username: password: dati dimenticati?   |   crea nuovo account

Una madre per sorella

Soltanto adesso, dopo la morte della donna che credevo essere mia madre, ho trovato il suo diario e, leggendolo, scopro invece che era mia nonna. Mia madre era Elsa, ossia la ragazza che agli amici presentavo come mia sorella. Il diario racconta di Elsa Wannover, mia madre, nata a Monaco di Baviera il 15 dicembre del 1911 da un insigne professore della Sorbona di Parigi e da un'insegnante di musica. Aveva vissuto la sua giovinezza studiando a Parigi e Berlino. Era bella e di un'intelligenza fuori dal comune. Dopo la laurea in medicina, lavorò per molto tempo come tirocinante in un ospedale di Berlino, dove nel 1934 - il diario dice - conobbe mio padre. Lui, del quale so soltanto il nome di battesimo - Ernest -, era nato a Londra nel 1909 ed era un medico ebreo che lavorava nello stesso reparto di mia madre. Dopo che per ordine del Terzo Reich gli ebrei furono interdetti dalla professione, si persero di vista, perché mio padre, braccato dalle SS, dovette fuggire in America, dove ignaro della mia nascita si rifece una vita. Intanto mia madre, terminato il tirocinio, rientrò in Francia, nella piccola città del sud dove i nonni si erano trasferiti e dove, dopo alcuni mesi dal suo rientro, nacqui io. Mia nonna - una donna dal carattere duro e autoritario - volendo nascondere a tutti la mia nascita, fece credere agli amici di famiglia che ero figlia di un'amica di Elsa che mi aveva affidata a lei in punto di morte e ordinò a mia madre di non svelare mai a nessuno, tanto meno a me, che ero sua figlia. Venni così adottata e riconosciuta dai Wannover come loro figlia. Mia nonna scelse anche il mio nome, perché - come scrive lei - quello scelto da mia madre non era degno dei Wannover. Mi chiamò Elisa Maria. Accadde così che Elsa, non potendo farmi da madre perché ostacolata dalla nonna, se ne andò a lavorare in un ospedale a Parigi dove ritrovò Ernest che, arrivato in Francia dopo la fine del conflitto mondiale con la moglie e il figlio di sette anni, lavorava nello stesso ospedale dove era stata assunta mia madre. Quando si rincontrarono, la loro passione mai sopita del tutto si riaccese e questo fece infuriare la nonna, quando un fine settimana Elsa, tornata a casa, le disse di averlo rivisto. La nonna, che dopo la morte del marito aveva preso le redini della famiglia - non che prima non fosse lei a comandare, ma il nonno almeno faceva da paciere tra lei e la mamma -, le vietò di tornare a casa, almeno finché non avesse lasciato perdere quell'uomo. Io, che all'epoca potevo avere dieci anni, ricordo ora rileggendo il diario che in quell'occasione litigarono furiosamente e che Elsa se ne andò dicendomi di comportarmi bene e di studiare. La rivedemmo soltanto quando Ernest, ormai diventato un celebre chirurgo, fu chiamato come docente in un'università americana. Elsa era di nuovo incinta e il padre era sempre lui. Quando venne a saperlo, la nonna si arrabbiò di nuovo moltissimo e questa volta fece ciò che - come dice nel diario - avrebbe già dovuto fare con me. Il giorno in cui mia madre partorì, d'accordo con la levatrice che l'aveva assistita, fece credere a Elsa che il bimbo, un maschio, era nato morto e lo diede in adozione ad una coppia senza figli che aveva contattato nei mesi precedenti il parto. Dopo aver compiuto questo gesto orribile ai danni di mia madre, scrisse alla moglie di Ernest in America (non riesco a capire come abbia trovato l'indirizzo, perché neppure Elsa, da quel che ho letto, sapeva dove Ernest abitasse), informandola che il marito aveva avuto due figli da mia madre. Una, la femmina, era viva e vegeta. Il maschio invece era morto alla nascita. Questo fece sì che il matrimonio già traballante di mio padre finisse definitivamente. Mia madre non si riprese mai dalla perdita del figlio creduto morto e non venne mai a sapere che il bambino, nato il 24 luglio del 1948, viveva a pochi chilometri da lei in una casa lussuosa e con dei genitori affettuosi, perché morì di tisi prima di compiere quarant'anni. Mio padre, dopo il divorzio, si diede all'alcolismo e fu cacciato dall'università. Morì tre anni dopo mia madre, solo come un cane - come scrive la nonna nel suo diario -, di cirrosi, in un vicolo di NewYork. E di me che dire. Adesso che ho finito di leggere questo diario, mi vergogno di mia nonna che teneva più al buon nome dei Wannover - una famiglia molto rispettata scrive lei, sia in Francia che in Germania - che alla felicità della sua unica figlia. Ora, per quel poco che ho potuto conoscere mia madre, per il profondo affetto fraterno che ho sempre provato per lei - visto che non sapevo fosse mia madre - e per il rispetto e l'amore che lei provava per mio padre, cercherò, nell'anno del mio trentesimo compleanno, di riunire quel che è rimasto della mia famiglia andando a Parigi, dove i genitori di mio fratello ora risiedono, pregandoli di far sì che lui sappia di avere una sorella su cui poter contare in qualunque momento della sua vita.

12

1
0 commenti     2 recensioni    

un altro testo di questo autore   un'altro testo casuale

2 recensioni:

  • Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
    Effettua il login o registrati
  • Stanislao Mounlisky il 10/03/2015 16:55
    buono spunto ideativo da sviluppare in un romanzo o in un film
  • Glauco Ballantini il 21/02/2015 07:59
    Un condensato di una vita in una pagina, di grande effetto. Solo avvenimenti in successione serrata. Essenziale.

0 commenti:


Licenza Creative Commons
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0