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Racconti sulla nostalgia

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La lunga notte insonne

Vanni si svegliò all’improvviso senza una ragione apparente. Iniziò a girarsi e rigirarsi senza riuscire a riaddormentarsi. Si voltò alla sua sinistra, Vanessa dormiva serenamente. Iniziò ad osservarla, poiché quando dormiva sembrava ancora più bella. Si soffermò sui lunghi capelli biondi, che si posavano lungo la schiena che a sua volta scendeva una piccola curva poco prima di allargarsi su due fianchi generosi. I suoi seni rotondi e ben fatti, invece, se ne stavano schiacciati contro il materasso, sembrando ancor di grossi di quello che effettivamente erano.

Per evitare di svegliarla, Vanni preferì alzarsi, prima però la baciò delicatamente sul e collo.

Vanessa era la sua nuova compagna, aveva 42 anni, una donna estremamente attraente, con un divorzio alle spalle, titolare di una casa editrice.
Dopo una cena, accompagnata da un buon vino rosso e da musica new age, avevano finito la serata facendosi sopraffare da una passione dirompente ed addormentandosi poi teneramente abbracciati.

Vanni si rifugiò in mansarda, si sedette alla sua scrivania ed accese un sigaro, “antica riserva”. Si stirò le gambe osservando attraverso la finestra la splendida luna di quella notte, poi si alzò ed aprì la finestra di fronte a lui, permettendo all’aria salmastra del mare di invadere la stanza.

Abitava in una villetta sulla la Riviera dei Ciclopi, dalla quale si godeva una vista eccezionale che comprendeva oltre ad una parte del porticciolo di Acitrezza anche i Faraglioni. Si trattava di scogli basaltici che, secondo la leggenda, erano stati lanciati da Polifemo ad Ulisse durante la sua fuga.

Nella mansarda, Vanni aveva stabilito il suo angolo segreto, quello dove poter stare da solo a pensare, a studiare, lavorare al computer, a rifugiarsi, come in quel caso nelle lunghi notti insonni.

Era un periodo sereno e prospero, il suo lavoro di investigatore privato, lo riempiva di soldi e soddisfazioni, la sua relazione con Vanessa lo

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Il gabbiano

IL GABBIANO

Mamma, ti ricordi quando da piccola ti dicevo che avrei voluto essere un
gabbiano, si uno di quei gabbiani che noi vedevamo volare sopra il mare durante le nostre passeggiate sulla spiaggia.
Ero affascinata dal loro volteggiare e con il dito ti indicavo quelli che man mano si libravano dagli scogli verso il mare aperto.
Tu sorridevi e mi accarezzavi i capelli, io seguitavo, rassicurata dalla tua
carezza, a guardarli e ad immaginarmi al loro posto chiudendo gli occhi e pensando ai mille riflessi prodotti dal sole sull'acqua del mare che essi
ammiravano.
Pensavo è questo il senso della vita, anche io da grande dovrò librarmi dallo scoglio della mia esistenza verso il mare aperto della vita.
Quando sono diventata grande, lo sai, l'ho fatto e sono andata a vivere da sola la mia vita, lasciando la casa che mi aveva vista nascere spinta dal richiamo del mare della vita.
Poi, lo sai, mi ero illusa di avere trovato l'amore ed in quel momento la
mia casa mi è sembrata la nostra casa.
Questa è la gioia che avevo provata, ma poi quello che avevo pensato fosse l'amore, si è sciolto come neve al sole lasciandomi sola in quella casa che non era più la mia casa.
Il pensiero subito ha rievocato nella mia mente il gabbiano ed ho pensato che anche esso nel suo volo si allontana dal suo nido e che certe volte si spinge per l'anelito di libertà oltre le sue forze raggiungendo un punto di non ritorno dal quale cerca invano di ritornare al suo nido, ma
la lontananza ed il vento spesso contrario lo abbattono stremato sulla
superfice del mare, dove dibattendosi, per qualche istante, trova la sua
dolorosa morte.
Anche io, mamma, mi sono spinta nel mare della vita per l'anelito di
libertà verso un punto di non ritorno.
Invoco la tua mano che possa tendersi verso di me per guidare il mio volo verso casa, quella vera dove vi era una famiglia piena d'amore, ma tu non ci sei più e quella casa ormai è vuota.
Le mie ali sono state tarpate dal vento della

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La partenza di Francesco Paolo

I manicaretti alle olive danzavano briosi e primitivi nella testa di Francesco Paolo. A volte, quando il treno partiva, ne riassaporava con immaginaria libertà il loro gusto materno, rimestando in bocca gli avanzi dell'ultimo cornetto, preso poco prima al bar della stazione. Lo faceva spesso perché, per qualche ragione, quel dolce fondersi della sfoglia e dello zucchero a velo sotto il palato lo allontanava dal pensiero di un altro tedioso viaggio tra i monti dell'Appennino. Per intanto suo padre, vestito di pezze, gli portava la valigia corrugando una flebile angoscia al suo dipartire. La mestizia gli screpolava il cuore e così, preso dal ricordo dell'ultima nostalgica golosità, affogava con il suo vecchio in discorsi blandi, al limite del ridicolo. Riempivano i silenzi dell'addio con poche frasi mangiucchiate sul tempo, sul ritorno a breve, sul sole a picco in testa alla stazione.
Poscia ch'ebbe ritrovato il binario al primo colpo, non manifestando alcuna ansia per l'attesa, Francesco Paolo si alzava sulle punte dei piedi per poi ricadere sui talloni a movimenti costanti, mascherando qualche leggera premura agli occhi del padre, lontano dai pensieri rincuoranti di manicaretti perduti.
Tra quei monti, nella valle dove la sua infanzia si era consumata in uno schioppo di fucile, di patate bollite e di scamorze fritte, il senso di vuoto spariva solo il giorno dopo, quando al pensiero del ritorno s'aggiungeva la serena follia di un'uscita con gli amici di sempre. Era là che Francesco Paolo non serbava più alcuna intimità, la perdeva disseminandosi d'allegrezza; rincasando sul fare del giorno, alle prime luci del crepuscolo e guardava laggiù oltre l'orizzonte, dove tosto l'attendeva il domani. Quello strano e speciale sentimento gli riempiva il cuore, si faceva beffe ben più alte di lui, al voltarsi indietro verso la vita di paese, ora che la città lo trastullava con altro odore di caffè.
"Rimetti la cintura al pantalone", biasciò suo padre sottovoce. "

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Nonna Maria

La casa di Elena non distava molto da quella dei nonni materni: bastava percorrere qualche viuzza del paese, attraversare la piazza grande, una corsa in un prato ed infine il gioco era fatto.
Sua madre lasciava che la bimba si recasse a far loro visita tutte le volte che ne avesse voglia, da sola, con la sua bicicletta, cosa che la rendeva felice perché era abbastanza raro che la lasciassero girare senza qualcuno che la sorvegliasse.
Le strade dei paesi alle due del pomeriggio sono deserte, non vi passa anima viva perché è l’ora consacrata alla siesta pomeridiana, per cui anche una bimba di quell’ età poteva benissimo passeggiare senza timore.
Quel pomeriggio il cielo era terso; non una nuvola ad offuscarlo, era perciò l’occasione migliore per provare la nuova Graziella arancione che le era stata regalata da poco.
Si sentiva alta su quella sella e le sembrava di dominare la strada.
La mamma la salutò dalla finestra dopo le ultime raccomandazioni.
Elena promise che non avrebbe dato retta al suo istinto di sfrecciare veloce, che sarebbe stata cauta, ma soprattutto promise che si sarebbe recata solo da nonna Maria che l’aspettava sempre in quell’ora del pomeriggio.
Abitava in una grande casa insieme al marito e ad un figlio Orlando allora scapolo e si dilettava a fare delle ottime torte e montagne di polenta.
La stanza più frequentata della villa, era una grande stanza nell’interrato che faceva da cucina, arredata con mobili rustici, vissuti, carichi di ricordi.
La solita pentola d’acqua bollente borbottava sulla piastra della stufa a legna e c’era odore di pesce, forse di gamberetti al sugo che in quella famiglia amavano molto gustare insieme ad una bella fetta di polenta e ad un buon bicchiere di vino.
Il caffè era stato appena fatto e ce n’era sempre un cucchiaio, solo un cucchiaio per la più piccola.
Amava molto il sapore amaro di quella bevanda, purtroppo prerogativa dei soli adulti e si chiedeva quando sarebbe arrivato

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RISVEGLIO

Sono stanco, ho bevuto troppo, esco dal bar con le ginocchia che tremano: "Ecco" penso "L'ho fatto di nuovo!".
Saranno ormai quasi due anni che va avanti: la mattina mi alzo, mi preparo e prendo il treno delle sei e un quarto. Seguo le lezioni, torno a casa. Studio tutto il pomeriggio, poi mi vedo alle dieci con i miei vecchi amici al solito bar con la birra davanti, spariamo cazzate Mario racconta della brunetta che si è fatto la sera prima, Giorgio fantastica su quella incontrata oggi, Luca si dispera dell'ennesimo fiasco e io guardo e ascolto da lontano, come di fronte ad un programma che quasi so a memoria; e bevo e chiedo un'altra bionda e poi un'altra, finché qualcuno si ricorda di me e mi chiede: "Non hai niente da raccontarci, Riccardo?" Faccio cenno al barista ed ecco un altro boccale brillare sul bancone. Mi giro e vedo i loro occhi curiosi e sento che la vita è vuota e insensata: "Che volete che vi dica non vedo una donna da quasi un anno!" così rispondo, sentendo l'amaro in bocca, il vuoto dentro. Quando usciamo so già che Giorgio ci riaccompagnerà a casa perché è il meno brillo e che per infilare la chiave nella serratura dovrò sprecare una buona mezzora. Poi senza neanche spogliarmi mi sdraio sul letto e cado in un atroce dormiveglia, in cui incubi e ricordi si mescolano. Mi vedo ancora al liceo in mezzo ai miei compagni, mentre suona la campanella, ci sediamo e tutti tirano fuori i quaderni dai loro zaini, ma lo zaino, il mio zaino dov'è? Non c' è, non lo trovo. Allora quasi meccanicamente mi giro e, come al solito, c'è lei che è già pronta con foglio e penna in mano: me li passa e in quel gesto trovo un calore e una sicurezza da tempo dimenticati Mi trovo fuori scuola, sono già andati tutti via. Mi sento solo, abbandonato di nuovo. Mi appoggio al muro e do un'occhiata alla strada: mio padre non si vede. Sento allora gli occhi di qualcuno posarsi su di me, mi giro e la vedo, ancora lei, silenziosa e solitaria, mi sorride dolcement

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   1 commenti     di: Michela Cinti


Quaglia Roberto Vigile urbano: La morte di Iris

Sguardo fisso, occhi rossi, divisa stropicciata. Non riesce a distogliere lo sguardo da quel corpo inanimato coperto dal lenzuolo bianco. La signora Iris.
"È sbucata all'improvviso, non ho potuto fare niente." Mario racconta l'accaduto con voce monotona, inespressiva. Loris, con lui sullo scooter, resta in silenzio e ogni tanto accenna un segno di assenso con la testa. Il brigadiere rilegge il verbale e chiede conferma. Sembra perplesso, forse é solo scosso. Pinuccio, questo il nome del carabiniere, guarda il vigile urbano quasi a chiedergli soccorso, ma Roberto Quaglia sembra assente nonostante la mente appannata dal dolore. Sta macinando pensieri. Nessun testimone. Com'è possibile? Un incidente sulla via principale del paese alle sette di sera in giugno e nessuno vede nulla, nessuno sa nulla.

È sbucata all'improvviso... Perché quelle parole gli suonano false? Certo è difficile essere obiettivo. Era legatissimo a Iris. Sempre gentile, una sorta di nonna per tutti, sua in particolare. Una presenza discreta, sempre sorridente, sempre disponibile. Non riesce a stare concentrato, troppi ricordi, troppo dolore.

Sbucata all'improvviso? Sbucata da dove? Stava uscendo dal cortile di casa. A volte le persone fanno cose strane, ma proprio non riusciva a vedere quell'anziana signora piombare sulla strada dal sentiero cortissimo che collegava il cortile alla strada principale. Un tratto ripido e disagevole, perfino lui avrebbe avuto difficoltà a effettuare quella manovra. La rivedeva in bicicletta, prudente, sempre attenta, spesso camminava a piedi con le borse della spesa infilate nel manubrio. Come poteva sbucare all'improvviso? È anche vero che Mario e Loris sono due bravi ragazzi, magari non particolarmente svegli, ma nulla motiva la sua riluttanza a credere nella loro versione. Perché dovrebbero mentire? Quale altra spiegazione potrebbe esserci? Strada completamente dritta, deserta, visibilità perfetta. Eppure non si rassegnava ad accettare

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   10 commenti     di: Ivan


George

Era visibilmente bagnato di piscio. Jeans chiari e chiazza scura. Del tutto improbabile che si fosse schizzato con dell'acqua nel mentre lavava le mani. Uscì dal bagno a testa china, concentrato nell'intento di sollevare la zip dei calzoni. Questo gli provocò un leggero movimento ondulatorio che lo fece barcollare dapprima in maniera impercettibile, poi sempre più vistosamente. Finì per terra, disteso tra i tavoli, con le scarpe imbrattate di terra rossa proiettate per aria. Ebbe una reazione istintiva, forse di vergogna, trasmetteva come l'impressione di non essere abituato ad assumere comportamenti di quel genere. Si sollevò in tutta fretta da terra, allargò le braccia mostrando ai tizi seduti ai tavolini il palmo di entrambe le mani e si giustificò seccato "Sto bene, sto bene, sto bene, grazie. Ho tracannato una birra gelida e ho avvertito un leggero sbalzo di pressione, non sono ubriaco. Tranquilli". Non era assolutamente vero, da dietro al bancone il barista indicò con un movimento impercettibile del capo la sesta pinta ancora per metà nel boccale. Ed erano ancora le ventuno di un mercoledì sera anonimo.
Scuro in volto, lunga barba incolta, testa calva, di certo non aveva più di quarant'anni, anche se ne dimostrava molti di più. Svuotò anche l'ultimo bicchiere, pagò in cassa, si scusò con il titolare per l'accaduto, puntò la porta e con passo lento ed incerto la raggiunse sulle sue gambe. Non riuscì però a trattenere l'impulso soffocante che prepotente risaliva ad intermittenza il suo esofago e prima di uscire per strada, rigurgitò sull'ampia vetrata posta all'ingresso del locale ogni eccesso di una serata cominciata male e finita ancor peggio. Si scusò nuovamente, poi sparì.
Neppure un solo cliente diede l'impressione di nutrire fastidio per quello che era appena accaduto. Al contrario, si diffuse tra i tavoli un alone di amore fraterno e tutti, ad esclusione di nessuno, cominciarono a discutere con tono raccolto scambiandosi vicendevolm

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