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Racconti sulla nostalgia

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L'Odore della Malinconia

Ho sempre creduto che il Signore mi abbia dato il dono di scrivere perché potessi raccontare delle Mie Montagne.

La montagna non è una cosa da vecchi perché io, avendo solo 13 anni, riesco a capire la magia che questa infonde. Forse ci riesce solo chi crede nella magia della natura.
La montagna con i suoi paesaggi di rupi e pascoli sa regalarmi emozioni più di ogni altra cosa.
Lassù dove il senso di libertà mi accompagna e la libertà è la mia amica più fedele il tempo non esiste : le ore e i minuti sembrano qualcosa di troppo umano tra il divino.
Arrivata sulla cima la fatica per raggiungerla è solo un lontano ricordo. Tutti i pensieri ti lasciano e rimane solo l'ammirazione per l'Opera di Dio e quella sensazione indefinibile e sublime : un misto tra gioia, pace e libertà. Per me la montagna è un piccolo rifugio di felicità. Le valli di torrenti veloci, pascoli verdeggianti e rupi sono ciò che più mi fanno sentire viva.
Mi basta sentire il vento che spazzola i miei capelli, l'odore delle pietre e dell'acqua per sapere che sono a casa.
Però poi sento l'odore dell'erba d'alta quota, lo stesso che tempo fa respiravo quotidianamente, quando ancora correvo per i prati circondata da ciò che amavo di più. L'odore della malinconia. Malinconia di quella vita, di quei tempi ormai passati, di quella mezza infanzia felice, di quei posti che amavo e che amerò per sempre.
E allora ripercorro con il cuore quei momenti, quando ancora andavo all'alpe.
Vivevo in una baita angusta. Si entrava da una porta priva di serratura, a tenerla chiusa solo un filo di nylon, alla fai-da-te, come si usa in montagna. Si entrava in una piccola stanza, ad arredarla c'erano: . un tavolo dalle gambe storte, una panchina dura, un fornello a gas, un camino dalla cappa intasata, un lavandino non funzionante perchè l'acqua si andava a prendere fuori, e poi cose della vita quotidiana. Alla sinistra vi era una scala in legno che portava al piano superiore dove vi erano i tre l

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   5 commenti     di: Traumer


Supermonteradio 100. 2 Mz (seconda e ultima parte)

Sono passati dieci giorni da quella sera umida e nebbiosa; il tempo si è rifatto discreto, non c'è più la nebbia, la temperatura, comunque, è rimasta invariata. Di giorno però fa sensibilmente più caldo, non è l'estate di san Martino ma, almeno, non piove e le strade sono spazzate da una costante tramontana.
I giubbotti di tela jeans sono stati tuttavia sostituiti da giacconi un po' più pesanti. Sono di moda i Montgomery, di panno pesante o impermeabili e foderati.
Le macchine continuano a sostare una dietro l'altra in fila indiana in piazza Monumento ed anche nell'altra piazza, un po' più piccola, e il frastuono si fa sempre più intenso quando i cosiddetti nottambuli si concentrano in questi due spazi, ormai in loro possesso per usucapione serale.
Qualcosa nell'aria, però, bolle. La notizia che un gruppo di soci ha intenzione di installare una stazione radiofonica, in gergo paesano aprire una radio, è diventata di dominio pubblico e, quindi, argomento di discussione non solo la sera, nelle due piazze, ma in ogni ambiente solare.
L'eccitazione sta crescendo con il passare dei giorni e i pareri contrapposti danno adito a infinite diatribe circa l'esito dell'impresa, così come è vista e considerata l'intera operazione. I più giovani, ovviamente, sono entusiasti e fremono d'impazienza; almeno non dovranno dissanguarsi in spese telefoniche per le dediche visto che attualmente la radio più vicina è raggiungibile solo con telefonate fuori distretto.
Gli anziani sono per lo più scettici, ovviamente quelli che si intendono di radio perché la quasi totalità ha ben altro a cui pensare. Quelli che, in ogni caso, mostrano interesse e quindi animano le discussioni sono i rappresentanti del ceto medio ed inoltre, dai cinquant'anni in giù.
Quasi tutte le rappresentanti del sesso debole, di ogni lignaggio, in modo discreto e con il civettuolo silenzio che li distingue, tutte indifferentemente. Esse, le donne, fingono di non capire alcunché d

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   3 commenti     di: Michele Rotunno


Bruno

Nonna sulla sua poltrona accanto alla finestra semichiusa, vista ormai la bella stagione che era iniziata, perché non entrasse tanta "aria" in casa; nonno alla mia destra davanti al tavolo tondo allungabile del soggiorno.
Alla televisione Gianni Minà presenta Joan Baez nel suo programma Blitz dicendo:
"Le abbiamo chiesto di cantarci una canzone italiana, le abbiamo proposto C'era un ragazzo... e la canzone di Marinella..."
La Baez sceglie quest'ultima e la canta.
Una versione particolare della canzone, alla fine della quale guardo nonno e lo vedo scosso. Mi sorprende, non credo avesse mai sentito la canzone poiché la musica leggera, specie quella dei cantautori, non gli piaceva per nulla.
Lo riguardo per trovare una conferma od una smentita:
"Mi ha commosso, ... non so perché ma mi ha commosso" mi dice asciugandosi gli occhi.
Non avevo mai visto mio nonno con le lacrime agli occhi eppure si commuoveva per una canzone, mio nonno.

Si commuoveva e sapeva coinvolgere, farsi coinvolgere e narrare. I suoi racconti della ritirata in Russia, erano la storia che ti entrava nella vita. Quando, alle medie, lessi "Centomila gavette di ghiaccio", in pratica lo conoscevo già, come il film "Italiani, brava gente", che già avevo visto con i suoi occhi.
Le storie che raccontava di quella ritirata, non erano cruente, edulcorava i fatti e te li metteva in una luce di racconto per bambini. Non erano spaventosi, come doveva essere stata quella pagina della sua vita che lo aveva visto richiamato alle armi, dopo i trenta anni con la mia mamma già nata.
Fu anche per questo che lui non si perse nell'inverno del quarantatré.
Pizzicotti, disse, e schiaffi in faccia per non addormentarsi nell'abbraccio della morte bianca, perché si era imposto di tornare a casa, da quell'inferno.
Rimase il ricordo delle isbe calde, del freddo e qualche parola di russo.

Dopo la Russia, la prigionia a Pratica di Mare, con la malaria in regalo, e la fuga nella scoscesa pineta, rinc

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CARTOLIBRERIA STELLA

Ricordo ancora le volte che giocavamo a nascondino, quando per mano mi portavi alla “CARTOLIBRERIA STELLA”, che bello, la cartolibreria stella, quanto era comune questo nome ed ora è così insolito pronunciarlo in questo punto della mia vita. Mi manchi nonnino, sono passati dodici anni che te ne sei andato, ma come faccio a dimenticarti? Sai a volte ti penso con rabbia, perché penso a quanto hai amato la nonna e come la rivorresti vicina, ma ti prego sii più paziente che puoi, ci sarà tutta l’eternità per tornare insieme, e quando arriverà il momento ti prego stringila forte forte e non lasciarle mai la mano, fa che nel vederti lei non abbia paura.
Io desidero più di qualsiasi altra cosa poter tornare indietro nel tempo per rivivere almeno uno di quei momenti. Sarei indecisa fra un giorno qualunque, che bello definirlo qualunque beata me a quei tempi, un giorno qualunque che oggi è un giorno impossibile, beh dicevo un giorno in cui stavo da voi, sveglia presto, la nonna che ti sveglia e ti urla “nennì!”, ti chiamava così perché eri più piccolo di lei di un anno e tu la chiamavi “rusella”, oddio quanto mi manca la nonna che dal letto urlava “nennì acala a voce!”, sì perché quando lei era già a letto tu restavi in cucina a guardare la tv, nennì, nennì, nennì, rusellaaaa, rusè! I miei nonnini. Nonno, ho stampato il tuo volto davanti ai miei occhi, com’eri bello, anche quando la morte venne ad accoglierti fra le sue braccia, eri ancora bello e mentre te ne andavi anche l’ultimo pensiero fu per noi, vederci per l’ultima volta insieme. C’ero anch’io nonno sull’uscio della porta che guardavo, non so se te n’eri accorto, arrivai giusto in tempo dalla terrazza all’uscio per guardarti partire per sempre. Quante volte ti ho visto partire, da Ponzone, dalla casa di Castelvolturno, com’eri bello su quel treno che partivi, ma ti avrei rivisto, o quando ve ne andaste da Castelvolturno, un’altra bambina avrebbe preferito l

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Pioggia di novembre

Silenzo. Odo solo il rumore della pioggia dalla finestra della mia stanza. Devo essermi assopito. Fatico ad abituare gli occhi all’oscurità, pertanto esercito quelli del ricordo, e come mi aspettavo mi riportano a te. Sono passate poche ore dalla tua partenza, ma il tempo ha già scavato un solco profondo dentro me, che fa male e che non ho voglia di colmare, non ancora. La sofferenza e la solitudine sono emozioni di cui non mi voglio privare, le voglio vivere, le voglio sentire fino a farmi del male, solo così potrò convivere con il tuo ricordo. Mi hai detto di non aspettarti, di non pensare al tuo ritorno. Mi hai detto che sarebbe stato tutto diverso, che forse quello che provavamo era semplice infatuazione, era solo passione ardente, solo un desiderio transitorio. Sembrava che tu sapessi sempre tutto. Spiegami allora questo dolore, spiegami questa sofferenza, spiegami questa mancanza. La risposta è che non c’è una risposta perché non c’è una vera e propria domanda. So già perché sento tutto questo, mi manca solo il coraggio di ammetterlo. So che anche tu provi lo stesso per me, solo che sei più forte, più sicura di quello che vuoi, più certa delle tue priorità.
In questo momento sarai ancora in viaggio. Chissà se pensi a me, chissà se un dubbio ti assale, chissà se pensi che questa sia davvero la cosa giusta da fare. Lo spero. Se non lo è stiamo sprecando qualcosa di grande, qualcosa che non ricapiterà.
Continua a piovere, sempre più forte.
I miei occhi si sono ormai abituati alla penombra, e dalla nebbia che mi avvolge mi accorgo che ho pianto. Sento il mio cellulare vibrare tra le lenzuola, è un tuo messaggio. Poche parole, infinite emozioni. Mi scrivi che già ti manco, che non pensavi che la certezza della distanza potesse farti quest’effetto, potesse farti piangere, da sola, in un treno, lontana da tutti, lontana da me.
Come potrei descrivere le sensazioni che ho provato scorrendo quelle parole.
Mente umana di poeta o filo

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   1 commenti     di: Edmond Dantès


Anni di piombo dentro e fuori- (Le Finestre di Mara)

Verso la fine degli anni ‘70 Mara aveva cambiato ancora una volta casa. Dopo essere stata, infatti, per qualche tempo in un paese delle valli di Lanzo, annoiata da una vita troppo tranquilla era tornata ad abitare nella grande Città del Nord. Il palazzo della nuova abitazione, esternamente di marmo con balconi in pietra bianca era una di quelle tipiche e belle costruzioni del periodo Liberty. Quasi tutte le abitazioni della zona erano sorte nel periodo dell’Art Nouveau e trasmettevano al quartiere un ‘aria di sofisticata eleganza.
Il vicino mercato di “Piazzetta Benefica” brulicante di gente e di colori era per Mara il suo sfogo. Si intratteneva lì per ore, gironzolando fra le bancarelle alla ricerca di qualcosa. Prediligeva i luoghi affollati, che illudessero la sua solitudine. Colmava così, con gli acquisti, un certa sensazione inspiegabile che talune volte sentiva dentro sé e che sulle prime non aveva saputo identificare. Ma maturando, cominciava a prendere sempre più coscienza delle sue reazioni emotive alle difficoltà del mondo esterno. Si rendeva conto che per difesa personale evitava di esaminare le sue emozioni, di guardarsi dentro. Spesso fingeva con se stessa di non vedere ciò che le faceva male soffermandosi più sugli aspetti concreti della vita. Cercava di non restare sola anche a costo di circondarsi di anime senza volto, visi anonimi che si incontrano per strada. A volte camminando canticchiava persino per non sentire il silenzio assordante della sua testa.. La si sarebbe presa per una donna molto spensierata e felice ma in realtà sentiva un vuoto dentro, un vuoto denso di emozioni non manifestate, di sensazioni non vissute che investono e colpiscono molto più di fiumi di pensieri o di parole urlate.
Mara si rendeva conto, in realtà, che la sua vita privata si era offuscata. I suoi sogni di ragazza ridimensionati pesantemente con la quotidianità e con il carattere sempre più spigoloso e chiuso di Andrea. Delle volte se

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   7 commenti     di: MD L.


Sere del sud. :la signorina Clorinda e gli altri. (1)

Le finestre erano illuminate, le imposte spalancate per far entrare un po’ d’aria nella calda serata estiva. In quel rione di periferia, i palazzi grandi e massicci erano stati costruiti prima della guerra e verso la fine di questa utilizzati per ospitare i soldati dell’esercito polacco. Costoro avevano lasciato scritte sui muri e segni di ruggine sui pavimenti, ricordo di barattoli di vettovaglie militari ammonticchiate. Nel quartiere, quasi tutti si conoscevano. Ogni personaggio era setacciato inesorabilmente. Si sapeva tutto di tutti!
La sera, cercando il fresco sotto i portoni sedeva il vicinato. Sedeva la signorina Clorinda con i seni pieni ormai avvizziti e in evidenza per. la prodiga scollatura. E parlava., parlava. Al paese si diceva che non si era sposata proprio per il vizio della lingua sciolta.
Sedevano anche la “tabaccaia”e la “muratora”, soprannominate così per il lavoro dei mariti, che ne sapevano sempre una più del diavolo. Poi c’era la mamma di Luisa con la figlia grande e la vedova dell’ avvocato col cagnolino, un barboncino bianco. Chi non scendeva mai era la madre del ragioniere, che non si alzava quasi mai dalla sua poltrona di dolore, come lei soleva chiamarla. Altri pur non scendendo la sera, erano sui balconi a cenare e godere del fresco.
Nel viottolo, al centro dei due palazzi più grandi, c’era l’insegna del negozio di Sali e Tabacchi e la Salumeria. Il tabaccaio vendeva a peso il sale grosso che era conservato in una grossa buca in pietra. C’era solo di quel tipo perché il raffinato lo si otteneva poi in casa o con un pestello di legno o facendoci rotolare su, a più riprese, una bottiglia finché diventava più sottile. Pure le sigarette erano vendute in prevalenza sfuse e senza filtro. Di solito il contadino o l’artigiano ne compravano due. Una la fumavano subito e l’altra la poggiavano sull’orecchio per godersela nei momenti di sosta dal lavoro. Anche la Salumeria vendeva quasi tutto non

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   3 commenti     di: MD L.



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