Sospirai, assorta nei pensieri che solo una giornata di pioggia, uggiosa e tedia, trascorsa a casa da sola può suscitare.
Sul divanetto sotto la finestra, il mio sguardo vagò per il giardino trafitto da lance che scendevano crudeli dal cielo capriccioso.
"E così" cominciai come in un dialogo tra me e me " eccomi qui, vent'anni di vita trascorsi a sfacchinare per realizzare quei sogni da ragazza cui tanto ambivo, per poi ritrovarmi spiazzata di fronte alla maestosità della natura e accorgersi di come quel tempo è stato totalmente inutile.
O, sogni impressi a fuoco nel mio cuore, perdonatemi per come vi ho brutalmente uccisi, seguendo solo la legge del mondo, la ferrea norma della convenienza stipulata dal rigurgito acido della vita, che ha più e più volte trapunto cuori inerti, un tempo colmi di speranze.
Mi ripromettevo di essere diversa, di uscire dal grigiore così come fa il primo timido fiore che rinasca dopo l'inverno. Egli sa che è destinato ad appassire, che nessuna mano gentile di giardiniere lo annaffierà o scaccerà da intorno a lui i parassiti assassini che bramano solo di divorare il suo esile stelo avvolto in un mantello di ghiaccio, eppure quegli ingenui fiori continuano a sbocciare, in una lotta contro la biologia, la botanica, la scienza in generale, non vinceranno mai la sfida col gelo, ma nascono per dar forza alla stessa terra di rinascere, sacrificano le loro vite per dimostrare che è possibile essere diversi.
Così io volevo essere, una rosa selvatica incurante dell'inverno, sprezzante di fronte alla morte e orgogliosa di fronte alla vita.
Invece cosa mi capitò allora?
Perché accettai di essere così sfruttata, spremuta dalla società?
Ora mi scopro tutte le mattine ad uscire di casa alle 7, vestita di tutto punto, con la valigetta in una mano e un caffè in cartone nell'altra per andare al lavoro.
Non sono più una persona, ma una squallida molecola d'acqua grigia trasportata dall'impetuosa corrente di una soffocante routine.
Lavoro come impresaria, molti sgranerebbero gli occhi se lo sapessero, ma io no... un tempo anche io ne andavo fiera, ma adesso non so più che pensare.
Forse non devo pensare, sono solo un robot telecomandato da qualcosa di troppo alto, invisibile ad occhio nudo.
Fatto sta però che guadagno tanti soldi, stando seduta al computer progettando edifici e controllando i bilanci dell'azienda. Mi faccio schifo. Sono diventata ciò che ho sempre odiato e accusato, quella gente che non ha anima o quantomeno non ha il tempo di cercarla, incastrata com'è tra il lavoro e le lezioni di pilates.
Il lavoro assorbe la maggior parte del mio tempo vitale, sia esso pubblico o privato, ed è proprio per questo che mi ritrovo a rimpiangere il passato.
Non ho più un'anima gemella con cui condividere tutto ciò che guadagno, che per me è troppo e mi ritrovo schiava del mio stesso denaro, sommersa di banconote, annegata in assegni in bianco, sepolta sotto cumuli di soldi; gli stessi, maledettissimi soldi che mi fecero litigare con l'amore della mia vita.
Ora lui mi odia e mi reputa una 'marionetta del sistema'. Di fatti è quello che sono, un burattino vestito da impresario i cui fili sono ora troppo intrecciati, nelle mani del burattinaio per tentare di divincolarsene...
Quei soldi, strumento inventato dall'uomo e che ormai lo ha ridotto in schiavitù, prendendo su di lui il sopravvento, ciò che mi è successo è analogo:
in me è morta quell'Irene figlia della ribellione".