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Torino. Una città mi ha incontrato
Decisi di partire per Torino. Alla fine desideravo sconfinare in una grande città. Immergermi in essa, rifarmi addirittura una identità. Mi è accaduto altre volte di voler abbandonare da qualche parte il vecchio cumulo di stracci che poi sono la mia storia, chi io sia veramente, per vestirmi di un altro Io, anche solo per pochi giorni. Torino andava benissimo. Ero uscita da poco dall'ospedale. Avevo voglia di parlare con gente sconosciuta, sentire un diverso accento, vocali più larghe o più strette, un'altra cortesia o un'altra maleducazione. Entrare in un bar, sedermi ad un tavolino con un caffè e leggermi in santa pace La Stampa. Io, di Torino, non conoscevo assolutamente nulla, prima di quel marzo, se non La Stampa. Era il quotidiano preferito di mio padre. Cominciai a leggere La Stampa che ero in quinta elementare. Leggevo la pagina della cronaca cittadina, dopo pranzo. Assieme alla rubrica Specchio dei Tempi. Mi piacevano le storie quotidiane di Torino e della sua malavita. Seguii negli anni tutta la storia della banda Cavallero. Più avanti nel tempo, il pudibondo linguaggio del giornale piemontese mi colpì. Se in Corso Francia veniva trovata una prostituta ammazzata, la redazione di quel sensibile foglio non scriveva " trovata morta una prostituta" , ma " trovata senza vita una mondana".
Arrivai a Torino ch'era una giornata di marzo, fredda ma radiosa. Uscita dalla monumentale stazione ferroviaria di Porta Nuova, mi trovai immersa in una folla di persone che camminava in modo deciso, o a destra o a sinistra. Grappoli interi di individui con borse a tracolla o mano sembravano seguire direzioni loro ben note. Nessuno esitava. Era un giorno lavorativo e alle ore dieci del mattino il flusso era costante. E nessuno aveva l'aria del turista. Mi scorreva sotto agli occhi la frenesia di una città di un milione di abitanti. E multietnica. Feci cenno ad un taxi e mi trovai in pochi minuti davanti ad uno storico grand hotel - in via Carlo Alberto - noto per il fatto che in tempi d'oro vi si incontrava la Juventus con tutti i dirigenti. Passata all'impeccabile reception, mi inoltrai nel salone di ingresso, arredato di alte fioriere arricchite da fiori freschi ed olezzanti. Nella sala di lettura, sopra al caminetto, troneggiava un ritratto imponente di Vittorio Emanuele II, sempre con i suoi baffi a manubrio e il naso rubizzo di chi non disdegna qualche buon gotto al momento giusto, cioè sempre.
Seguii il mio bagaglio ( portato da un inserviente) nella mia stanza, al quinto piano e appena entrata , con vera sorpresa, trovai ad attendermi uno schermo al quarzo acceso, appeso alla tappezzeria damascata, con su scritto BENVENUTA MARIA TERESA. Sorrisi.. qualcuno mi dava il benvenuto, a Torino! Mi attendeva un letto in ciliegio rosso, stile impero con dorature, ad una piazza e mezza, con soffice e gonfio piumone. Non esitai un attimo. Sfilato il cappotto mi ci buttai dentro e con il viso in mezzo alla cotonina respirai un tenero aroma di lavanda. Mi sentivo felice.
Secondo mia abitudine, visto che avevo deciso di non essere nessuno e di non avere alcuna occupazione, decisi di girovagare dove le gambe avessero preferito di andare. Credo molto alle mie gambe.
Così camminando senza meta e senza carta mi trovai vicinissima alla Mole Antonelliana. Non so se fui io a trovare lei o lei a trovare me. È raro provare un tale impatto con un edificio curioso quanto la Mole, dalla pianta quadrata e dalla cupola che s'accumina con un potente spillone. Nata come sinagoga, ora è adibita a Museo del Cinema e devo dire che è un gran colpo d'occhio. Internamente è stata oggetto di un audace e avanguardistico restauro. Mi incuriosì moltissimo un bar in penombra dai ricchi tendaggi in voile e luci verdi, con tavolini in plexiglas. Sotto ogni superficie dei tavoli, scorre la pellicola di un film famoso. Vale a dire che uno si siede, beve un caffè e appoggia la tazza su Cary Grant in "Arsenico e Vecchi Merletti" , oppure su Marilyn Monroe sculettante in " A qualcuno piace caldo ". Optai per una cioccolata e mi gustai un bel pezzo di " Testimone d'Accusa " con Tyrone Power, nel massimo della sua bellezza virile.
Con sprezzo del freddo mi decisi a salire fino in cima alla Mole. Tirava un vento gelido con un sibilo costante attorno alle reti di protezione. Da lassù si ammira la corona delle Alpi, a perdita d'occhio, imbiancate di neve. Sembravano grossi denti molari aguzzi attorno a Torino, come se la città fosse adagiata nella bocca spalancata di un enorme orco.
Guardando sotto di me l'estensione della città, compatta e chiusa nella miriade di tetti, pensavo che di certo un dominatore assoluto di Torino poteva avere il suo trono soltanto incastonato sulla Mole.
La sera mi venne fame, avevo camminato tutto il giorno sotto i portici di via Po e via Roma, fino a piazza Castello. M'ero intrattenuta nelle belle librerie che s'aprono là sotto, e nei negozi di antiquario profumati di cere, arredati con eleganti boiserie. Avevo provato l'aristocratico piacere di infilarmi nei tradizionali locali salottieri, famosi per la cioccolata calda, accomodandomi su certe poltroncine barocche, ed origliare le chiacchiere di qualche vecchia dama torinese.
Non avevo nulla da fare se non riempirmi gli occhi e curiosare.
Non avevo con me molto danaro, però alla sera, arrivata nella bella e maestosa piazza San Carlo, con il monumento equestre ( el caval d'brons) che sembra turbinare Emanuele Filiberto in mezzo alla tramontana - tutta illuminata ai quattro lati, quasi un enorme salone per una festa a corte - , decisi di entrare tutta sola, in un noto ristorante torinese, il Caffè Torino, citato anche nelle guide, per l'arredo d'epoca che fece da scenario a molti film italiani. Da fuori diedi un colpo d'occhio al menu i cui prezzi mi sembrarono non proprio contenuti, ma abbordabili. Bastava scegliere o un primo o un secondo.
Entrai sola come ero. Uno sfavillìo di luce e di cristalli mi accolse. La sera fuori cominciava ad essere pungente.
Mi chiesi subito se sotto al cappotto indossassi un abito adeguato. Mi ricordai che portavo una maglia di lana nera, scollata appena, con una piccola perla vera al collo. Bene, potevo allora accomodarmi. Un gentile cameriere nella sua divisa di servizio mi indicò con un sussurro un tavolo libero, guarnito con una tovaglia bianca di fiandra. Ah.. la fiandra... ricordai immediatamente in quel cotone lavorato le tovaglie di dote di mia madre.
Davanti a me, ben distanziata, una coppia innamorata arrivata già al dessert. Intingevano dei biscottini l'uno nella panna cotta dell'altra con aria sazia e sognante. Lei un poco grassotta, con una gran massa di capelli corvini, civettava. Sulla destra , invece, dei clienti americani. Ho pensato fossero dei professori per via delle classiche giacche in tweed con le toppe di camoscio ai gomiti. Parlavano sommessamente nel tipico borbottio inglese da conversazione riservata. Furono loro serviti piatti coperti con la campana in argentone.
Dopo una breve attesa, venni raggiunta al mio tavolo - un vero tavolo ampio apparecchiato di tutto punto - da ben due camerieri dal passo leggerissimo. Non li sentivo nemmeno arrivare alle mie spalle e di certo non osavo girarmi. Scelsi del vino rosso piemontese, un bicchiere. Poi andai cauta con il piatto: una tagliata di manzo in un lettino di ottimi carciofi affettati. Il piatto mi venne suggerito dal cameriere più giovane, che nel servirmi mi chiamò più volte " Madame". La prima volta pensavo ironizzasse, invece lo vedevo serissimo e compunto. Come spesso accade in questi locali dai commensali silenziosi, camerieri discreti e cucina 'chissà dove sarà ma c'è' , non manca la possibilità di farsi notare. A me caddero pesantemente le posate in argento sul parquet lucidissimo. Un fracasso indicibile mi segnalò ai presenti. I professori alzarono i loro menti aguzzi, i fidanzati sussultarono. Provai imbarazzo. Ma il cameriere arrivò veloce, : " Non si preoccupi". Raccolse le posate e me le cambiò seduta stante. Mi piace osservare le posate d'argento di questi locali. Penso sempre a quante mani le hanno sostenute e soppesate e in quante bocche si sono infilate. Alle impugnature d'argento esse sono sempre segnate da un reticolo di graffietti.
Dopo aver mangiato , mi gustai la vista del salone, gli specchi nelle loro cornici di zecchino, l'ornamento a stucco dei soffitti, la cascata dei luccicanti lampadari, le alzate di frutta in porcellana bianca, con ciuffi d'ananas al centro. Avevo cenato nel locale preferito da Umberto e Maria di Savoia, che vi andavano, usciti dalla loro reggia, dopo la passeggiata.
Conclusi la cena come consigliatomi dal giovane cameriere: mi appagai di una bavarese spumosissima con un bicchiere di vino bianco da dessert freschissimo. Ottimo, ma lo trovai inferiore al nostro Ramandolo friulano.
Me ne uscii dopo aver pagato un conto più che onesto, inseguita dall'ultimo Madame del cameriere che mi ringraziava per la mancia, facendo un impercettibile inchino. Feci tempo a sapere dal medesimo che egli non era mai stato a Venezia, in vita sua.
La piazza mi inghiottì nel gioco di ombre allungate dalla sua fantastica luminaria corrente lungo tutti i portici. Bello il colpo secco dei miei tacchi, la mia camminata solitaria verso l'albergo. Lo stesso suono che faccio per le calli, sul far della sera.
Torino disvela con raffinata pacatezza immagini e prospettive Una, imprescindibile e misteriosa, è l'immergersi in quel tuffo di mistero irrisolto che è il mondo egizio. È una visita molto impegnativa quella che attende il visitatore, quando varca la soglia del Museo Egizio. Già nel salone a pianoterra, detto Lo Statuario, strutturato come una immensa scenografia teatrale tutta in marmo nero e rosa, illuminato da fari strategici, ci si incontra, noi piccoli umani moderni, con la grandiosità delle statue regali e divine, in basanite nera o in granito rosa. Indimenticabile, per me, il sorriso enigmatico e perfetto di Ramses II, con in capo la corona blu e lo scettro heqa fermo in pugno e contro il petto. Ai piani superiori ci si sposta di colpo dalla concezione della Vita a quella della Morte. La civiltà egizia appare come ossessionata dall'incombenza della Morte e dal timore del " passaggio " all'al di là. Si viene immersi nel culto dei morti che si prepara e sfila, sala dopo sala, in una raccolta infinita di materiale funeraio, che va dalle prime mummie fino alla tomba completa dell'architetto Kha e della moglie, arredata con tutta la dote delle lenzuola in lino, delle parrucche fatte con capelli veri e degli abiti e calzari del defunto. C'è persino una cassa in ebano con tutti gli strumenti da architetto egizio!
Per questi lontani antenati si trattava di affrontare la Morte come fosse una lunga esistenza, con le stesse prerogative di un viaggio. Il morto doveva portare con sé tutto quanto gli fosse necessario per trovarsi uno spazio degno nel mondo delle tenebre.
E mi attendeva un'altra giornata. La mattina, appena riscaldata da un sole alpino, mi trovai nel cuore di piazza Castello, entrata, a mia insaputa, in un clima anni settanta. Si festeggiava l'otto marzo , festa della donna. Credo non aver mai visto tante persone tutte così assiepate e festose. Benchè soffiasse un vento aguzzo, la gente stava affaccendata in numerosi capannelli, dai quali si alzavano fluttuanti palloncini colorati in varie forme. I bambini non si scorgevano in mezzo alla ressa, ma i loro palloncini sembravano segnalarli.
Molti i musicisti da strada, che suonavano motivi contrastanti, destinati ad inseguirsi nelle folate di vento. Non mancava chi teneva comizi sulla situazione occupazionale della Fiat, dall'alto di un palco contornato da bandiere rosse svettanti come fiamme; più oltre, verso il duomo, un complesso musicale di sole donne, ragazze tutte con i capelli tinti rosso fucsia, intonava ancora le solite canzoni sulle mondine; più avanti, ecco il gracchiare di un megafono che invitava a sottoscrivere le proposte di un comitato per i diritti dei carcerati. Ancora bancarelle con libri in vendita che il vento ripassava con mano dispettosa, facendo girare di colpo decine di pagine e sbatacchiando le tende parasole.
Nei pressi del castello, così contrastante tra la facciata aerea di palazzo Madama e il corpo di fabbrica scuro e annerito, si esibiva un gruppo di giocolieri. Alcuni con i volti tinti di verde mela, stavano in bilico su trampoli ed altri, abilissimi, manovravano torce di fuoco sempre vivo. In tutto questo agitarsi intravidi una comitiva di gitanti in bicicletta, non meno di cinquanta persone, arrivare in fila scampanellando, girare tutt'attorno al nero castello e fuggire via, presi da una loro strana corrente.
Mi sedetti sopraffatta da tanta vivacità. Osservavo tutto quel movimento attorno a me. Pensai a certe feste medioevali dove da innumerevoli villaggi arrivavano sino al castello gli abitanti e si riunivano tra giochi, cavalli e mercati. Non c'era nulla di diverso nella scena che mi si svolgeva davanti. La gente vive, vuole ritrovarsi, divertirsi e affaticarsi nella gioia. Tutto come un tempo antico.
La mattina della partenza da Torino, uscii dall'albergo molto presto, tirandomi appresso il piccolo troller. Faceva freddo e le strade apparivano umide di una guazza notturna. Sono strade senza sole per molte ore, le strade di Torino. L'incombente e compatta ombra dei palazzi umbertini le serra alla vista del sole.
Girovagando entrai in una modesta chiesa, il cui portone mi apparve subito dopo un negozio di panettiere dal quale usciva un corroborante odore di pane fresco. Assistetti alla Messa. Anche questa è una mia abitudine: mi piace andare alla Messa in città che non conosco. Forse cerco quel Dio che parla agli uomini ovunque e nella medesima lingua.
Uscita mi diressi verso Piazza Vittorio Veneto e mi imbattei in un bar dai colori accesi. Era arredato in maniera futurista, a tinte elettriche, tutto acciaio e fòrmica.
All'interno non c 'era alcun avventore, solo un ragazzo al bancone intento ad asciugare bicchieri, mentre la musica di una radio locale andava a tutto volume.
Chiesi un caffè e mi sedetti ad un tavolino dove stava aperta La Stampa, copia fresca del giorno. Iniziai a leggere la cronaca cittadina, come fossi una torinese. Ero a Torino, una mattina di marzo, strade vuote, tutti al lavoro. Io leggevo La Stampa e leggerla proprio là, a Torino, mi parve di colpo un fatto straordinario, la giusta conclusione di un'abitudine iniziata decenni prima, da bambina.
Così trassi dalla borsetta un blocco di carta e cominciai a scrivere. Dove mi trovavo, chi ero, cosa avevo visto. Ne venne fuori una lunga lettera a Torino, parlando della sua bellezza e delle mie emozioni. Conservo tutt'ora questi fogli e credo si tratti di una delle lettere più appassionate che io abbia mai scritto.
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1 recensioni:
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- Oltre che per dilettarsi del bel scrivere, leggere la Morry fa bene. Inchioda già dalle prime frasi e ti rende così partecipe che non puoi fare a meno di leggerla fino in fondo. Quando mai mi sarebbe passato per la mente di dedicare qualche rigo a Torino, della quale non ricordo altro che il freddo cane patito! Lei lo fa e ci va perfino in marzo e si siede a leggere la pudibonda "La Stampa"! Con un'elegante l'esposizione, filma il suo arrivo: la ressa di persone, delle quali "nessuno aveva l'aria del turista"; il ritratto imponente di Vittorio Emanuele II che fa bella mostra di se nel noto grand hotel di via Carlo Alberto, ma molto più noto perché vi s'incontrava la Juventus, avvenimento certamente più importante del primo re d'Italia, per giunta il re galantuomo! Si fa poi aiutare dal suo essere donna per descriverci la camera e non le manca un punto di vanità quando scrive a stampatello quel BENVENUTA MARIA TERESA! Non per niente si sentiva felice!
Chi -crede alle sue gambe- non si riposa, esce subito e -con sprezzo del freddo e del vento gelido- sale fino in cima alla Mole Antonelliana. Garbata e carezzevole ci partecipa il suo "aristocratico piacere" di curiosare tra il fascino dei "locali salottieri", ma non può dimenticare che ormai, anche se sola, è in compagnia della fame. Si fa attrarre dallo sfavillio dei cristalli del Caffè Torino e la sua grazia femminile vacilla quando deve togliersi il cappotto: si domanda se sarà abbastanza elegante per quest'ambiente, ma sa di esserlo; certamente più della coppia di americani e di quell'innamorata grassottella; se ne convince quando si sentirà chiamata più volte "Madame"! Certo, quel locale preferito da Umberto e Maria di Savoia la emozionava e a tal punto da farsi scivolare dalle mani le posate d'argento; sarà stato perché era troppo intenta a notare il loro reticolo di graffietti? Questi e tantissimi altri sono i dettagli che fanno leggere con gran piacere Maria Teresa Morry.
Se "Torino disvela con raffinata pacatezza immagini e prospettive", la raffinatezza della Morry non manca di tratteggiare tutto il museo egizio e la festa della donna. Non manca neanche il suo pensiero sul prossimo in festa: "La gente vive, vuole ritrovarsi, divertirsi e affaticarsi nella gioia." Si noti l'-affaticarsi nella gioia-; è indubbio che anche lei si sentiva stanca per quella full immersion fatta in breve tempo in una città tanto grande e tanto pregna di storia.
Gradevolissima è anche la conclusione del racconto. Nonostante il freddo e le strade senza sole, trova anche il tempo di andare a messa e di prendere un caffè. Il ritrovare il quotidiano tanto amato dal padre, così valutato all'inizio di questa narrazione, che la porta indietro nella sua infanzia, è un cesello, e un tocco magistrale è anche il rivelarci che questo racconto è stato iniziato proprio in quel bar, abbozzato su un blocco di carta tratto dalla borsetta.
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