Lo trovammo nei pressi di un cavalcavia, dove c’era un fiumiciattolo, di quelli quasi invisibili.
Viveva lì da solo.
Ma non aveva paura, almeno credo non ne avesse, ai miei occhi era il più sicuro uomo del mondo.
Il praticello era coperto dalle erbacce, carta, stracci, e lattine.
Quella mattina soleggiata era lì addormentato, beato al sole su una coperta sfilacciata
e logora.
Descriverlo non è difficile perché lui era un poeta di quelli senza voce, senza penna,
di quelli saggi, credo.
Ogni giorno passando in autostrada lo scorgevi seduto sul suo praticello, accanto al fiume, con gli occhi tristi e malinconici, sempre pensoso e silenzioso, quasi in meditazione, e ti veniva da guardarlo mentre rallentavi, fermandoti al casello.
A volte fumava, qualche sigaretta raccattata chissà dove, e questo lo so perché potevi osservare la sua vita, fermandoti alla coda del casello.
Non lo facevo per qualche motivazione, ma lo guardavo con curiosità, lui era strano,
sembrava sereno: Ci credo! Non aveva orari, non aveva file, code, non doveva correre, lui non era mai in ritardo, e soprattutto lui non indossava una cravatta, una divisa, non aveva mogli, non aveva ansie, tasse da pagare, lui pescava a volte; a dorso nudo.
Ti ipnotizzavi a guardarlo tanto era placido, bonario sembrava un Guru.
Lo beccavi nelle pose più strane in contemplazione del cielo, delle nuvole, del sole o dell’acqua del torrente, che ti sembrava un Re, a dire il vero a volte lo invidiavo guardava la natura con gli occhi di un padre benevolo quasi l’avesse creata!
Con quell’atteggiamento di distacco, di superiorità sembrava mi disapprovasse con disdegno con un sorrisino saccente sotto la barba folta e bianca, un sorrisino a ghigno di quelli a dire “sto meglio di te.. non te ne accorgi?” a volte mi infastidiva.
Eppure era così bonario.
Mi promettevo di fermarmi, volevo proprio scendere dalla macchina, lasciarla in coda e parlargli, non
La veranda, piena di rose e gelsomini era in ombra. Sedie di legno e paglia, vecchie poltroncine di vimini, con grossi cuscini a fiori usurati dal tempo, erano là, in attesa di essere occupate.
Noi arrivavamo tutti verso le cinque del pomeriggio, accaldati e sudati in quel fresco spazio in casa di mia suocera, per ritrovarci e raccontarci dopo un inverno di lavoro al nord.
I primi tempi si giungeva a coppie, poi, col passare degli anni, accompagnati da bambini strepitanti. Si cercava di quietarli in mille modi con giochi o con la presenza della vecchia tartaruga Gertrude. I piccoli, affascinati, finalmente tacevano sperando sempre di afferrarla finché lei, prudente, si rifugiava veloce nel suo grosso carapace.
Seduti in gruppo si parlava di cose nostre, di viaggi fatti o che si sognava fare mentre dalla strada arrivavano profumi e suoni familiari.
"Costa molto Gino prendere l'Orient- Express? Se ci accompagnate, un giorno partiamo insieme".
Un vento caldo, di tanto in tanto sfiorava la pelle mentre eravamo intenti a ridere e a fantasticare insieme.
"Gilda me lo passi quel ventaglio…. sono sudata"
“Rosa sono ottimi questi tuoi dolcetti, devi darmi la ricetta”.
“ Rosaria, la sai una nuova barzelletta.?. Se non è molto sporca raccontala.."
Intanto si presentava Lei, capelli d’ argento, il grembiule bianco a volants, felice di averci tutti, finalmente riuniti, a casa sua.
"Volete il caffé freddo, un succo di frutta, una granita?"
Accettavamo ciò che arrivava, con gioia, tanto bastava un niente a rinfrescarci, perché l'essenziale era stare insieme
per condividere momenti, esperienze, ricordi di famiglia.
Di fronte a noi, mentre volavamo via con la mente, imperturbabile ci guardava la montagna bruna e arida, dalle piccole torri, vecchie fortezze longobarde, ricordandoci, in quei caldi pomeriggi estivi, che eravamo là nel sud.
Ora la veranda è sempre in ombra.
Poche rose ma niente gelsomini.
3 biliardi da boccette, otto tavolini per giocare a carte, un barista pelato e sua moglie che...
... Che gran tette.
Non so perché ma a noi della Sacca, le tette sono sempre piaciute.
Dimenticavo di dirvi che cosa è la Sacca: un rione popolare dove il dottore vive a stretto contatto col muratore, dove l’ingegnere gioca a carte con il barbiere, dove al bar della coop viene anche il Don Alberto e nessuno bestemmia. La sacca il quartiere dove sono nato e dopo sposato non sono più ritornato.
Ogni tanto amo andare con la mente a quei ricordi, quando la giornata è stata dura, si è sbagliato un lavoro, ed un cliente, o chi per esso, ti ha talmente rotto il cazzo che hai bisogno d’evasione.
Eccomi al bar della Sacca.
Vi è Alfredo, record 20 optalibon in un colpo e rimane quasi sveglio.
Mentore il tromba, tromba in continuazione e non solo a parole, per lui il sesso è tutto.
Ricordo una volta al cinema Ambra, cinema di malaffare, frequentato all’epoca da molti”gay”.
Ci siamo io, lui, Alfredo, Ivan, il Pappa, e Sniffa.
Ci sediamo, inizia il film, un capellone trito e ritrito. Siamo tutti sulla stessa fila, ci saranno 25 spettatori su un centinaio di posti. Dopo 15 minuti entra un tizio, 40/50 anni e si siede vicino a Sniffa che al suo fianco ha Mentore. Passa poco tempo e sento confabulare Mentore con Sniffa, dopodiché Mentore scambia il posto con Sniffa. Osservo il tipo e penso: agh sam, che tradotto significa: ci siamo.
Passa il primo tempo, nulla, finisce il film, nulla. Accendono le luci usciamo e chiedo a Sniffa:
che è successo?
Mi risponde:
eh, quella checca ha iniziato ad accarezzarmi una coscia, l’ho detto a Mentore che mi ha risposto,
ci penso io. Poi è venuto al mio posto.
Guardo Mentore con espressione interrogativa e lui:
Eh, mi son fatto fare una sega.
Questo è lui, il Tromba.
Poi ci sono il Biondo e Tarta, sempre insieme. Giocatori di Pinnacolo, si segnano tutto e se giochi una lira al punto sei rovinato. Io l’ho p
In un grande cassetto d'un vecchio comò ho riposto vari oggetti.
Non sono d'oro son solo preziosi ricordi del cuore, c'è un po di tutto in quel cassetto, cartoline, biglietti augurali, album di fotografie, spille dorate regali di amiche care, c'è un bellissimo cannocchiale del mio papà, i doni dei miei figli, alcuni ventagli in ricordo di mia mammma e ancora tanti piccoli e amati ricordi.
Ma c'è una scatola dove gelosamente ho riposto varie fotografie
di tanti anni fa, le tengo insieme senza data, libere, scattate
in vari luoghi lontano nel tempo, mi piace vederle così mischiate
come se fosse... un mazzo di carte.
Delicatamente ne prendo una, non so mai cosa ci sia in quella fotografia, mentre la giro l'immagine appare e la mente inizia a pensare, è il gioco a ritroso del tempo ed io... inizio a giocare.
La prima foto è di mio padre, non era bello però aveva un magnifico sorriso, remoti ricordi mi attraversan la mente
quando da bimba giocavo con lui, le sue premure i suoi affanni.
La seconda foto è di una mia cara amica, mi par di udir ancora
la sua voce e l'allegra risata pur se ora lei non c'è più!
Un'altra foto la giro, io e mio fratello insieme, piccini,
ne prendo un'altra la giro, i miei bambini, li osservo,
quanto tempo è passato, ora adulti ed anche papà.
Prendo una foto la giro, c'è un volto sorridente è mia zia,
era bella davvero ed aveva un cuor d'oro, teneramente la poso tra loro. Altre foto, immagini diverse, pensieri e ricordi si alternano giocando con il tempo. Ancora una foto, la mia mamma
quando era giovane, meravigliosamente bella da far invidia ad una star, la mente vaga, ricorda fatti parole care, rimproveri
poi... l'ultima sua carezza.
Altre foto passano tra le dita come delicati fiori,
volti cari, ricordi a volte gai a volte tristi passano mentre il tempo scivola via, in silenzio teneramente guardo l'ultima fotografia. E la foto del mio matrimonio, eravamo proprio belli, sorridenti, lui aveva bellissimi ricc
Ero già stato una volta a Parigi. Un brutto ricordo: una storia finita male, della quale racconterò un'altra volta. Per di più, in uno squallido alberghetto, quella volta, avevo contratto le piattole. Ma la voglia di rivedere Blanche era più forte di tutte le disavventure passate. Amavo quella francesina, ma la lontananza poteva rappresentare una minaccia. Già da qualche tempo, quando le telefonavo, avevo la sensazione che fosse un po' freddina: non sentivo più quella passione nella sua voce.
Mi aveva lasciato per telefono l'indirizzo del negozio di suo padre dove mi avrebbe raggiunto e sinceramente, una volta lì, non seppi bene che pesci prendere: un napoletano, simpatico, ma pur sempre il padre; per fortuna poco dopo giunse la madre che iniziò a ringraziarmi per come avevo aiutato la figlia quando era a Roma: aveva avuto un problema ai denti e grazie alle mie conoscenze l'avevo fatta curare gratis all'Eastman. (Control)
Finalmente dopo qualche minuto giunse anche Blanche, l'abbracciai delicatamente, ero pur di fronte ai suoi genitori e la differenza di età tra noi, in fondo, era notevole. Lei 20 io 39 appena compiuti.
- Vieni stanotte dormi da me, domani andremo a cena da loro-.
Durante il tragitto verso la sua abitazione, abbastanza centrale, tentai di abbracciarla e di baciarla: in fondo era per questo che ero venuto. Ma la trovai un poco scostante.
Giunti a casa sua vi trovai un tale, di cui non ricordo nemmeno il nome, tanto lo odiai in quel momento, un punk gay, che Blanche si era prefissa di normalizzare e che dormiva con lei. Ragazzi, una delusione: possibile che Parigi ogni volta mi serbava una sorpresa negativa? Sistemammo un divano letto e dormii in sala: ci riuscii solo perché ero stanco del viaggio.
La mattina seguente facemmo colazione tutti e tre dovendo fare buon viso a cattiva sorte, poi Blanche mi chiese se conoscevo un po' Parigi: alla mia risposta affermativa mi invitò a farmi un giro per la
Baldo era il mio basset-hound.
Me l'aveva regalato Paolo a Natale, appena sposati.
Quando me lo portò era un cucciolo piccolissimo, che stava in una mano e camminando si pestava
le orecchie.
Bisogna infatti sapere che le orecchie lunghissime costituiscono una caratteristica peculiare dei
Bassets.
E le sue lunghissime lo erano per davvero, e anche liscie e setose, fatte apposta per essere
accarezzate.
Aveva enormi occhi umidi, di un caldo color castagna che riuscivano a intenerirti anche se ti aveva
appena fregato una bistecca, il che accadeva piuttosto spesso perchè era un ladro matricolato.
È stato da subito adorato e vezzeggiato da tutti.
In realtà era un grandissimo paraculo.
Probabilmente aveva un'anima tzigana; in effetti quanto gli piaceva darsela a gambe, tagliando per i
campi per poi fare una capatina all'albergo del Nencini, dove gli allungavano una pasta pensando
che fosse affamato; dopodichè faceva una giratina in centro, passeggiando per le vie cittadine con la
sua tipica flemma inglese.
Al mercatino americano di Livorno, gli avevo quindi comprato una piastrina di riconoscimento,
come quelle che portano al collo i Marines, con sopra inciso il mio nome e numero di telefono,
nell'eventualità nemmen tanto remota che si perdesse.
Quando camminava, sculettando allegramente e tenendo la coda diritta, con il pennacchietto bianco
bene in vista, la faceva tintinnare.
Da quel gran furbone che era aveva però imparato a muoversi con circospezione, come se stesse
camminando su di un cesto pieno di uova, senza farla suonare, per cui come vedeva la porta
socchiusa, la infilava zitto zitto e se la svignava.
Meno male che a Volterra, di quella razza, un po' particolare diciamo la verità, c'era solo lui, per cui
ricevevo regolarmente telefonate in ufficio da parte di amici che lo avevano avvistato e che me ne
fornivano le coordinate.
Io allora chiamavo subito la zia Isa, gliele comunicavo a mia volta, e lei partiva in tromba, armata
di
La campagna dormiva. Non si udiva nemmeno il suono delle cicale o il ronzare degli insetti in quel momento della giornata che i contadini chiamano “controra”.
La controra, dalle mie parti, sono quelle ore che, nelle giornate estive, vanno dall’una alle cinque del pomeriggio, quando il sole picchia le sue martellate più violente e non vedi nessuno per il paese o per le campagne.
La terra era secca, spaccata da secoli di siccità che le rare piogge e il sudore di quelli che la lavoravano non riuscivano ad alleviare, solo il vento giocava con i rami degli olivi centenari, che mio padre curava con amore ed entusiasmo.
Centocinquanta piante d’olivo in quello che era stato il podere di mio nonno materno, Domenico, e che ora lui stava facendo rifiorire.
Piante d’olivo a perdita d’occhio nello scenario di colline che dal paese rotolavano giù fino alla piana che aveva visto, secoli prima, la città di Sibari brillare e poi cadere.
Più avanti ancora, l’azzurro stupendo del mare.
Da lì, allungando le mani, si poteva quasi toccare il mare.
Conosco bene quel pezzo di terra che, ragazzino, quando si abitava ancora in paese, mi aveva visto vagare fra i suoi olivi, i fichi d’india fittissimi, le siepi di rosmarino.
Andavo in campagna con mio nonno ogni volta che potevo. Avevo circa otto anni allora e quando uscivo da scuola andavo a casa dai nonni a pranzare. Casa mia era distante dalla scuola un paio di chilometri ed io preferivo andare da loro, nel centro storico del paese. Lì vicino abitavano i miei amici, i compagni di classe, eravamo ancora in molti allora a giocare per i vicoli. Ricordo nitidamente soprattutto il profumo dell’aria quando si affacciava la primavera, e la luce abbagliante del sole che ci investiva quando si apriva il portone della scuola.
Mentre camminavo per arrivare dai nonni sentivo attorno a me la vit
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