Il suo camminare a testa bassa, un po' gobbo, con lo sguardo abbassato sulla punta dei piedi, più che un carattere introverso, denotava il suo essere lontano da qui.
Bill era continuamente avvolto nei suoi pensieri, fondamentalmente preso da se stesso, non per timidezza, ma perché tutto ciò che era altro da sé non gli suscitava alcun interesse. Con i piedi camminava su questo mondo, con la testa si crogiolava nel suo; era presente ma allo stesso tempo estraneo.
Per questo suo modo di essere non rimaneva molto simpatico alla gente. Molti lo consideravano uno snob, altri uno svitato, un debosciato, un ragazzo po' strano, che parla poco, che non saluta, un po'ombroso, per alcuni si drogava, secondo altri reprimeva la sua natura gay. Troppo in fretta gli si metteva addosso un'etichetta poco felice e dispregiativa, perché quel ragazzo non era niente di cui si diceva in giro. Bill era un'autosufficiente, uno che non aveva bisogno di nient' altro che sé, era uno e basta. Definirlo un solitario era sbagliato, perché egli si completava da solo essendo allo stesso tempo se stesso e la sua altra metà. Ogni ingerenza esterna che fosse inopportuna per lui era fonte di irritazione, perché gli impediva di ascoltarsi da dentro. Esatto, proprio così, Bill ascoltava se stesso.
Come le radici di una nymphea, che sommerse nella fanghiglia lasciano emergere sulla superficie dell'acqua grandi inflorescenze, una voce dal profondo del suo inconscio muoveva un'analoga attività vegetativa, che faceva affiorare alla luce della sua coscienza una grande quantità di pensieri. Il suo mondo era un giardino acquatico di idee che scaturivano da questi pensieri, e Bill, per trasportarle nel mondo degli umani, donava loro una forma attraverso gli ottantotto tasti del suo pianoforte.
Entrò nell'aula vestito grigio topo, come sempre. Gli occhi, da dietro due lenti profonde, guardavano la punta dei suoi mocassini, e da lì si distolsero giusto il tempo per un accenno di saluto accompagnato da un cupo e farfugliante "'ngiorno". Quando si sedette al piano le sue dita lunghe e sottili non riuscirono a penetrare i capelli neri, cristallizzati nella quantità enorme di gelatina che sedimentava giorno dopo giorno sulla sua cute, quasi per conservare in eterno quella forma e quel colore. Curvo, gelido, così magro che sembrava piatto, dispose con cura gli spartiti sul leggio, e quasi senza respirare iniziò la sua esecuzione. Era la voce che gli parlava da dentro che stava suonando, lui la codificava articolando le dita sui tasti. Intorno ogni cosa sembrava immobile, il tempo si era fermato su quel suono, che raccoglieva in sé tutto il dolore e la gioia del mondo. Il senso profondo dell'esistenza, fatto musica, ci aveva rapiti. Ho potuto ascoltare mille altre esecuzioni di quel brano fatte da altri musicisti, ma questa volta era davvero tutto così diverso, tanto che quando volevo descrivere il modo di suonare di quel ragazzo dicevo sempre: " se hai già sentito la stessa cosa da altri, ma non così, allora è Bill".