Passeggiai in riva al mare,
in quel lembo di battigia dorata,
dov' erano tracciati i miei ricordi.
La fresca brezza del mattino
imponeva un veloce risveglio,
ma l'aria pungente,
nonostante si facesse tagliente,
coccolava il viso ancora caldo di guanciale.
Mentre passeggiavo,
godendo la vista di quel meraviglioso azzurro,
il soffuso canto delle onde
e l'aspro odore di salsedine nell'aria,
la mia mente fu pervasa da tanti pensieri che,
come fotografie in sequenza,
ricordavano in pochi attimi
tutto il vissuto.
Pensai a quanti giorni spensierati
quel mare poteva testimoniare.
E quante amicizie avevano condiviso con me,
la magia dell'Adriatico,
il nostro immenso cerchio d'acqua
che rende divine le coste della Dalmazia e dell'Italia dell'est.
Ritornai a quando ero bambino,
all'abuso edilizio compiuto
dai nostri castelli di sabbia, ciottoli e legni,
a quanti amori e quanti intrecci di storie tra noi.
I tiri col pallone, potenti e radenti all'acqua,
che gambizzavano gli altri bagnanti,
i cerchi di pallavolo, fatti di decine e decine di unità,
che sequestravano la spiaggia.
Una giostra di ricordi a cavallo di possenti gabbiani.
spericolati come il loro volteggiare in aria,
indelebili come la passione del loro volo.
Li sentivo ancora echeggiare sulla spiaggia,
Quanta spensieratezza nei nostri sguardi.
Quanti avvenimenti, quanti ricordi!
Impossibili pensarli tutti senza scriverci un libro.
Storie diverse, vicine e lontane,
a prima vista separate,
ma in realtà intrecciate come tasselli di un mosaico
intarsiati da frammenti di cristallo.
In quel magnifico manifesto azzurro in alto,
a cui un immenso specchio d'acqua si rifletteva,
mancavi tu, mia Musa ispiratrice.
per rendere quel giorno perfetto.
Ma in fondo tu eri con me,
tu sei con me.
Tu sei stata in tutti i giorni nuovi
che si ripetono nella mia vita,
a continuare quest' avvincente avventura.
Quella mattina rientrai,
dopo ore e ore di cammino,
baciato di continuo da
La veranda, piena di rose e gelsomini era in ombra. Sedie di legno e paglia, vecchie poltroncine di vimini, con grossi cuscini a fiori usurati dal tempo, erano là, in attesa di essere occupate.
Noi arrivavamo tutti verso le cinque del pomeriggio, accaldati e sudati in quel fresco spazio in casa di mia suocera, per ritrovarci e raccontarci dopo un inverno di lavoro al nord.
I primi tempi si giungeva a coppie, poi, col passare degli anni, accompagnati da bambini strepitanti. Si cercava di quietarli in mille modi con giochi o con la presenza della vecchia tartaruga Gertrude. I piccoli, affascinati, finalmente tacevano sperando sempre di afferrarla finché lei, prudente, si rifugiava veloce nel suo grosso carapace.
Seduti in gruppo si parlava di cose nostre, di viaggi fatti o che si sognava fare mentre dalla strada arrivavano profumi e suoni familiari.
"Costa molto Gino prendere l'Orient- Express? Se ci accompagnate, un giorno partiamo insieme".
Un vento caldo, di tanto in tanto sfiorava la pelle mentre eravamo intenti a ridere e a fantasticare insieme.
"Gilda me lo passi quel ventaglio…. sono sudata"
“Rosa sono ottimi questi tuoi dolcetti, devi darmi la ricetta”.
“ Rosaria, la sai una nuova barzelletta.?. Se non è molto sporca raccontala.."
Intanto si presentava Lei, capelli d’ argento, il grembiule bianco a volants, felice di averci tutti, finalmente riuniti, a casa sua.
"Volete il caffé freddo, un succo di frutta, una granita?"
Accettavamo ciò che arrivava, con gioia, tanto bastava un niente a rinfrescarci, perché l'essenziale era stare insieme
per condividere momenti, esperienze, ricordi di famiglia.
Di fronte a noi, mentre volavamo via con la mente, imperturbabile ci guardava la montagna bruna e arida, dalle piccole torri, vecchie fortezze longobarde, ricordandoci, in quei caldi pomeriggi estivi, che eravamo là nel sud.
Ora la veranda è sempre in ombra.
Poche rose ma niente gelsomini.
Sono seduto sulla poltrona dell'aeroporto. Sono le cinque di una domenica pomeriggio nuvolosa e triste. Mi capita spesso di venire qui da solo, mi piace vedere la gente che viaggia; c'è chi parte, chi arriva, chi aspetta l'abbraccio di una persona cara in ritorno e poi ci sono io.
Con me non ho nulla per viaggiare, niente biglietto, niente valigia, niente soldi, solo la voglia di partire, tanta voglia, ma dove? Sul tabellone delle partenze non c'è tanta scelta, comunque le destinazioni sono abbastanza interessanti. Tra le mie preferite ci sono Londra Stansted, Barcellona Girona e New York JFK.
Manca poco meno di un'ora alla partenza di un volo per Londra. Vicino al banco del check-in si affrettano i ritardatari per mostrare la loro carta di imbarco. Proprio adesso sta arrivando una giovane coppia inglese con un bambino. Sembrano sereni soddisfatti, felici, staranno forse tornando a casa loro dopo una lunga estate passata al mare, forse dai loro parenti. Quello che dovrebbe essere il marito indossa una t-shirt celeste con un paio di pantaloncini avana e infradito ai piedi. Mi vengono i brividi solo a vederlo conciato in quel modo visto che io sono ricoperto da giacca con tanto di maglia di lana. Guardandoli mi chiedo che lavoro fanno, perché sono qui. Dal loro aspetto si può scorgere l'immagine di una classica famiglia inglese, con una vita tranquilla nella periferia di Londra ed un lavoro modesto. Mi piacerebbe stare insieme a loro, far parte della loro armonia, partire, volare via. Ma a Londra non ci sono mai stato! Dove vado? E poi non so una parola di inglese, le uniche cose che so, le ho imparate alla scuole elementari.
Ricordo che la maestra ci insegnava l'inglese con delle marionette con il nome dei frutti, e tra queste, la mia preferita era il pomodoro: tomato. Per il resto il mio livello è abbastanza basso, non saprei comprarmi neanche una bottiglietta di acqua. Comunque sia, Londra è una città bellissima. Me ne ha sempre parlato mio frate
Sguardo fisso, occhi rossi, divisa stropicciata. Non riesce a distogliere lo sguardo da quel corpo inanimato coperto dal lenzuolo bianco. La signora Iris.
"È sbucata all'improvviso, non ho potuto fare niente." Mario racconta l'accaduto con voce monotona, inespressiva. Loris, con lui sullo scooter, resta in silenzio e ogni tanto accenna un segno di assenso con la testa. Il brigadiere rilegge il verbale e chiede conferma. Sembra perplesso, forse é solo scosso. Pinuccio, questo il nome del carabiniere, guarda il vigile urbano quasi a chiedergli soccorso, ma Roberto Quaglia sembra assente nonostante la mente appannata dal dolore. Sta macinando pensieri. Nessun testimone. Com'è possibile? Un incidente sulla via principale del paese alle sette di sera in giugno e nessuno vede nulla, nessuno sa nulla.
È sbucata all'improvviso... Perché quelle parole gli suonano false? Certo è difficile essere obiettivo. Era legatissimo a Iris. Sempre gentile, una sorta di nonna per tutti, sua in particolare. Una presenza discreta, sempre sorridente, sempre disponibile. Non riesce a stare concentrato, troppi ricordi, troppo dolore.
Sbucata all'improvviso? Sbucata da dove? Stava uscendo dal cortile di casa. A volte le persone fanno cose strane, ma proprio non riusciva a vedere quell'anziana signora piombare sulla strada dal sentiero cortissimo che collegava il cortile alla strada principale. Un tratto ripido e disagevole, perfino lui avrebbe avuto difficoltà a effettuare quella manovra. La rivedeva in bicicletta, prudente, sempre attenta, spesso camminava a piedi con le borse della spesa infilate nel manubrio. Come poteva sbucare all'improvviso? È anche vero che Mario e Loris sono due bravi ragazzi, magari non particolarmente svegli, ma nulla motiva la sua riluttanza a credere nella loro versione. Perché dovrebbero mentire? Quale altra spiegazione potrebbe esserci? Strada completamente dritta, deserta, visibilità perfetta. Eppure non si rassegnava ad accettare
Quella mattina del 16 novembre del 1985, il sole stentava ad uscire sul cielo della Sicilia.
Nel resto del paese, intanto, era in corso una manifestazione di protesta contro la riforma scolastica proposta dal Ministro dell'Istruzione, Franca Falcucci.
Le piazze delle maggiori città italiane si erano riempite vertiginosamente di studenti.
Roma, Milano, Palermo, tutti uniti a rievocare il simbolo della “Pantera” degli anni 60 e 70.
A Catania, intanto l’affluenza massiccia degli studenti, aveva cancellando l'immagine apatica e superficiale di quei tanto denigrati anni 80. Gli studenti delle superiori, si erano dati appuntamento in piazza Roma sotto la sede dell’ istituto "De Felice" e dopo aver raccolto un discreto numero di partecipanti, erano partiti in corteo sfilando per le vie del centro.
Le strade erano pervase dai loro slogan, diversi quattordicenni estranei al corteo, si aggiunsero a loro strada facendo. La maggior parte non aveva mai partecipato ad una manifestazione simile e non aveva le idee ben chiare. Tra di loro vi erano alcuni che si erano uniti al corteo solo per esibire in pubblico il proprio look da “madonnaro” o da "Rock Billy, tutti erano comunque mossi da una energia “sincera e spontanea”.
La pioggia intanto fece la sua apparizione cadendo timidamente sulla città, senza tuttavia impedire che il corteo dopo aver attraversato le vie principali, giungesse a destinazione fermandosi davanti il palazzo degli Elefanti, sede del Comune.
Come sempre in testa al corteo, c'erano sempre i ragazzi del "De Felice". Al centro della prima fila, a sorreggere insieme ai suoi compagni lo striscione dell’istituto, c’era Piero Cortesi. Faccia pulita, lunghi capelli castani, raccolti e tenuti fermi da una bandana di colore chiaro.
Indossava, come la maggior parte dei suoi coetanei, jeans chiari della "EL CHARRO", stivaletti “CULT” con la punta di ferro e la suola trasparente, ed un giubotto tipo bomber di colore ve
Chiudo gli occhi. Chiudili anche tu. Cosa vedi? Cosa senti? Io sento pace, serenità. Non vorresti fosse sempre così? Io sì. Immagina. La pace. Con te stesso, con gli altri. E come possiamo avercela questa serenità? Semplicemente chiudendo gli occhi, abbandonandoci alle nostre emozioni, alle nostre sensazioni. Ignorando i piccoli difetti della quotidianità. Affrontando quelli maggiori.
Se chiudi gli occhi, non sembra quasi che nulla sia cambiato? Nulla è cambiato. Chiudo gli occhi. Immagino che tutto sia come prima. Prima che succedesse quello. Prima di tutto questo. Un viaggio nel passato.
Chiudo gli occhi. Chiudiamoli insieme. Cosa vediamo? Cosa sentiamo? Odio, orrore. Buio. Vedo solo nero. Sono in un sentiero nero. Nulla può farmici uscire. Sto urlando, implorando soccorso. Non vedo luci. Non vedo colori. Nero. Buio. Nulla. Questo nulla che mi terrorizza più di ogni altra cosa al mondo. Più della morte, più di tutto. Anche più di perderti. Questo nulla che accompagna il buio. Questo nero che mi allontana sempre più da te. Nulla, nero, buio. Sinonimi. Sinonimi di solitudini, odio e orrore. Sinonimi di tutto quello che più mi fa paura. Di tutto quello che voglio evitare. Quello da cui voglio scappare. Ma di cosa ho bisogno per stare meglio? Di chiudere gli occhi e sentire pace, serenità; come all'inizio, ma ora non è più così. Non è più così. Non sarà mai più così. Non sarà mai più com'era. Qualcosa mi ha cambiata. Qualcosa mi ha fatto soffrire, mi ha fatto star male al punto tale di portarmi al punto di non riuscire neanche più a provare ad andare avanti. Ho perso ogni forza. Sono stata prosciugata. Ogni mio respiro è una fatica insormontabile. Devo aprire gli occhi. Devo trovare la luce. La pace, devo trovarla, per me per te. Per noi. Se esiste ancora quel noi che tanto volevo. Anzi, che tanto volevamo. Distrutto. È andato disperso. Come tutti i pezzi di me.
Ho ceduto alla forza dell'altro. Non dovevo. Ma l'ho fatto. Ho ceduto. E
Più passa il tempo e più mi manchi, lo sai, mamma?
Ti sogno quasi tutte le notti, a volte sono sogni stupidi, senza senso, dove ti ricordo com'eri - felice, bella, con i capelli lunghi e con quel sorriso sempre dipinto sulle labbra. Come facevi ad essere sempre così contenta, come se la vita non avesse fatto altro che darti gioie e soddisfazioni?
Non nego che queste ultime non ci siano state, anzi, spero di sì; ma adesso, col senno di poi, mi sembra che siano stati molti di più i dolori.
Perderti così è stata la cosa più atroce che potesse mai capitarmi.
Ti ho detto troppe poche volte che ti volevo bene, che te ne voglio ancora, che te ne vorrò sempre, che avevo e ho, tuttora, bisogno di te, di sentirti e vederti vicina, di abbracciarti. Dio, mammi, quanto ti vorrei stringere a me, adesso, proprio in questo momento. Non riesco a scrivere una sola parola senza piangere e singhiozzare, ma magari se riesco a mettere per iscritto queste... cose, questi sentimenti che non mi abbandonano in nessun momento, forse potrebbe farmi stare meglio.
No, la verità è che niente potrà farmi stare meglio. Forse mi piace solo l'idea che tu, se davvero mi sei ancora accanto in qualche forma incorporea che io non posso vedere né sentire, in qualche modo possa leggerle e venire a conoscenza di quello che non ho mai avuto il coraggio di dirti.
Mi pento immensamente per quelle volte in cui ho alzato la voce, o ti ho dato le spalle, o mi sono comportata come una bambina che non capisce che tutto quello che dicevi e facevi era perché mi volevi bene e non per farmi dispetto o chissà cos'altro. In questo momento mi mancano anche quelle volte in cui mi mettevi in punizione o le volte in cui mi sgridavi, qualsiasi cosa pur di sentirti ancora qui.
All'inizio ho messo la tua fede al dito perché mi sembrava un buon modo per averti vicino, sai, avere qualcosa di tuo sempre appresso; man mano che passa il tempo mi rendo conto invece che accarezzare questo semplice anellino d'oro
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