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La Spiga Incolta
PREFAZIONE DELL'AUTORE
Alcune precisazioni veloci. Essendo questo un insieme di ricordi di un uomo, il narratore( cioè io) ricorre a un uso che vi potrà sembrare esagerato di aggettivi: ma ciò è necessario, perchè aiuta il protagonista che ha vissuto una lunga vita a riportare alla mente i propri ricordi d'un tempo. Lo stile è leggermente diverso, credo sia un un nuovo esperimento, e spero lo apprezziate. Buona lettura.
Ricordo molto bene le terre in cui sono nato.
Ricordo le loro fattezze, gli arbusti e i fiori che le adornavano, gli odori che ne alternavano i giorni, le sorgenti limpide che inebriavano gli assetati, le distese dei papaveri che adombravano di rosso il cielo e addormentavano gli inquieti.
Ricordo soprattutto il mio piccolo paesello, che si allungava a settentrione al di là dei vetusti colli e di esso le stradine sconnesse, le osterie consunte, le case annerite, i mercati stracolmi di ogni bene, la piazza oblunga con la statua bronzea dell’indefesso lavoratore che dall’alto della sua monumentale austerità correggeva i paesani.
E ho in mente i compaesani, le loro facce impolverate, i contadini grevi ed accasciati, delle donne il pancione prominente, i bottegai stanchi, le commari affaccendate e i pargoli scalpitanti, colonna sonora più bella del mio piccolo, eterno paesello.
La mia casetta sorgeva in tutta la sua semplicità sulla congiuntura nord che si affacciava sulla piazza.
Di essa sono memore delle persiane scrostate e dell’umile facciata annerita dai primi smog delle nasciture automobili, e le scale dissestate che conducevano al salottino asciutto con annessa la cucina e l’adiacente camera da letto con il gabinetto e il necessario per l’igiene primario.
Mi ricordo il saggio tanfo della poltrona verde, l’unica tra l’altro che troneggiava nel salotto, che mi coccolava negli inverni più freddi, con l’ausilio della stufa in ghisa, regalatami anni prima che ivi mi trasferissi, da una contrabbandiere mio vecchio amico.
In quella casa nacque, per così dire, un trastullo momentaneo, un’idea balenatami in una calda notte estiva quando le cicale morivano in campagna bollite dal luglino sole e la piazza gemeva di accaldati.
In questi angusti spazi, imperlato di sudore verecondio, cominciai a battere su carta le prime righe d’un trastullo estivo.
Ne nacque un libricino.
Quando ebbi superato là metà, fuori, le foglie grigie tappetavano le ghiaie, gli alberi morivano al sussurro del grigio cielo e con i loro aguzzi arti fendevano il mio cuore.
All’epilogo, una tramontana ghiaccia abbracciò con sadica tempra quelle mie adorate casupole paesane.
Lo terminai in un dì dicembrino, ora che la neve offuscava pronta i miei pensieri, l’odor delle castagne cotte i miei sensi.
Da un trastullo caldo estivo ne nacque un romanzetto, un insieme di fogli uniti per il bene mio;
e anche se son tempi magri e il pane manca sul mio tavolincino, qualora il romanzetto non faccia un soldo, mi accontento del companatico.
Il mio romanzuccio lo proposi a un editore, un grifone impalettato, co’ baffi puntuti e un sorriso sdrucciolo, un bontempone, che pigliava i libri dei geni e con furbizia ben pagata li regalava alle vetrine natalizie.
Si infilò gli occhiali che dapprima giacevano sul pancione e mi disse “ che avrebbe scrutato quell’opera di fogli gialli e mi avrebbe fatto sapere per recapito”.
Passò così l’inverno, col ghirlandoso Natale che regalò caldi giorni al paesello, nei quali le famiglie cantavano attorno ai pioppi in festa e i preti erano immersi nelle loro apocalittiche omelie, sermoni d’Anticristi e di disgrazie, uniti alla gioia Natalizia, all’insegna del perdono d’ogni giorno.
Finite le feste, vidi la neve addormentarsi sciolta sotto i tombini di confluizione, i bottegai stanchi staccare i festoni e riporli in ampi scatoloni.
Fu una mattina di quel gennaio assonnato, che trovai il mio amico Eno.
Mi infilai il pastrano nero e complice della tramontana, mi inoltrai per l’adiacente via, che si connette ai parchi verdi.
Incontrai per la prima volta in vita mia una cane il quale mi fissava a lungo.
Rimanemmo incantati per alcuni istanti, guardato in modo strano dal panettiere nel suo farinoso andirivieni per le merci di bottega, e poi mi feci avanti, fui attratto da quegli occhi seppia.
Molto lentamente mi abbassai alla sua altezza e lo accarezzai scorrendo la mano sul bel pelo ghiacciato.
Mi leccò la mano.
E lo abbracciai.
Non potendo quello abbracciarmi con le zampe, che ramificavano per terra,
il suo fu un abbraccio che lega il cuore, che suggella l’anima e ti scalda dentro.
Mi scostai un poco e mi vidi specchiato nei suoi due occhi così belli, che riflettevano in due sole sfere la tristezza e la gioia così occulta di quel grigio mondo incompreso.
Da quel giorno non mi separai più del cane, egli mi seguiva sempre: divenne la mia ombra, il mio segugio, la mia anima.
Fu Eno, per sempre.
Ancor’ oggi mi ricordo il suo calore, le sue orecchie così generose, mi ricordo le coccole, i giochi; Eno fu il mio unico amico che condivise con me quella angusta casa.
In seguito comperai delle assi di legno, dei chiodi, della colla superattaccante e mi misi di impegno, mentre tutt’intorno a me l’inverno andava scemando ed Eno odeva l’arrivo dei cardellini montanari per il fresco aprile.
Costruii con questi mezzi di fortuna una cuccia di medie dimensioni, un abitacolo tutto per Eno, reggia dei dispersi.
La collocai tra il salotto e la cucina e la mostrai felice ad Eno, che quando la vide ruzzò, saltò, dimenò per la gioia e mi leccò la guancia:
fu il primo, unico vero grazie che io abbia ricevuto in questa vita adorna di memorie.
La primavera invase coi lapazi e gli scopi il mio paesello, colorò i vetusti colli e regalò lillà ai nuovi prati della stagione.
Dipinse il cielo di un azzurro ghiacciato e con un pennello molto luminoso, il sole spavaldo.
Eno rimbalzava tra il salotto e la cuccia quando arrivò una letterina, di quell’editore grifone che le nebbie stagionali m’avevano fatto dimenticare.
La lettera non diceva molto.
Mi ingiungeva a “ presentarmi al più presto all’ufficio dell’editore per un colloquio regolare.”
Il mattino dopo partii con Eno verso l’ufficio, assicurandoli una ciotola di crocche qualora si fosse comportato bene.
L’editore ci fece accomodare, anche se lanciando occhiate preoccupate al cane, possibile minaccia del suo parquet bizantino.
Gli assicurai ogni cosa e ci sedemmo comodi, dopodichè l’editore poggiò sul tavolo il mio romanzetto, e lisciatosi i baffi cominciò pacato:
- Ho letto con immenso piacere il romanzo.
Vede, per la scorrevolezza e la dinamicità con cui è stato scritto, penso proprio che la protagonista, la bella……………….-
Ma qui, nel bel mezzo del suo discorso mi venne da interromperlo per dire:
- Ehi! Ma nel mio libro il personaggio principale non è una donna, bensì due fratelli!!..-
Ma rimasi zitto e lo lasciai finire.
-…………………. Interessantissima la parte in cui parla del contesto storico travagliato unito con bravura ricercata a un complesso intreccio…………..-
Ma non era questo di cui avevo parlato nel libro!
Mi venne voglia, così sue due piedi, di alzarmi e di gridare:
- Ma! Che libro ha letto?-
Ma lasciai finire quello spassionato commento frutto di notti insonni ed ebbri pomeriggi e alla fine arrivai alla conclusione che quel cervellone dell’editore non aveva letto il libro, o più semplicemente non l’aveva proprio capito.
L’ editore finì la sua recensione del tutto allegorica con un sorriso goffo, impacciato, che puzzava di pentimento professionale per le proposizioni sparate al vento e con i baffi che tremavano temendo che da un momento all’altro mi fossi alzato e avessi preso l’uscio.
Tuttavia firmai il contratto dalle mille e una clausola che faceva del mio ammasso informe di fogli gialli un libro vero e proprio in meno di un mese.
Uscii raggiante con Eno che ebbe, da patti stipulati, la sua lauta ricompensa.
Il libro uscì però con poco ritardo, due mesi dopo, con l’estate che cominciava a scaldare le mattonelle del paese, e tempestò prontamente le vetrine del mio paesello.
L’editore m’aveva risparmiato ogni fatica inviandomi a casa ben sette copie del libro;
a me ne bastava uno, parenti o altri amici a cui regalarle non ne avevo, ed Eno, ahimè, non sapeva leggere.
In paese, per passaparola e losche ciance delle commari, il libro ebbe un discreto successo, fece il giro degli abitanti e mi fece intascare quei quattrini da tanto agognati.
Con gli incassi, e la promettente seconda ristampa ( con l’editor grifone che fibrillava più che mai e i cui baffi fremevano ora di gioia), rifeci per così dire la casa, o quantomeno la abbellii.
Inverniciai quel muro denso e nigro, ogni stanza ebbe un colore, un panneggio, un’anima.
Ripiastrellai il bagno, la cucina brillò di nuovi fornelli e di un forno funzionante, la cuccia sconquassata di Eno divenne un piccolo monolocale indipendente e lo stesso fido ebbe una medaglietta d’oro che recava il suo nome per inciso.
L’estate arrivò del tutto, ma non mi trovò impreparato, poiché in salotto troneggiava fiero il nuovo ventilatore comperato con gli ultimi spiccioli di quel trastullo estivo.
Con Eno quelle mattine le passavo in centro;
perlopiù al sollazzo, sfidandoci ora per le vie deserte in mirabolanti gare, facendo ora una capatina ai mercati generali, meta ambita del mio Eno, che si gustava quelle salsicce così penzolanti, che se avessero potuto parlare ne avrebbero raccontate di belle!
E fu proprio in una di quelle mattine che mi innamorai per la prima volta in vita mia d’ una chioma bionda e di due occhi turchini.
Eno si accorse prima di me, furbo com’era, della mia cotta per la fruttivendola di piazza e quando passavamo per di là ammiccava come farebbe un buon amico in un covo di donne.
Il suo frenetico scodinzolare, spia manifesta della bella fruttaia, anticipava di gran lunga il mio batticuore, che subito dopo si impossessava di me.
Per settimane mi limitai a scrutarla, mentre riponeva con raro zelo i limoni nelle cassette di legno e sceglieva le migliori fragole o separava i lamponi freschi dai tardi kiwi.
L’imponente sole estivo coi suoi raggi non risparmiava essere:
scorreva sui capelli della bella in un brillio d’oro che gareggiava con i freschi limoni a chi fosse il più splendente.
Una mattina d’agosto, sollecitato dalle codate di Eno e dalle sue ammiccature così umane, mi decisi di farmi avanti comprando una mela.
Mi trovai dunque di fronte a quella sorgente innata di bellezza, un trasecolo millenario che sussurra al cuore e la mente lieve t’addolcisce.
Eno si sedette educatissimo, in contemplazione anch’esso, quasi ne fosse ammaliato, ma lasciandomi avanti come unico, legittimo pretendente.
-Ehm…. Signorina…Buongiorno..-
Fu il timido prologo della nostra prima conversazione.
- Buongiorno a lei, signore…Desidera?-
E lì brillò il suo sorriso, specchio d’anime e chimera sibillina, che rimarrà impresso nella mia memoria finche l’Eterno Morfeo mi condurrà da Caron dimonio dagli occhi di bragia.
- Desideravo….. una mela..-
- Una sola?- chiese lei di rimando, accigliata e con ghigno ironico.
- S-sì….- non riuscii a dire altro.
Pagai e con un Eno deluso a causa del mio blando corteggiare, tornai a casa, triste e sconsolato.
Ma non mi arresi.
Con Eno ogni mattina di quel febbricitante agosto mi presentavo al banco della bellissima per comprare ora 2 mele, poi 3, poi 10, poi 15, poi 20, così fino al chilo.
Posso dire, e lo ricordo bene, che alla fine dell’estate io e la fruttivendola eravamo diventati amici, io non ero quindi impacciato a parlarle e persino il buon vecchio Eno, che cominciava ad avere i suoi anni, le era diventato amico.
I primi di settembre, non so con qual biblico coraggio, le proposi tutto d’un fiato “ una passeggiatina serale al paese, prima che l’autunno si portasse via l’ebrezza estiva”.
Accettò sorridente.
Trascorsi il resto del giorno, impegnato Eno con una tripla porzione di crocche, a prepararmi per l’incontro, con il cuore in subbuglio, i sensi vagabondi e sguardi critici allo specchio.
E arrivò la sera di quel mio primo appuntamento.
Fui costretto a pregare Eno cherestasse in casa, promettendogli tutta una saccata extra di crocche, e sebbene i suoi occhi fossero lievemente velati, mi lasciò andare, e per la prima volta dopo tanto tempo mi ritrovai nella viuzza del paesello senza il mio fedele Eno.
Al punto di ritrovo mi esibii in un modesto inchino e le baciai la mano.
Non potei fare a meno di non notare la sua magnifica bellezza, una pelle liscia fior di pesco, la chioma bionda lisciata dalla luna, ed un sorriso che illuminava quella fresca notte.
Parlammo a lungo su di noi, della vita spenta al paesello, di frutta, di romanzi, di spettacoli e di statue, passeggiando per tutto il paese e finendo con l’arrivare al promontorio che si affacciava sulla umile campagna preludio dei monti.
Parlammo ancora e tanto più, fino a che lei fu stanca, le parole venner meno e ci fu quel bacio eterno, il più lungo, primo ed ultimo in tutta la mia vita.
In quell’intensità che parve durare ore ed ore, fui talmente felice, che mi vien ardua dirla su queste righe memoriali.
Dopodichè ci lasciammo a notte fonda, io rincasai lieto, Eno era ancora di vedetta sul balcone e sottolineò la mia felicità prontamente intuita con un silenzioso abbaiare, un gemito felice che solo i cani sanno fare.
Con una festa in cuore, la mattina successiva mi presentai ai mercati, ma il bancone della frutta non c’era e fu un colpo al cuore, un libeccio afoso che smosse il mio mare e lo rese ondoso.
La bella non c’era e io rimasi là impalato con Eno intento a divorare una salsiccia trafugata.
Ella era scomparsa portandosi via la felicità dal mio cuore.
Fu un fulmine, una tempesta, un naufragio.
Dopo un errabondo vagare per il paese, tornammo a casa e mi sedetti sconfortato sulla poltrona con Eno in collo, a coccolare e ad amare l’unica cosa bella che mi rimaneva in quel silenzioso mondo.
Arrivò l’autunno e i cardellini montanari se ne andarono via, il paesello cominciava ad essere triste e spento per l’inverno, gli alberi morti.
Più volte, con un flebile barlume di speranza, feci ritorno al mercato senza però trovare la bellissima donna di cui mi ero innamorato.
Uscì pure, in ritardo coi tempi, la seconda ristampa del mio libro, adesso in vendita in altre cinque regioni.
L’editore grifone, ora accaldato e più grosso, mi aveva pregato di scrivere un altro romanzo,
“ che avrebbe consacrato il mio successo”, e il prestigio della casa editrice, ma questo lo aggiungo io, perché si pensi bene di quel cervellone.
Così ho cominciato a scrivere queste memorie, in cui si parla inevitabilmente male anche dell’editore, ma tanto lui non ci arriverebbe mai.
Eno mi guardava impensierito mentre battevo come un forsennato, o poi con dolcezza inaudita, su carta i miei ricordi.
Per distrarlo o comunque per non lasciarlo solo,
gli lanciavo una pallina, gli davo una crocca o una salsiccia.
Fu dopo Natale che Eno si ammalò.
Fu una bronchite secca, il veterinario mi prescrisse i farmaci, mi raccomandò le precauzioni.
Limitammo le uscite, a causa del freddo pungente che certo non giovava alla sua malattia.
Lo coccolavo più che mai, me lo stringevo con affetto al petto, lo accarezzavo di continuo e gli preparavo io stesso brodini caldi di pollo e cibi speciali solo per lui.
Ma si aggravò, si fece stanco e pesante.
Il veterinario, triste e addolorato, dopo un’interminabile visita mi disse che non c’era più niente da fare, e che poche ore ancora rimanevano al mio Eno agonizzante per quella bronchite secca.
Non trovai più la forza per respirare.
Quelle lacrime che sarebbero state necessarie, non ci furono ed ingrossavano il mio dolore.
Eno era in una sorta di catalessi sul divano, coperto da miei vari indumenti, quando gli presi la zampa e la accostai al calduccio del mio cuore.
Poi lo accarezzai, lo abbracciai.
E girò il mio grande amico la sua testa giocosa d’un tempo verso di me e in quell’ultimo, tenerissimo sguardo, c’era il suo eterno grazie e una gioia che fa piangere il cuore.
Eno se ne andò, per sempre.
Furon giorni di dolore e di angoscia, un pianto interno, uno strazio profondo, e dopo un triste viavai tra comune ed avvocati, ottenni che il mio vecchio amico fosse seppellito al cimitero comunale, in una piccola tomba decorosa, con tanto di lapide ed epigrafe, in mezzo a tutti gli altri uomini, perché Eno era stato il più umano che avessi mai conosciuto.
Con una rosa, sinuosa e leggiadra, mi trascinai cianotico al cimitero per rendere il mio ultimo saluto a Eno, mentre imperversava un temporale assai violento, un lavacro d’anime.
Mi buttai sulla sua tomba con tutto me stesso, come un naufrago sull’ultimo scoglio in un burrascoso mare, afflitto dalla pioggia e dal dolore, da quelli notti insonni a ricordarlo.
Poggiai la rosa sulla lucente lapide e vidi ai cancelli del cimitero la bella fruttaia di cui m’ero innamorato, anche lei addolorata, ma se ne restava ferma e complice al cancello, in lontananza.
Un uomo quando soffre, è solo.
In un pianto doloroso lessi in silenzio l’epigrafe da me edita, e piansi ancora:
“ Ed è un lamento
un sospiro di tenebra
che gela il cuore
annebbia l’anima
e siam poi insieme
e poi tristi
perduti
a te in perpetuo, mio amico
a Te
solo sole della terra
al mio Eno, e sia.”
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