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Iter in tenebris
"Se l’elemento musicale perde terreno, e tuttavia la visione musicale del mondo è destinata a conservarsi, dov’è che si rifugia tale elemento?"
Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 5[87]
“Fa caldo. Tra due giorni è novembre e fa caldo.” Lorenzo scosse il capo corrucciando le labbra, in segno di disappunto, poi sollevò lo sguardo e fissò l’amico con un mezzo sorriso, tanto per cercare l’approvazione di qualcuno, poi si grattò la fronte e con uno strattone sistemò la sacca che teneva sulle spalle. Gabriele Testa rimase immobile, seduto, fisso sulla panchina di pietra della pensilina, quella del binario due, teneva il giornale acquistato poco prima stretto tra le mani; riuscì a stento a ricambiare lo sguardo di Lorenzo, poi riprese a fissare i disegni geometrici delle piastrelle, incurvato con la schiena, con le braccia appoggiate pesantemente sulle ginocchia. “Sì che fa caldo, pensa che stanotte una zanzara mi ha tenuto sveglio dalle cinque fino a quando mi sono alzato.” “No, a me non danno fastidio le zanzare, cioè, a me nemmeno mi pungono.” Lorenzo si trattenne a stento dal mostrare palesemente il proprio disinteresse per l’osservazione dell’amico, poi volse lo sguardo nella direzione da cui sarebbe dovuto apparire in lontananza il treno. “Di certo non ci si può sbagliare” Riprese “Il treno viene da Sesto, per cui da là” Fece un ampio gesto con il braccio per indicare la direttiva del convoglio. Una folata improvvisa di vento gli scombinò i capelli biondicci, si ritrasse leggermente, e d’istinto si portò la mano alla tempia, come per non farseli sfuggire. Gabriele si alzò, fece il giro attorno alla panchina, si slacciò un bottone della camicia: “Ma quante fermate sono per Milano?” fece, destandosi per un momento dal proprio mutismo. “Una, una sola, ma guarda che siamo già a Milano, Greco è un quartiere di Milano, la prossima fermata è Garibaldi, che poi è il capolinea.”
“Ed è in centro?”
“Quasi, non proprio, manca ancora un pezzetto, ma tranquillo che c’è la metro. Ma non sei mai stato a Milano?” La domanda colse alla sprovvista Gabriele, che d’impeto stava per rispondere ma sì, certamente, poi si bloccò per un istante. No, non era mai stato a Milano. Bè, certo, si ricordava il Duomo, ma poteva benissimo averlo visto in fotografia, o in un qualche documentario televisivo, no di certo davvero. Anche tanti che non sono mai stati a Parigi sanno com’è la Torre Eiffel, per forza, come la divisa delle Guardie svizzere. “No, in effetti non ci sono mai stato, ho letto qualcosa, ma non ci sono mai capitato.” Esalò la frase con un filo di voce, senza troppo badare a quel che diceva, ancora assorto dal pensiero di prima. “Certo che è strano, voglio dire, Milano è qui vicino, prima o poi ci si capita” Insistette Lorenzo. A Gabriele venne in mente anche un vecchio palazzo, cinquecentesco forse, di sicuro antico, probabilmente non distante dal Duomo. Aveva fissa l’immagine di una parete rossastra, decorata da alcuni fregi dozzinali. La memoria talvolta è davvero un paese straniero. Non importa quale sia la meta del viaggio o il senso di una peregrinazione; la peregrinazione, intesa come vagabondaggio, di per sé non ha senso, è il solo viaggiare, il muoversi in sé e per sé. Gabriele non faceva che pensarci. Ci pensava fin da quando da bambino faceva finta di studiare ed in realtà era soltanto Altrove, in una magnifica patria in cui il tempo e lo spazio marciavano ad una cadenza diversa. Milano, Parigi, Vienna; in fondo che differenza poteva fare. Che differenza c’era tra un viaggio in una capitale europea o mondiale e un muro rosso cinabro.
Poi arrivò il treno. Arrivò in un rombo metallico che si aprì la strada a poco a poco nella nebbiolina autunnale, decelerò, si impianto in una frenata fluida in corrispondenza esatta con la lunghezza della pensilina. La luce per quanto velata riusciva ancora a imprimersi in riflessi lucenti sulla superficie fredda delle carrozze. Gabriele rimase a fissare la scena per qualche secondo, ancora seduto cominciò ad afferrare l’impermeabile, la borsa e l’ombrello per poi alzarsi con uno stacco repentino che lo condusse direttamente ad una porta scorrevole del convoglio. Lorenzo aspettò che Gabriele fosse in vettura, poi ne imitò i gesti, finché entrambi si trovarono faccia a faccia nell’angusta anticamera dello scompartimento. L’aria era intrisa di un caldo umido e denso. Lorenzo con gesto deciso spalancò l’ingresso che dava sui posti a sedere. “Certo che fa un caldo infernale. Ma non siamo a novembre oramai?”, detto questo Lorenzo si tolse la tracolla e si sedette vicino al finestrino, si lisciò la faccia con la mano e si sbottonò il cardigan blu che con pessimo gusto teneva sopra ad una maglietta girocollo verde scura. “Mi farai da guida allora?” Fece Gabriele, che nel frattempo si era seduto e a sua volta si era allentato il nodo della cravatta.
“Guida di che?” Lorenzo guardava fuori dal finestrino.
“Guida a Milano.” Intanto si guardò attorno, c’erano pochi passeggeri, un signore elegante e distinto con un portatile sulle ginocchia che con la mano destra si tormentava la barbetta che stentava a crescere sul mento, una giovane donna che si sistemava il trucco, un’anziana, uno studente con la cartella a tracolla. Gabriele li fissò per un istante ad uno ad uno. Lo colpì il ragazzo, magro, emaciato, curvo sotto il peso dello zaino.
“E sai che guida… a Milano non c’è un cazzo. Non fidarti di chi dice Milano qui, Milano là… forse qualche locale, sì, ma poi? Specchietti per le allodole, o per una fila di gente più o meno cogliona disposta a pagare in contanti.” Espresse la sua opinione con fare sicuro, e profondamente amaro. Gabriele pensò che spesso molta gente ricollega un luogo al proprio ricordo personale, e se quel ricordo è una delusione anche il luogo stesso non potrà che essere un fallimento che si rinnova ogni volta che una ci si ritorna. Lorenzo riprese: “Milano è uno di quei posti in cui non posso più tornare da solo.” La sua frase esplose come un atollo sonoro nel silenzio, Gabriele ne rimase colpito; lasciò passare qualche secondo, poi insistette: “Davvero non me l’aspettavo… ma cosa intendi di preciso con non ci posso più tornare da solo?” Lorenzo aggrottò la fronte, si scompigliò i capelli biondi con due dita, poi prese a disegnare con la punta dell’indice sul finestrino appannato: “A te non capita? Voglio dire, di ricordare troppo. È terribile ricordare troppo, e ancora peggio ricordare le cose a modo tuo, senza che nessuno possa intervenire nella tua versione dei fatti…” La sua voce si era fatta leggermente roca; “Non so” ribatté Gabriele “non ci ho mai fatto caso, certo però mi darebbe un gran dispiacere se…” “Se cosa?” lo incalzò l’altro, con gli occhi azzurri che si erano fatti sottili e taglienti: “Ecco, se qualcuno si intromettesse nelle cose che ricordo. Io voglio anche potermeli inventare i miei ricordi…” Semplice e sincero. A Gabriele pareva di aver trovato la forma migliore per esprimere quel groviglio di sensazioni che si portava addosso. Lorenzo lanciò un’enigmatica strizzatina d’occhi, che in quel momento poteva sembrare un gesto d’approvazione.
Poi il buio. Erano in galleria. I neon. Guasti, non vanno, è buio da maledetti. Gabriele avvertì un forte odore che pareva tanto di gomma bruciata. L’udito era ovattato, non percepiva più né suoni né rumori, dopo alcuni secondi di totale immobilità provò a parlare, a chiamare Lorenzo, ma la voce gli rimase in gola, strozzata; la situazione di stallo si trascinò per un’altra manciata di secondi, per un attimo Testa pensò anche di infrangere il vetro con una spallata per tentare di capire cosa stesse succedendo, stava per farlo, e poi… Luce. Era Lorenzo, aveva estratto un accendino, grazie al quale se non altro era possibile osservare gli oggetti in un raggio di due metri quadri. “Che cazzo… Meno male che fumo… eh eh… ma si può sapere che è?” La sua voce aveva assunto una venatura metallica che lì per lì sembrò a Gabriele ben poco rassicurante. Intorno erano spariti gli altri passeggeri, era rimasta abbandonata ai piedi di uno dei sedili la cartella dello studente; il treno continuava la propria corsa in un rumore intenso di ferraglia e strani ticchettii metallici. Lorenzo non sembrava affatto preoccupato di quanto gli stesse accadendo intorno, si sentiva visibilmente a proprio agio, disteso in modo scomposto su uno dei sedili, con la gamba destra che penzolava da un bracciolo. Si accese una sigaretta, del tutto incurante dei divieti.
“Ma gli altri dove sono?” tentò di ricomporsi Gabriele aggiustandosi il colletto della camicia.
“Gli altri chi?”. Silenzio. I due amici si fissarono negli occhi.
“Ma mi prendi per il culo? Gli altri passeggeri, no? Quelli che erano qui cinque minuti fa!” Nelle pieghe della sua voce balenò per la prima volta una punta di irritazione, un impercettibile aumento del tono, una maggiore sonorità del timbro.
“Saranno andati per i fatti loro, che te ne importa?” Lorenzo non era minimamente preoccupato, o per lo meno curioso, se ne stava lì con la sua sigaretta tra le dita, ad appannare il vetro del finestrino con abbondanti boccate. Ecco tutto. Non faceva altro.
“Ma è possibile che siano spariti tutti?” provò a insistere l’altro.
“E anche se fosse?”. E poi c’era un’altra questione. La galleria. Non finiva più. “Ma Garibaldi? La fermata, non avevi detto che era il capolinea? Lorenzo, parlo con te…”
“Forse mi sbagliavo, o forse mentivo, chi lo sa. Comunque stiamo passando ora da Garibaldi se ti interessa ancora…” detto questo indicò con l’indice sinistro fuori dal finestrino ancora semi appannato per il fumo; Gabriele riuscì appena ad intuire il nome della fermata sulla parete della galleria. Ma il macchinista non aveva alcuna intenzione di fermarsi. La vettura andò oltre. Senza colpo ferire. Nessun capolinea.
“Stai a vedere la prossima fermata amico mio…” Lorenzo si sistemò sul sedile, assumendo un’aria più disponibile e meno irritante. Il treno non accennava a rallentare la propria corsa, proseguiva tra spessi banchi di foschia, inoltrandosi in un percorso intricato eppure semplicissimo.
“È un cammino del tempo. Come dire, a ritroso. È anche il titolo di un libro mi pare… A ritroso, bello no?” “Che vuoi dire Lorenzo, a ritroso?” Testa era sbiancato, la sua voce, prima ad un passo dall’ira, era adesso come pervasa da un sottile tremore. Il compagno di viaggio riprese: “Voglio dire quello che ho detto. La dimensione del sogno, Oniria, è vera, esiste, eccome se esiste. Solo che magari è un poco diversa da come te la potevi aspettare, vero Gabriele?”
“E io come me l’aspettavo…?” Fece con una voce sempre più fioca.
“Ma lo sai benissimo! Tu che sognavi tanto, tu che venivi deriso da amici ed insegnanti, perfino dai tuoi genitori, ti ricordi Gabriele, ti ricordi?”
Testa provò un forte senso di sbandamento, la sua mente si stava districando tra meandri che erano sepolti, tra cose, nient’altro che cose sepolte da un tempo indefinibile, era l’infanzia, l’adolescenza, era un pezzo di vita andata perduta, una memoria che non c’è più, e con essa una parte di personalità che scompare. Gabriele Testa vide riaffiorare nel ricordo volti, speranze, oggetti, fantasie. C’era tutto un mondo: bambini che giocano, madri che allattano i figli, compagni di scuola, violenza. Anche violenza. Un altro bambino, triste stavolta.
“Ti ricordi chi è?” Era ancora la voce di Lorenzo che per un istante lo distolse dalla confusione in cui stava naufragando, “Chi è chi…?” “Il bambino che hai appena pensato…” Lorenzo accavallò una gamba e si congiunse la mani dietro la nuca, “Ma come puoi sapere chi ho pensato… è una cosa che…” si interruppe di colpo, cominciava ad intuire che era perfettamente inutile inquadrare quella circostanza con i canoni e i filtri a cui era stato abituato. Era una partita che si giocava su di un altro terreno. “Non ricordo bene…” si limitò a sussurrare, più per prendere tempo che altro, ma la sua mente viaggiava, si stava arricchendo di nuovi dettagli, non era vero che non ricordava, non era vero che non c’era più nulla, che l’equivalente del suo passato era il più assoluto vuoto pneumatico. “Non deludermi… so che ci sei…” fece l’altro. In effetti c’era quasi, difficile dire a cosa, ad una realtà troppo diversa, troppo altra per poter essere definita in termini compiuti. Poi un lampo, Gabriele udì la propria voce risuonare metallica e distante nello scompartimento: “Mio fratello.” Due parole, solo due parole elementari e secche, eppure gravide di infiniti significati in quel frangente.
“Tuo fratello. Ora ci siamo.”
“Ma che significa?” la richiesta del viaggiatore era composta e accurata, non trapelava più alcun tremore nel suo tono, e anche l’incertezza stava diradandosi.
“Significa che è tempo che tu ricordi.”
“Ricordare cosa? È stata una visione…” provò a replicare.
“Qualcosa c’è stato, tu lo sai benissimo. Il tuo passato esiste, per quanto remoto e detestabile, c’è, è concreto.” Lorenzo si accese un’altra sigaretta, poi riprese a fissare Gabriele negli occhi: “Tuo fratello ad esempio: è esistito, così come tu sei già stato a Milano, tanto tempo fa.” La casa di mattoni rossi, gente che va e viene, e ancora, una donna anziana, una nonna, sua nonna.
Il treno si fermò con un movimento elastico, che fece fare un sobbalzo ai due. “Ecco, una fermata, e dire che pensavamo che i treni fermassero a Garibaldi… non c’è modo di sapere veramente le cose… eh, eh…” Lorenzo si alzò dal sedile, con una pedata scalciò il suo borsello, che a causa della frenata era caduto per terra, si aggiustò i pantaloni in vita e fece cenno a Gabriele di seguirlo; questi lo seguì meccanicamente, aveva smesso di analizzare gli ultimi avvenimenti con la lente delle proprie certezze, muoveva passi leggeri in una leggera penombra, i finestrini erano appannati, la sensazione era di essere ancora nella galleria, incastrati in un nulla temporale che non aveva né inizio né fine. Gabriele non sapeva fino a che punto Lorenzo fosse coinvolto in questa sgangherata vicenda, fino a che punto sapesse cose per lui ancora misteriose; ma ai suoi occhi non c’era niente di avventuroso o di iniziatico, c’era una persistente sensazione di assenza, di vuoto.
Scesero dal vagone, intorno a loro un panorama dai colori sfumati dal bianco al nero, un panorama desolato, di arbusti e lievi pendii; una luce diafana e uniforme stagliava ombre nette sul terreno, ombre che disegnavano figure astratte e imponenti sul suolo. Testa si guardò attorno, notò ad un centinaio di metri da lui un gruppo di rovine, un agglomerato che ricordava vagamente certi monumenti funerari che aveva visto anni prima a Populonia. Delle tombe per l’appunto.
Entrambi si mossero di buon passo verso i ruderi, Lorenzo non diceva una parola, si limitava a fare strada a Gabriele, come se la ragione di quella fermata fosse di per sé evidente, cosa che nei fatti non era. La superficie occupata da quello strano monumento non era superiore ai centocinquanta, massimo duecento metriquadri, Lorenzo si appoggiò ad un fusto di colonna consumata dal tempo e dalle intemperie, incrociò le braccia, come in segno di attesa. Poi una voce sibilò da dietro un piccolo avvallamento erboso, sembrava un lamento, Gabriele fece per indietreggiare, ma Lorenzo lo sospinse in avanti, in direzione di quel gemito: a poco a poco quei versi presero una forma comprensibile, era un’invocazione, una domanda straziante. Perché? Perché? Gridava. A Gabriele si strinse il cuore, rimase immobile, finché una figura di donna non sbucò fuori da dietro l’avvallamento; era anziana, magrissima, aveva uno striminzito maglione infeltrito sulle spalle e la testa lievemente inclinata da un lato. Gli si avvicinò con fare benevolo, ma chissà perché ugualmente inquietante, alzò una mano, gli accarezzò la fronte. “Nonna… ora ti riconosco…” Fu un momento, sul volto dell’anziana si allargò un sorriso confidente e materno, ma rimase zitta, toccò al viaggiatore continuare: “Ma tu… sei morta… vero che sei morta?” “La memoria non basta piccolo mio. Si muore, si va da un’altra parte.” Gabriele trasalì, provò ancora una volta a fare appello a tutta la propria forza di volontà, per tentare di trovare un raziocinio, una spiegazione plausibile. Ma non serviva, tutto non faceva che confondersi.
“Abbiamo lavorato una vita, una vita, tuo nonno ricordi? Brav’uomo tuo nonno… eh sì, sono proprio tempi andati, anche quando eri piccolino, ricordi? Ah, che bello, ero tanto felice allora, giocavi ai soldatini col nonno… ti aveva costruito quel bel garage per le macchinine… ti piaceva tanto…” Aveva gli occhi puntati in una direzione che Gabriele non poteva intuire, vedeva sua nonna, sua nonna morta da un decennio che gli parlava ancora, ma con un linguaggio che non riusciva a capire, provò comunque a riprendere le fila del discorso: “Ma tu stai bene qui? Ti trattano bene?”
“Non lo so, sì sì, c’è tutto, ma ogni tanto mi sento sola, vorrei fare qualcosa, mi mancano i miei nipotini, poi viene il nonno ogni tanto, mi fa tanto piacere… ma qui non cucino più, è tutto così distante…”
“Perché non cucini più nonna?” Parlare gli era sempre più difficile, per via del magone, di quella sensazione che prende alla gola, che spezza il fiato.
“Noi non facciamo piazzate piccolo mio, siamo stati educati così, con un decoro…”. Si alzò una folata improvvisa di vento, Gabriele si trovò d’un tratto trascinato all’indietro, senza possibilità di opporsi, aveva i muscoli immobili, le membra come irrigidite, vide sua nonna risucchiata da una delle tombe etrusche, continuava ad arretrare, la voce non usciva, voleva urlare, voleva battersi per parlare ancora un po’ con sua nonna, ma non serviva, non c’era resistenza che tenesse. Nel giro di pochi istanti le rovine non erano che una enigmatica silouette sbiadita, un punto distante. Gabriele si ritrovò a ridosso del treno, ancora con Lorenzo. Si riprese un attimo dalla forte emozione. Un sogno, non poteva essere altro che un sogno, una rielaborazione sgangherata di ricordi e suggestioni, una specie di minestrone sentimentale, e anche un po’ patetico, irreale, quell’irrealtà che appunto è propria del sogno; del resto Lorenzo stesso gli aveva accennato qualcosa a proposito di Oniria, la patria dei sogni, il luogo dell’oblio.
“Dimmi Lorenzo, tu sai certo più cose di me, ma cos’è quest’Oniria di cui mi parlavi prima?”. Si aspettava una spiegazione, non sapeva nemmeno lui come avrebbe reagito se non avesse avuto una risposta chiara stavolta.
“Lo sai benissimo da te cos’è Oniria. È la discarica delle cose dimenticate, è un ripostiglio, dove finisce ciò che è dimenticanza. I morti insomma.” Fu una volta tanto conciso e a suo modo esauriente.
“Ma se io dimentico qualcuno non vuol dire che questo qualcuno sia morto, dico bene? Mia nonna, lei sì che è morta, eppure l’ho rivista.”
Lorenzo si voltò con lentezza, salì di nuovo sul treno, e fece ancora una volta a Gabriele segno di seguirlo, questi indugiò un attimo, non avendo ricevuto risposta, ma poi montò in vettura, rientrando nello scompartimento di prima. C’era qualcuno seduto di spalle. Si scorgeva il braccio penzolare giù dal bracciolo. Lorenzo arretrò, lasciando spazio a Testa perché avanzasse e, presumibilmente, si accostasse allo sconosciuto. Sulle prime Gabriele non lo riconobbe, era una figura anonima, con i capelli piuttosto stempiati, vestiti scuri e ordinari, aveva lo sguardo fisso eppure attento, il suo volto si contrasse in una smorfia che assomigliava tanto ad un sorriso: “Ciao Gabriele. Ti ricordi? Ci conoscevamo, tempo fa…”. Gabriele ripercorse mentalmente le facce di tutti i coetanei che aveva conosciuto, finché non trovò corrispondenza tra quel volto e un nome: Saverio Rossignoli, un suo amico dei tempi del liceo, un caro amico di allora.
“E poi che è successo, eh Testa? Ci siamo persi. Ecco cos’è successo.” Saverio, era proprio lui, la stessa voce roca e sguaiata: “Si diceva sempre che si rimaneva amici e poi niente. Male Gabriele, male. Ma del resto si sa come vanno a finire queste cose, si fa altro nella vita, si cambiano le abitudini, i giri.” Fece una pausa, prese fiato, si arrotolò una manica della camicia: “E poi un bel giorno ti rendi conto che non sei quello che avresti voluto essere. O almeno per me è stato così amico mio. Ma scommetto anche per te, vero?” Continuava a sorridere, ma sembrava una manifestazione sincera. Gabriele riuscì alla fine a trovare delle parole: “È davvero passato tanto tempo… non mi aspettavo, non mi aspettavo davvero, ma tu come stai eh? Come stai?” Tentò di assumere un tono sufficientemente accorato per sembrare credibile, mentre in realtà stava solo tentando di limitare i danni di uno stato sempre più confusionale: “Per me non va né bene né male, sono in questa specie di limbo e tanto mi basta per ora… non può più succedermi niente però, né in un senso né nell’altro. È una vacanza da tutto, anche da me stesso diciamo.”
“Ma tu sei morto?” La domanda piombò nella discussione gelida e precisa, acuminata come un coltello.
“Per te sì, sono morto, ma vedi, ci sono tanti tipi di morte amico mio…” Detto questo si alzò e uscì dal lato opposto dello scomparto. Nuovamente Testa fu sopraffatto da quel senso di rigidità che bloccò sul nascere qualsiasi intenzione avesse di muoversi, di avvicinarsi a Saverio. Lorenzo osservava impassibile la scena seduto in una delle tante postazioni libere. Gabriele non potè fare altro che lasciarsi andare pesantemente su una delle poltroncine, Lorenzo lo raggiunse, gli si sedette accanto: “Vedi cosa intendevo?”
“Ma tu chi sei, voglio dire, tu sai gia tutto, dimmi qualcosa, dimmi perché sono qui…” Testa oscillava tra la supplica e la disperazione.
“Scommetto che alla prossima capirai tutto, o quasi. È tempo che tu ti spinga un poco più in là. Intanto ricordati dell’immaginazione che avevi da bambino. Era una bella cosa sai?”
“Ma che c’entra adesso la mia infanzia”. Spuntò una punta di aggressività tra le sue parole.
Ma quello continuò come se niente fosse: “Era davvero una bella cosa… hai voglia a parlare di tecnica quando sei qui, mentre un sogno, ecco magari quello può servire un poco di più…”
“Ma qui dove? Dove siamo?”. Era un ultimo, ingenuo tentativo di ottenere dal suo compagno di viaggio una risposta definitiva, possibilmente in termini accessibili.
“Se ancora non l’hai capito basta che attendi la prossima fermata, vedrai, stavolta capirai qualcosa in più; è sempre così, si impara una cosa alla volta, non c’è modo di imparare tutto assieme, di imparare bene intendo.”
Il treno partì sommessamente, aumentando per gradi l’andatura, la vettura proseguiva in un cono di luce, senza paesaggi, senza fermate, senza un senso apparente. Nell’arco di un lasso di tempo indefinibile (ma voleva ancora dire qualcosa parlare di tempo?) giunsero presso una grande piazza di marmo biancastro, posta al centro di una cerchia di edifici bassi e chiari, con ampie vetrate e al loro interno apparentemente vuoti. A Testa ricordava uno stile vagamente postmoderno, anche se da tempo nessuno usava più quella parola, che per lo più andava di moda negli Ottanta. Gabriele e Lorenzo scesero dal treno, quest’ultimo prese a camminare, e l’altro istintivamente e senza porre domande gli stette dietro; attraversarono la piazza e varcarono la soglia di un cancello che inizialmente Testa non aveva notato: davanti ai suoi occhi si aprì un ampio spazio di lavoro che aveva tutta l’aria di essere una fabbrica, e al cui centro svettava un edificio di mattoni a vista, di quelli tipici usati per edificare le ciminiere. Qualcosa nella mente di Gabriele si smosse. Come un fiume carsico riemersero nuovamente e alla rinfusa colori, odori, immagini. Lorenzo non era più Lorenzo, era un’altra figura sepolta nelle pieghe della memoria: un bambino, il fratello di Gabriele.
“Lorenzo!” esclamò, solo ora lo aveva riconosciuto, suo fratello, quel fratello che nemmeno si ricordava più di aver avuto. Il bambino gli si fece vicino, lo prese per mano e lo accompagnò all’interno dell’edificio; salirono una rampa di scale e nel mentre Lorenzo riprese la parola: “Ricordi ora?” “Dammi una mano…”
“La ditta… produceva imbottiture, materassi…” sussurrò il bambino.
“La ditta di papà…” disse Gabriele, con fare liberatorio.
“Esatto, visto che non era così difficile…” sorrise.
“Ora ricordo… ma la ditta era stata chiusa, era stata demolita addirittura, dopo che papà era impazzito…”
“Sì, demolita, ma non qui…”
“Papà era disperato dopo quello che era successo, dicevano che aveva avuto un esaurimento…”
Lorenzo si fermò a metà della rampa di scale, si voltò verso il fratello e puntò lo sguardo dritto nei suoi occhi: “E perché è impazzito, Gabriele?”
“Mamma si era lasciata cadere dalla tromba delle scale…” Una smorfia di dolore e contrizione aggrottò la fronte di Testa.
“Non una scala qualunque, questa scala, dove siamo ora…”
“Sì…” Stava riemergendo, il ricordo, quell’assurda dimensione che volteggia a mezz’aria su tutte le azioni di una vita, e che su di essa, senza volerlo, pesa come un macigno, stava tornando a galla, e non c’era modo di evitarlo. Lorenzo continuò a parlare: “E perché la mamma si era lasciata cadere?” “Perché…” non riuscì a proseguire, le parole gli si chiusero in gola, si sentiva soffocare ad ogni respiro. “Perché?” lo incalzò il bambino. “Tu eri morto” riuscì a proferire alla fine, soffocando i singhiozzi, con un filo di voce. Gabriele si sedette su uno dei gradini della scala, si prese il capo tra le mani e continuò: “Avevo nove anni, tu sei… stavamo giocando…”. Lorenzo non lo lasciò concludere, lo prese con forza per il braccio, ed entrambi proseguirono la salita fino al secondo piano, entrarono in una stanza, un ufficio, che si apriva su di un piccolo terrazzo. “L’ufficio di papà…”. Uscirono sul balcone: “Qui è stato.” Disse Lorenzo. Gabriele riprese a ricordare ad alta voce: “…stavamo giocando, volevamo afferrare una farfalla che si era andata a posare sul davanzale qui di fianco… era così raro vedere una farfalla da queste parti… ti dissi di prenderla, per vederla più da vicino, ma eravamo piccoli, non ci arrivavamo, così a me venne l’idea di prenderti sulle spalle per farti sporgere dalla ringhiera quel tanto che bastava…” Lorenzo continuò: “Tu scivolasti proprio mentre ero completamente fuori dalla ringhiera. Fu un attimo, la caduta, il tonfo sordo. Morii sul colpo. Mamma accorse subito, ma vedendomi in una pozza di sangue dal terrazzo non resse al dolore. Papà sembrò reagire meglio, ma a poco a poco scivolò nella depressione e poi nella pazzia, nel giro di un anno non fu più in grado di lavorare, la ditta fallì…”. Si levò un leggero vento che scompigliò i capelli di entrambi, Gabriele era ora silenzioso, senz’altro con un peso in meno addosso, riprese a parlare: “E ora dove siamo?”
“Nel ricordo Gabriele. In una piega della tua mente. Prendi il giornale che ti è rimasto nella tasca dell’impermeabile.” Se ne era completamente scordato, il giornale c’era, era incredibile, c’era ancora un appiglio alla realtà. Con un moto di curiosità e contentezza Testa diede uno sguardo alla prima pagina:
tragico bilancio: diciotto morti e un ferito in gravi condizioni all’ospedale di Niguarda
DISASTRO FERROVIARIO ALLA STAZIONE GARIBALDI A MILANO
L’ipotesi più accreditata è che siano ceduti i freni del treno regionale diretto in città
Sono morto, fu il suo primo pensiero. Lo corresse Lorenzo: “Non leggi che c’è un ferito grave?”
“Vuoi dire che..?”
“Ci sono molti modi per morire fratello… ricordi Saverio?”
“Ma che vuol dire che sono in gravi condizioni?” fece Gabriele, con modi tranquilli nonostante la circostanza.
“Magari in coma. Reversibile ad esempio, non so bene, non sono un medico, ho solo sei anni…”.
Tornarono verso il cortile, ridiscesero le scale, Lorenzo si piazzò al centro esatto dello spiazzo, colse un piccolo fiore che era cresciuto in mezzo alla sterpaglia, se lo rigirò tra le mani, osservandolo. Gabriele si trovò all’improvviso senza più pensieri. Casa, lavoro, conoscenti. Non c’era più niente, la scala di valori era cambiata, si era espansa, dilatata, fino a diventare qualcosa di grottesco, di informe. Tirò un lungo respiro: “È tutto finito vero?” “Considerala una vacanza, puoi rimanere qui tutto il tempo che vuoi, non hai obblighi una volta tanto, qui c’è solo un tenue e vago vento dei ricordi. E sono ricordi tuoi, non di qualcun altro.”
“Vuoi dirmi che questo è…”
“Che cosa? Ah, sì, capisco, bé, perché? come te lo eri immaginato?”
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- Toccante. Ti trascina come un gorgo fino alla fine, risucchiandoti nella lettura. Lascia qualcosa dietro di sé, anche dopo l'ultima frase: una malinconia sospesa. Gran bel racconto. Complimenti!
- scrittura scorrevole, gradevole. bravo!
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