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Un invito davvero inaspettato

L'irrazionale è sempre in agguato.
Dobbiamo farcene una ragione.





Quella notte faceva un caldo, ma un caldo, che scioglieva anche i pensieri. Il condizionatore dopo aver vibrato, sussultato e sternutito a lungo, aveva esalato l'ultimo respiro. Da far rimpiangere quei vecchi ventilatori che con le loro pale di legno fendevano instancabilmente la calura, col ritmico fruscio di seta sui fianchi di una donna. Ma Casablanca, in quella notte americana che avvolgeva e stringeva fino a togliere il respiro, era un ricordo liquefatto. Situazione anomala per una città dai climi notturni abitualmente assai piacevoli.

Il servizio in camera era latitante. Le strade: semideserte. Il che creava un bizzarro contrasto con le luci a giorno della Plaza Alfredo Sadel. Troppo tardi per uscire. E poi per i periodisti stranieri non tirava aria buona. Rimaneva la tivù. Sai che allegria! Afferrato il telecomando cominciai a zippare senza molta convinzione. Dopo alcuni minuti di lite con i tasti, mi parve di udire dei passi furtivi, fuori, nel corridoio. Mi girai verso la porta. Lo sguardo la percorse dall'alto in basso fino a scorgere far capolino dalla fessura, tra legno e moquette, l'angolo di una busta. Non aspettavo nessun messaggio. Almeno consegnato in modo così stereotipato, da giallo di maniera. Mi alzai, mi avvicinai e mi chinai a raccoglierlo.

Era una busta di carta raffinata. Doveva provenire da qualcuno importante. La aprii sempre più incuriosito. Il testo della lettera diceva più o meno così: Lei è invitato al Palazzo di Miraflores domani sera alle 21. 00. Sua eccellenza, Hugo Rafael Chavez Fria, desidera conoscerla personalmente e avere con lei uno scambio di idee. Dopodichè deciderà se concederle un'intervista. Un taxi l'aspetterà all'uscita dell'Hotel. Lo riconoscerà perché l'autista avrà in mano una banana. Cordialmente. Conoscere me? Un'intervista? Una banana.? Cosa stava succedendo? Non mi era mai passato per l'anticamera del cervello di chiedere un'intervista al Presidente. Avevo solo chiesto di essere ammesso a consultare un testo che, pare, esistesse solo nella piccola biblioteca interna del Palazzo. Per questo ero sorpreso, incredulo, un po' scioccato e, confesserò, anche molto spaventato. I periodisti non sono razza amata da certi regimi. Specie protetta come da noi. Sono sempre e comunque guardati con sospetto. Talvolta svaniscono nel nulla, senza lasciar tracce. Non godono insomma le simpatie dei dittatori. Ecco, l'avevo pronunciata la parola. E nel pronunciarla, un brivido mi percorse le interiora. Soprattutto perché adesso il dittatore giocava in casa. È facile quando si è dall'altra parte del mondo, in Europa, in un paese democratico, inveire contro i dittatori, coprirli di tutti i peggiori e più che meritati insulti. Più facile e sicuro che fare boccacce a uno scimmione in astinenza sessuale da mesi, dietro le grosse sbarre dello zoo comunale. Ma adesso? Qui. In un paese a democrazia di facciata, non si poteva far tanto gli spiritosi. H. C. vuole vedermi. Il Caudillo vuole parlare con me, Fabio Giulietti, periodista a sessant'anni suonati. Perché proprio me? Cosa avrà mai da dirmi.? Ma soprattutto cosa potrò mai dire io a lui? Non poteva scegliere un altro? Una firma? Anche se, tutto sommato, ero gratificato dall'interesse dimostrato.

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