una gelata sembrava aver cristallizzato il cielo, nella mente di Emeraldo, che stava passando da sensazioni di caldo opprimente a brividi sferzanti e improvvisi. Di colpo credette di essersi alzato ritto in piedi e avere gridato qualcosa, ma non sapeva cosa… anzi, di sicuro non si era alzato, e questo gli era chiaro, tanto quanto il fatto di avere le gambe spezzate… insieme a tante altre ossa, del resto.
La mente vacillava, com’è comprensibile, continuando tuttavia a lanciare saette calde agli occhi dell’uomo, dei lampi di luce dolorosi che Emeraldo interpretava come pensieri.
“Il mese prossimo penserò con nostalgia a questo me stesso” si ripeté Emeraldo già immaginando quanto sarebbe stato triste il suo futuro, in trazione nel letto di un qualche nosocomio, se possibile ancora più triste degli attimi che stava vivendo in quel momento, che almeno erano allietati dalle scariche di adrenalina.
“Ripenserò con un certo rimpianto anche a tutte le mie frattaglie, un tempo posizionate per benino nel corpo ed ora indecorosamente sparse sulla strada, accidenti!”

“Nei suoi romanzi ci sono solo due elementi invariabili: la pioggia e i capi-stazione

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IL GIOCATTOLAIO

Ci sono posti, luoghi, negozi, palazzi nelle nostre città che non sapremmo mai dire quando sono stati costruiti, o aperti, o chiusi. Ci sono posti, luoghi, negozi, palazzi nelle nostre città che non sappiamo neanche che esistono eppure sono.
A Milano, in corso di porta Romana vicino all’antichissima chiesa di San Nazaro, c’è un piccolissimo negozio che vende giocattoli vecchi. Nessuno degli abitanti della zona se interrogato può dire quando quel piccolo negozio è stato aperto. I giovani giurano di ricordarselo da sempre, gli anziani sostengono che è nato insieme a Milano e che il suo proprietario è il tempo. Fatto sta che nessuno ha mai fatto caso più di tanto a quel piccolo negozietto.
In effetti a ben guardarlo passa piuttosto inosservato. Una piccola vetrina ordinata e pulita con carillon, trottole, soldatini, bambole, trenini, macchinine di latta ed altro ancora. Il proprietario è un signore dall’età indefinita. Non molto alto, i capelli neri corvini tirati indietro e laccati sulla testa dalla brillantina, un paio di occhiali piccoli e rotondi che nascondono due piccoli occhietti, e due baffi lunghi, sottili e ben curati. Il suo nome Amos Zoma. Ogni mattina puntuale alle nove tira su la saracinesca per abbassarla ogni sera alle ore otto in punto. Le sue giornate le trascorre dietro al bancone a pulire, aggiustare, studiare i nuovi vecchi giocattoli che gli arrivano ed ad aspettare il prossimo cliente. Ad entrare sembra di essere in un paese del balocchi di collodiana memoria; un luogo dove il tempo sembra essersi fermato.
Era il periodo di Natale e Milano come ogni anno venne vestita a festa. Le luminarie rendevano ancor più evanescente e particolare quell’aria umida e un po’ nebbiosa che ogni sera scendeva per le strade, tutto assumeva uno spettrale color giallino. Le persone camminavano di fretta strette nei cappotti, vuoi per la premura, tipica dei milanesi, o per il freddo, o ancora per l’ora tarda. Tutti andavano di fretta,

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Un sorriso non fa mai male

Scena 1 settembre 1943
Piazza principale del quartiere.
Presidio 2° reggimento motorizzato SS-Panzer-Grenadier-Division "Reichsführer-SS"

Il portone di legno massiccio si schiuse. Ne uscirono otto soldati che si disposero su due file dandosi le spalle gli uni con gli altri e imbracciando fucili mitragliatori MP-40 si guardarono intorno. Il loro sguardo feroce celava la paura di un imminente attacco delle brigate partigiane che circondavano il paese. Una Mercedes nera con gli interni in pelle rossa frenò bruscamente davanti ai soldati e solo allora uscì dalla porta con passo deciso e cadenzato l’SS-Untersturmführer e i suoi due attendenti.
Non fecero in tempo a salire sull’auto. Da più balconi in un caos frenetico i cecchini cominciarono a sparare in un convulso cielo di piombo. Il loro fuoco era devastante e gli uomini delle SS colti di sorpresa caddero in breve tempo. L’SS-Untersturmführer venne colpito alla testa, un proiettile gli bucò il suo impeccabile berretto facendogli saltare il lucente distintivo che finì in un tombino li vicino. Il proiettile proseguì il suo viaggio e andò oltre la calotta cranica, nella sua materia cerebrale e poi su una panchina di granito. Era morto. Gli altri colpi su quell’elegante divisa nera furono soltanto la conseguenza di un’ira che avrebbe voluto uccidere quel cadavere una volta di più. Era morto e la vendetta era compiuta. Era morto e se n’andarono via come fantasmi.
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Scena 2 settembre 1993
Piazza principale del quartiere.

Andrea, 16 anni ascoltava nel lettore cd una suite strumentale di Mike Oldfield forse troppo rilassante per accorgersi di ciò che intorno si muoveva e viveva. Gli studenti scocciati alla fermata del bus, ansiosi di arrivare in tempo per la puntata dei Simpson, l’edicola con le ultime su Lady D, il cinema con l’ultimo film su Twin Peaks di David Lynch… tutto questo e

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   1 commenti     di: Dario llll l ll



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