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Il cortile con gli incroci

Da tre anni consecutivi ormai accade che, pure qua, pure nel regno della frescura e delle piogge incessanti, sbarchi un sole extracomunitario, che porta con se un appiccicoso caldo, che si percepisce guardando l'aria che tremola salendo dall'asfalto bollente.
Sono praticamente in mutande su una molle sedia da giardino, incastrata tra il muro e la ringhiera del piccolo balcone di questa casa, che mi ostino di definire "provvisoria" ma che intanto mi ospita ormai da sette anni.
Ho una sigaretta accesa in mano e, come solo un incosciente viziato di tabacco come me può fare, aggiungo al soffoco dell'aria calda, quello del fumo che spedisco con impressionante masochistica dedizione giù per la gola sin dentro i polmoni, che sentitamente ringraziano.
Il cortile tra le case popolari è praticamente deserto.
Solo quattro ragazzotti appoggiati alle proprie moto sfidano la calura, confidando nella rachitica ombra donata loro dall'ancor più rachitico salice, che sta tra la fine del cortile e l'inizio della seconda delle cinque file di case di cui è costituito il rione.
Stanno lì, come in trance, con l'occhio paralizzato, ognuno a scrutare lo schermo del proprio cell, come se l'altro strano essere che sta li accanto non esistesse o... ancor peggio, come se dell'esistenza di quell'altro strano essere che sta li accanto non importasse minimamente
Capo leggermente reclinato, muti, faccia inespressiva... rigidi... pallidi... vuoti.
Almeno a me pare così.
Certo io sono abituato a rovistare nella mia memoria di ultracinquantenne e trovarvi cortili analoghi a questo, dove schiamazzavano decine e decine di ragazzi, tutti figli dell'età dell'oro italiano e del boom demografico, e dove il concetto di gioco solitario era legato unicamente a quello delle carte, che si praticava esclusivamente se venivi colto da qualche malattia infantile o da qualche strale materno che, comminandoti una punizione, ti condannava ad una temporanea solitudine, oppure associato a qualche pratica sessuale autonoma di cui, noi ragazzi degli anni sessanta si era, giocoforza, veri cultori.
Abbastanza chiaro quindi che io non possa comprendere e, conseguentemente, possa dare giudizi solo negativi, che trovano sostegno nella mia inadeguabilità a questo mondo profondamente mutato, ma se il progresso dell'umanità comprende quella roba lì, fatta di ragazzi ammalati di solitudine elettronica e intolleranza ai rapporti umani, mi viene da dire che non è poi un errore di pregiudizio aberrare la strada che la civiltà odierna sta intraprendendo.
Un velocipede improponibile spunta dal lato sinistro del fabbricato.
A bordo un piccolo troll bambino pedala come un forsennato, muovendo le gambette grassocce ad un ritmo pazzesco e che, nonostante l'impegno profuso, non riescono a imprimere alle minuscole ruote un numero di giri sufficiente a determinare una velocità commisurata all'energia sviluppata.
Il troll è una specie di orsacchiotto glabro, sprovvisto totalmente di collo.

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