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Racconti sulla nostalgia

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La Città del Nord (Cap. VI da Le Finestre di Mara)

L a città in cui si era trasferita con Andrea per trovare lavoro era grande, elegante nelle sue belle piazze ma molto fredda.
Dalla finestra della casa in affitto vedeva nelle giornate serene le montagne innevate. Queste assumevano delle sfumature diverse a seconda delle stagioni e delle diverse ore del giorno.
A volte sembravano blu, altre rosa. A primavera col cielo terso, nei tramonti color arancio Mara ritrovava persino immagini e colori persi nel tempo.
Nelle sere di inverno la nebbia era però una costante poco piacevole. Il cielo stellato delle sue serate da ragazza nella città dei Sassi era solo un ricordo lontano.
Avevano trovato non con una certa difficoltà, quella piccola casa nel quartiere Crocetta uno dei più chic della città..
Erano stati fortunati da meridionali ad avere quell ‘appartamento, ma solo perchè insegnanti. Avevano dovuto promettere, però, alla proprietaria di non aver subito dei figli.
Avere figli...? Non era certo il primo pensiero di Mara. Si era trasferita là proprio per lavorare e conduceva, lontana chilometri dagli affetti familiari, una vita non facile.
Aveva ottenuto un incarico di insegnamento piuttosto complicato: tre volte alla settimana insegnava letteratura francese in un Liceo, gli altri giorni aveva lezione la sera in un Istituto Professionale dell’ Agricoltura. Ambedue le scuole erano fuori città.
Praticamente era quasi buio quando la mattina usciva di casa per andare al Liceo che si trovava in montagna.
Seduta sui freddi sedili del pullman sbirciava fuori insonnolita. Vedeva i grandi viali alberati ancora scuri e avvolti dalla nebbia che davano tanta tristezza. La città laboriosa, in parte pigramente si risvegliava e in parte andava ormai a riposare.
Sul grande viale di Mirafiori, dove il pullman faceva sosta per alcuni minuti, osservava gli operai del turno di notte. Uscivano stanchi dalle fabbriche e imbacuccati fino alla testa per ripararsi dal freddo. Si salutavano velocemente, saltavano su di u

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   2 commenti     di: MD L.


Renaio: undici chilometri (prima parte)

All'epoca delle ferie d'agosto, dalla fine degli anni '60 al 1980, erano undici i chilometri che separavano Barga da Renaio, l'Ottocento dal Novecento, il presente dal passato, la vacanza dalla realtà di tutti i giorni.
Il confine fra le due realtà poteva variare, ma arrivava puntuale nel momento in cui si chiudevano le orecchie per la pressione atmosferica che diminuiva con l'altitudine e che di solito si sbloccavano poco dopo arrivati a destinazione. Undici chilometri di curve strette in una strada che era un grosso viottolo, inizialmente tutto sterrato, del quale si conosceva ogni curva, e che con il passare degli anni veniva asfaltato per tratti sempre più lunghi, traccia unica dell'avvicinamento della civiltà al piccolo paese che tardava invece a conoscere qualsiasi comodità.

La località si componeva di più nuclei; il principale era Renaio, con la bottega ed il telefono pubblico a scatti collocato nell'antibagno, con buona pace per la privacy di chi telefonava... ed anche di chi era in bagno.
Poco più in basso la scuola e, nella parte più alta del monte, da un lato la chiesa col campanile costruito poco discosto e dall'altro il cimitero. Poi, Bebbio, la Casermetta, una caserma della forestale in prossimità del sentiero che portava al Lago Santo, l'Abetaia, una vecchia casa di contadini abbandonata, ad un paio di chilometri dal centro, dove si potevano gustare le mele selvatiche e susine, ed infine Carpinecchio, a poca distanza, ma collegata alla già sperduta Renaio da un viottolo scosceso transitabile solo a piedi o con i muli. Una strada collegò la frazione solo alla fine degli anni Settanta, quando fu aperta una via che dal fondo valle risaliva su fino alla via dell'Alpe.
La strada, tutta curve, continuava infatti nel bosco fino al passo delle Radici, dal quale si poteva raggiungere San Pellegrino in Alpe. Qualche volta abbiamo fatto anche quella strada, che consentiva di arrivare al santuario senza tornare indietro a Barga e passare per

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Veneto Fantasma

Veneto fantasma, Veneto che esisti solo nella memoria dei sopravvissuti.
Terra amata, ricca di sogni. Terra profonda, fatta di anime e di speranze.
Veneto, ti vedo come un miraggio, come una terra degli Dei usurpata dall'uomo.
Ricordi del Veneto, messaggi del Veneto ormai estinto. Segni come menhir della memoria. Case piantate in lande desolate dove danzano le stagioni.
Luci e ombre di amori passati, di illusioni di donne. Galleria di sussurri e di carezze del vento. Qui il passato parla, qui il passato grida.
Vite intrecciate, vite finite, vite sbocciate. Anime dure, parole dolci e sensazioni amare sul limitare del tempo.
Un cuore batte. Una musica si spegne nel tintinnio del ferro. Qualcuno viene. Con passi d'ombra al chiarore della luna. Veneto di ricordi e di rimpianti.
Case che ridono, case che piangono, case che sognano... Emozioni sulla soglia dell'eternità.
Case della mente o case del cuore. Case dai lunghi sospiri, che raccontano le loro storie...

   7 commenti     di: sergio bissoli


Crete d'autunno

È un autunno pigro, dal fascino dorato e molle, e’ sole tiepido che filtra dalle persiane abbassate, sono fiori che sbiadiscono sui terrazzi perdendo petali e colore. È autunno di creta, ha l’anima calda, l’ombra di un uomo schiacciata sul muro, senza spessore, nè dolore. Ha tramonti di resa, lo sguardo profondo dell’amore nel suo cammino senza fine, il desiderio appoggiato alle spalle e il mistero di foglie ingiallite alla deriva sul cuore.
Ed è sogno a finestre socchiuse, strada da percorrere, sorridente agli specchi e alla vita, ha occhi che parlano di niente alla luna, ed è invadente il suo vento, fa alzare la gonna e abbandonare all’istinto, dischiude le gambe all’amore, è stagione che gioca col fuoco, che ha bisogno di andare, che bagna poi asciuga la mente e i ricordi.
È carne cruda, linfa vitale,è forza che annienta, un angelo nero incontrato di sera, seduto ai bordi del tempo a modellare le stelle e a trattenere la voglia.
È coda tesa e febbre calda, accattivante e indiscreto con quel cielo violaceo che ti scivola addosso e possiede.
Ha voce di sirena quest’autunno, inciso nella pietra, con case di calce bianca e sentieri sterrati, vie che si moltiplicano in labirinti di nebbia, uno stordimento leggero come la vita, giorni scanditi velati di grigio, formule magice e lingue oscure per fare l’amore durante la notte, per sentire il latrato dei lupi fra i lampioni di strada.
E in quel giardino di rose sfiorite, sotto la pioggia che cola, in ogni respiro ci sento il tuo cuore che divide il buio in diamanti neri dalle cornici d’argento.

   8 commenti     di: Tiziana Monari


Sere del sud. :la signorina Clorinda e gli altri. (1)

Le finestre erano illuminate, le imposte spalancate per far entrare un po’ d’aria nella calda serata estiva. In quel rione di periferia, i palazzi grandi e massicci erano stati costruiti prima della guerra e verso la fine di questa utilizzati per ospitare i soldati dell’esercito polacco. Costoro avevano lasciato scritte sui muri e segni di ruggine sui pavimenti, ricordo di barattoli di vettovaglie militari ammonticchiate. Nel quartiere, quasi tutti si conoscevano. Ogni personaggio era setacciato inesorabilmente. Si sapeva tutto di tutti!
La sera, cercando il fresco sotto i portoni sedeva il vicinato. Sedeva la signorina Clorinda con i seni pieni ormai avvizziti e in evidenza per. la prodiga scollatura. E parlava., parlava. Al paese si diceva che non si era sposata proprio per il vizio della lingua sciolta.
Sedevano anche la “tabaccaia”e la “muratora”, soprannominate così per il lavoro dei mariti, che ne sapevano sempre una più del diavolo. Poi c’era la mamma di Luisa con la figlia grande e la vedova dell’ avvocato col cagnolino, un barboncino bianco. Chi non scendeva mai era la madre del ragioniere, che non si alzava quasi mai dalla sua poltrona di dolore, come lei soleva chiamarla. Altri pur non scendendo la sera, erano sui balconi a cenare e godere del fresco.
Nel viottolo, al centro dei due palazzi più grandi, c’era l’insegna del negozio di Sali e Tabacchi e la Salumeria. Il tabaccaio vendeva a peso il sale grosso che era conservato in una grossa buca in pietra. C’era solo di quel tipo perché il raffinato lo si otteneva poi in casa o con un pestello di legno o facendoci rotolare su, a più riprese, una bottiglia finché diventava più sottile. Pure le sigarette erano vendute in prevalenza sfuse e senza filtro. Di solito il contadino o l’artigiano ne compravano due. Una la fumavano subito e l’altra la poggiavano sull’orecchio per godersela nei momenti di sosta dal lavoro. Anche la Salumeria vendeva quasi tutto non

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   3 commenti     di: MD L.


Al mio miglior errore

La notte odorava di sesso e fatalità. Aveva scelto il profumo adatto e si era agghindata a festa con tutte quelle stelle lontane e lucenti di desiderio. Entrambi camminavamo in silenzio verso nessun posto, evitando l'uno lo sguardo dell'altra. Parole non venivano dette, ma entrambi le percepivamo, trasportate dalla brezza estiva caratteristica di quelle nottate d'agosto senza nome. Ci ritrovammo sotto casa sua quasi per caso, come due turisti che dopo aver imboccato vicoli sconosciuti, scoprono di avere davanti il bar che cercavano. Guardai il portone di casa sua e poi lui. Mi domandai a chi dei due fosse venuta l'idea di guidare l'altro lì, ma la risposta era che ci seguivamo l un l'altra, ignari di dove i passi ci portavano. Ci guardammo sapendo benissimo che quella notte era già scritta. I suoi occhi verdi mi mostrarono il nostro primo incontro.
Era aprile ed io ero seduta sul marciapiede di un vicolo vuoto e senza identità. Lui passò proprio di lì con la birra in mano, mi guardò un attimo e come se ci conoscessimo da sempre, si sedette accanto a me e me ne offrì un sorso. Nei suoi occhi ritrovai me stessa e fu forse per non perdermi che passai sette anni della mia vita con lui. Io non lo amai mai, mentre lui amava abbastanza per entrambi. Non ci lasciammo nemmeno. Fu un tacito accordo: una sera di ottobre mi guardò con le lacrime agli occhi e capii che quell'amore sbagliato a lui faceva solo male. Molte notti avevo sperato fosse così cieco da non accorgersi che io in quel rapporto non avevo alcun ruolo emotivo, ma lui era perspicace e il mio volto era sempre stato un libro aperto. Quella sera feci le valige e me ne andai per strada, fra le foglie morte, trascinando un freddo ottobre via con me. Non mi girai nemmeno verso di lui, sapevo che mi osservava dalla finestra, guardando la donna che avrebbe dovuto odiare andarsene.
Così quella sera d'agosto, dopo un paio d'anni, ci eravamo ritrovati. Ci scambiammo un cenno di saluto e ci incamminammo i

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   3 commenti     di: Persefone


Compagni di classe

Alcuni racconti senza molta importanza di un gruppo di amici che, dopo avere frequentato insieme le scuole elementari, per vari motivi si erano persi di vista.
Dopo molti anni si ritrovano al vecchio paese per l'inaugurazione della nuova scuola.

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(N 1)

Seduti al tavolo del bar, dove da ragazzi si sfidavano a giocare con un vecchio flipper, ricordavano i giorni trascorsi insieme. D’un tratto Luca, che era sempre stato il più estroverso del gruppo, chiese ai suoi ex compagni di scuola, per trascorrere in allegria il resto della serata di raccontare da buoni amici la loro prima esperienza con una ragazza.
Tutti furono d'accordo. Sarebbe stato come ritornare ai vecchi tempi, quando da ragazzi si divertivano a parlare delle ragazzine che frequentavano.
Chiesero al barista un mazzo di carte per scegliere chi sarebbe stato il primo a raccontare e la sorte scelse Giorgio, forse il più timido del gruppo.
“Dai Giorgio, raccontaci come si è svolto il tuo primo contatto con una ragazza” chiesero curiosi i suoi amici.
“E va bene, anche se io sono restio a raccontare certe cose.
Questa di cui vi dirò è la mia prima ragazza, la prima che ho conquistato. A dire la verità dovrei dire la prima che mi ha conquistato...
Avevo sedici anni, ma a dire dei miei genitori per la mia altezza dimostravo qualche anno in più.” “Questo non ci interessa dai. Dai, racconta la tua prima avventura. “lo sollecitarono gli amici.
Giorgio ricominciò: “Tutto accadde un giorno mentre passeggiavo in bicicletta con un mio amico lungo una strada di campagna. Chiacchieravamo tra noi senza pensare a ciò che ci sarebbe capitato di lì a poco. Durante il percorso incontrammo un gruppetto di ragazze ferme su un ponte, certamente in attesa che qualcuno si fermasse per scambiare due parole. Io non mi sarei voluto fermare perché all'epoca ero il tipo che appena incontrava una ragazza diventava subito rosso

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   2 commenti     di: Giuseppe Loda



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