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Racconti del mistero

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Il silenzio delle Sirene di Franz Kafka

Dimostrazione del fatto che anche mezzi inadeguati, persino puerili, possono servire alla salvezza.
Per proteggersi dalle Sirene, Odisseo si tappò le orecchie con la cera e si lasciò incatenare all'albero maestro della nave. Naturalmente tutti i viaggiatori avrebbero potuto fare da sempre qualcosa di simile, eccetto quelli che le Sirene avevano già ammaliato da lontano, ma era risaputo in tutto il mondo che era impossibile che questo potesse servire.

Il canto delle Sirene penetrava dappertutto e la passione degli incantati, avrebbe spezzato ben più che catene e albero.

Odisseo non ci pensò, benché forse lo sapesse per esperienza.
Confidava pienamente in quel poco di cera e in quel fascio di catene, e, con l'innocente gioia per i suoi astuti sotterfugi, andò direttamente incontro alle Sirene.

Ora, le Sirene hanno un'arma ancora più terribile del canto, cioè il silenzio.

Non è certamente accaduto, ma potrebbe essere che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio.

Al sentimento di averle sconfitte con la propria forza, al conseguente orgoglio che travolge ogni cosa, nessun mortale può resistere.
E, in effetti, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, sia che credessero che solo il silenzio potesse vincere un così abile avversario, sia che, alla vista dell'estasi nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cera e a catene e a un enorme cavallo di legno sulla piana di Troia, si dimenticassero proprio di cantare.
Ma Odisseo tuttavia, per così dire, non udì il loro silenzio, e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall'udirle.
Vide fugacemente sulle prime il movimento delle loro gole, il respiro profondo, gli occhi pieni di lacrime, le bocche socchiuse, ma credette che questo facesse parte delle melodie che non udite risuonavano intorno a lui.

Ma tutto ciò sfiorò appena il suo sguardo fisso nella lontananza, le Sirene sparirono davanti alla sua determinazione e,

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   4 commenti     di: Mauro Moscone


L'abbandono

Le sette e trenta. Tra poco vado, anzi è meglio che vada subito, sì, così trovo un posto per sedermi, è inutile perdere tempo, poi non trovo mai un minuto per fare qualcosa d’altro. Me lo dicono sempre tutti che è importante ritagliarsi degli spazi. Che so, per uscire con gli amici, per fare un bel giro in bicicletta. È una vita che non prendo la bicicletta ora che ci penso, la mia bella Daccordi blu, pagata una cifra, è giù in cantina a fare la ruggine. Fa niente, ora mi tolgo questo pigiama, chè non sta bene vagolare per casa in pigiama, poi la barba, un cappuccino e via.
Non ci vedo niente di male a rimanere in piagiama tutto il giorno, ma poi la sera non ci sarebbe nessuna soddisfazione a rimetterlo, intendo, a cambiarsi d’abito, a dichiarare a se stessi di essere pronti per andare a letto, non necessariamente a dormire. Dormire è un’altra cosa.
Fuori è ancora buio, filtra appena la luce opaca di un lampione dalle persiane tutte sconnesse. D’estate è impossibile dormire fino a tardi se non si sopporta la luce. Ma ora è meglio che mi vesta; raggiungo a tentoni l’armadio, non trovo nemmeno la torcia che tengo sul comodino, fa niente, ce la faccio lo stesso, è casa mia, saprò trovare l’anta di un armadio! Eccola, forse ci sono; scorro il legno con la mano finchè non trovo la piccola serratura, ci infilo un dito e tiro verso di me, affondo le mani nel buio ancora più buio di quell’antro e provo a riconoscere i vestiti dalla stoffa: lana, lana, cotone, ancora lana, cotone, un pile… ecco, questa è una camicia, ve bene la prendo, tanto una vale l’altra oggi; poi un paio di scarpe, le calze, un maglione. Ecco fatto. Esco dall’oscurità, vado verso il soggiorno, i miei occhi si abituano alla luce. È una piccola grana non tollerare la luce diretta, specie appena sveglio. Ma il vero fastidio è dover ripetere questa recita della vestizione ogni santo giorno. Ci si fa l’abitudine, dicono. Sarà, ma in vita mia non mi sono mai abitu

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Le sette solitudini

"Perché la lampada si spense?
La coprii con la mano,
per ripararla dal vento,
ecco perché si spense...
Perché il ruscello s'inaridì?
Lo sbarrai con una diga,
per averlo solo per me:
ecco perché s'inaridì...

E sia quel che sia non dipende da me
E sia quel che sia non dipende più da me."

L'esecuzione della prima strofa e del ritornello mi avevano stregato.
L'artista di strada suonava quella meravigliosa canzone per un distratto pubblico di quattro passanti che andavano e venivano, gettando qualche monetina dentro la custodia della sua chitarra.
Sembrava l'uomo più povero del mondo e nello stesso tempo posso dire che era un Re: la sua schiena era dritta come quella di un monarca sul trono e il suo sguardo sembrava quello di un capitano pirata all'arrembaggio... e quella musica, quei delicati arpeggi ad accompagnare quei versi stupendi...

"Perché il fiore appassì?
Con ansioso amore
Lo stinsi al petto
Ecco perché, il fiore appassì.
Perché la corda dell'arpa si spezzò?
Tentai di trarne una nota.
Al di là delle sue forze:
ecco perché si spezzò.

E sia quel che sia non dipende da me
E sia quel che sia non dipende più da me."

Terminata la canzone e dopo aver raccolto qualche applauso sgangherato e pochi spiccioli, il chitarrista clochard stava per andarsene, quando in preda a un misterioso desiderio chiesi di potergli parlare:
- Umm... fanno cinquanta euro, amico, questa è la mia tariffa...
- Cinquanta euro? Accidenti, sei caro quanto sei bravo!
- Non l'ho inventato io questo mondo, amico.
Dalle nostre parti conta solo quello che può essere comprato o venduto.
Se tu non paghi per l'opera di un'artista, quella non vale niente, e viene buttata nella spazzatura, e spesso, il suo autore insieme alla sua opera.
Ripeto, non le ho stabilite io queste regole.
Senza ulteriori obiezioni, mi sfilai dal portafoglio cinquanta euro e gliele misi in mano all'istante.
- Bene, andiamo in quel bar a bere un caffè, offri tu ovviament

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   1 commenti     di: Mauro Moscone


Luce

La finestra emetteva un bagliore soffuso, le quattro mura dagli affreschi stinti erano illuminati malamente da quell’ unica fonte di luce. Uno squittio ruppe il silenzio facendo gelare il sangue nelle vene dell’ uomo. Gli occhi saettarono impauriti. Da quanto tempo era lì? Gli sembrava di esistere da troppo tempo. Lacrime inesistenti, ma che scivolavano dal suo cuore ormai gelido, gli fecero sentire un flebile sprazzo di vita. Arrendendosi nella sua prigione di pietra che lo avvolgeva come un costume grottesco ascoltò i passi e le voci che si accavallavano della folla. Sempre pronta a fotografare, sempre pronta a togliere privacy. E quella voce che si distingueva dalle altre, che spiegava in diverse lingue cosa conteneva quella piccola casa monolocale... " Qui noterete il famoso cadavere ricoperto di lava, scoperto da anni nella bella Pompei. Notate la sua postura. Sembra che stia pensando, ignorando il fatto che una colata di lava l’ abbia ricoperto uccidendolo all’ istante. Uno dei tanti misteri di questo luogo..."



BRICIOLE DI FELICITA'

No, non è che non voglia rivelare il suo vero nome, casomai un vero nome fosse plausibile, all’inizio della narrazione. È che non me la sento, almeno per il momento, di inventarne uno di sana pianta. Potrei scrivere che si chiamava Girolamo Ottipresti, oppure Galdino Furillo, o, che so, Teodoro Di Banco… Credo solo che sia meglio, al momento, chiamarlo semplicemente Pietro, tutto qui. Probabilmente ho l’esatta coscienza che ai fini di una storia come questa un nome valga esattamente un altro: non è rilevante. Quindi…
Pietro nacque, come tutti, molto giovane, proprio un bambino, direi, strettamente, neonato. Ebbe un’infanzia assolutamente nella media, con un curriculum scolastico non così brillante ma neanche da buttare, non in tutte le materie ma quasi. Certo, eccelleva in disegno ed era uno dei più bravi a scalare il quadro svedese. Per contro non capiva l’aritmetica ed in letteratura non è che si applicasse molto. Tutto il resto lo svolgeva con passabile mediocrità. Fu poi adolescente né alto né basso, snello ma non proprio magro, senza molte amicizie femminili come qualsiasi quattordicenne neo- baffuto che si rispetti. A tavola gradiva quasi tutto ma con moderazione, il che lo rendeva trasparente alle feste di compleanno dei compagni di scuola, dove andavano per la maggiore le ragazzine anoressiche e i fanciulli bulimici. Insomma viveva una vita assolutamente normale, Pietro. Fino a quel maledetto giorno di novembre. Pietro stava attraversando la strada immediatamente davanti alla scuola, quel giorno così umido, affiancando Bartolomeo Caliè, detto “il coniglio” a causa degli incisivi da roditore e della tremebonda sensibilità. Il passaggio pedonale era regolato da un semaforo, il cui colore verde dovrebbe assicurare una certa tranquillità ai traghettatori appiedati, perciò i due ragazzi continuarono bellamente la loro immersione nel resoconto dettagliatissimo delle nuove forme che erompevano dal petto delle loro compagne di scuola.

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L'amore cieco.

Scende le scale e si guarda intorno, senza capire dove sia finito. Brutta bestia, l’alcol. Il mondo si trastulla coi suoi passatempi, e intanto lui non sa più dove si trova. Illusione di solitudine, spazi indefiniti che sembrano immensi, un cielo stellato da togliere il respiro. Dove sono andati tutti? Possibile che sia rimasto solo? No. Non può nemmeno pensarci, qualcuno deve pur esserci. Uomo animale egoista, ma che si nutre di compagnia. Cammina per qualche metro, scegliendo di vedere solo ciò che gli va. I dettagli che possono aiutarlo a ricordare se ne stanno lì sfuocati, come avvolti da una nebbia misteriosa sbucata da chissà dove. Cammina ancora, faccia stranita, occhi bassi, OFF, pensieri spenti e cervello disattivato.
Poi si sveglia. Chissà come ha fatto a tornare a casa. Fuori un’alba banale, uguale a chissà quante altre. Mal di testa, fotogrammi di eventi vissuti e recenti ricordi. La festa, l’alcol, le risate, la paura di morire. Classica sbronza, niente di male, anche per lui che è un uomo onesto e benvoluto da tutti. Acqua fredda, caffè forte e via, un colpo di spugna su una serata un po’ ardita. L’uomo mediocre mette in soffitta gli eccessi.
Lavoro, giornata come le altre. Cena da solo, TV, scatola magica per imbrogliare chi è solo, solo da troppo, solo nel letto, solo dovunque. Mattina, lavoro, giornata come le altre, costellata da minime differenze che non cambiano il risultato. Altra cena per uno, illuminata dalla luce di plastica della scatola magica. Troppo spazio nel letto.
Poi, lei. La vede passare, le parla, la invita a cena. Cena. In due, illuminati dalla luce fioca&romantica di un’abat-jour. Sperando magari di non essere solo nel letto. Lui comincia a innamorarsi. Altra cena e la linea che sale verso l’amore più folle. Quello vero, quello crudo, viscerale e pazzesco. Mai provato. Quello per cui fai tutto, quello per cui superi le prove.
-È lui. Fallo sparire. Non lo amo più da anni, forse non l’h

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Il risveglio di Jackie

“Ciao!... sì certo!... ciao, ciao, divertitevi! Sì che mi ricordo…ciao!”.
Le solite raccomandazioni e i saluti di circostanza accompagnarono la porta che Jackie si chiuse alle spalle, senza voltarsi nemmeno un momento.
Per qualche secondo il silenzio della villetta di periferia fu la colonna sonora della sua libertà, ora che i genitori, con sua sorella Annalisa, erano partiti per una vacanza di quindici giorni in un paese della Sardegna di cui Jackie non conosceva nemmeno il nome.
Libertà, libertà. Ampia scelta sulle cose da fare, ma soprattutto su come farle, gestirsele.
A ventuno anni non si poteva certo dire che fosse un bambino; il vivere in casa con i genitori era necessario durante gli studi universitari e non aveva certo ofuscato la maturità e l’indipendenza da giovane uomo che Jackie si incollava addosso tutte le volte che usciva di casa.
Si appoggiò con la schiena alla pesante porta blindata e si godette ad occhi chiusi la partenza del nucleo familiare, sperando che non avessero dimenticato niente che richiedesse un rapido ed imprevisto rientro.
Jackie ovviamente non era Jackie ma Giacomo, dal momento che era nato e risiedeva in un piccolo comune dell’Emilia Romagna; niente stelle e strisce, niente di esotico, ma portava comunque volentieri quel soprannome che gli era stato cucito addosso fin dalle scuole elementari.
Camminando verso la sua stanza non potè non ammirare lo splendido lavoro fatto da sua madre che, come se si avvicinasse una guerra, aveva preparato alla perfezione il fortino che Jackie avrebbe difeso e vissuto nelle successive due settimane, pulendolo da capo a piedi e rifornendolo di tutto il necessario.
Ovunque si girasse Jackie vedeva ordine, qualsiasi cosa cercasse con lo sguardo era lì: i soprammobili erano dritti, gli asciugamani in bagno erano puliti e piegati, saponi e confezioni di bagnoschiuma nuovi e pronti all’uso. I suoi cassetti non avevano mai visto tanta biancheria pulita e perfino la scarpiera p

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