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Mia madre

Mia madre era quasi analfabeta. Aveva fatto solo la terza elementare.
Mia nonna considerava la cultura un inutile fardello, specialmente per le donne.
Del resto non aveva fatto studiare nemmeno i figli maschi.
Forse non avevano, lei e il nonno, risorse economiche sufficienti per farli studiare tutti. E, così, non avevano voluto fare ingiustizie. Forse.
Con la sua scarsissima cultura, mia madre a vent'anni aveva trovato un posto di telefonista. La mia ferrea nonna glielo fece rifiutare. "Le donne non lavorano -disse - specialmente in posti pubblici. È come andare sul marciapiede".
Mia madre, che aveva un carattere dolce e docile, si rassegnò. Sposò mio padre che era buono e l'amava ma era un po' maschilista e non le lasciava grandi spazi. Ma quella donna fragile e docile, quando era sicura che una cosa fosse giusta, scopriva un lato ferreo del suo carattere che forse aveva ereditato dalla madre. Fu d'accordo con mio padre per farmi studiare, ma i loro obiettivi erano diversi.
Mio padre, che faceva il durissimo lavoro di macchinista delle Ferrovie dello Stato, voleva per me una condizione di vita diversa dalla sua. Sognava che diventassi una donna "di comando". Così diceva. Che cosa dovessi comandare non si capiva bene. Mia madre aveva un obiettivo molto concreto. "Studia - mi diceva - e poi trovati un lavoro. Creati un'indipendenza economica. Non dovrai chiedere a tuo marito un paio di calze. E se non vorrai sposarti, potrai provvedere a te stessa". Mio padre ha fatto molti sacrifici per farmi studiare, ma mia madre, che aveva il bellissimo nome di Elena, ne ha fatti molti di più. Quando mi assaliva l'agorafobia e non riuscivo a muovermi da casa, lei piantava tutto e mi accompagnava. Prima alle medie, poi al liceo e infine all'Università. Aspettava che finissi di ascoltare una lezione o concludessi un esame, seduta sotto la statua della Minerva, la dea della sapienza alla quale non aveva niente da invidiare: lei aveva la sapienza del cuore. Appena laureata mi offrirono un posto di insegnante in un Istituto privato di S. Benedetto del Tronto. Mio padre si oppose. Mia madre scoprì il lato ferreo del suo carattere e con un tono che non ammetteva repliche, disse: "Lasciala andare". Con la stessa fermezza volle che prendessi la patente di guida. Mio padre temeva che la mia fragilità psicologica mi facesse correre rischi.
Ha avuto ragione lei. Ho guidato per più di 30 anni senza incidenti di rilievo.
Durante la guerra eravamo sfollati in casa di una mia zia, dove c'era una certa abbondanza alimentare perché lo zio era gendarme in Vaticano.
Di tanto in tanto veniva a trovarci una parente poverissima. Quando non c'era la sorella, che non aveva la sua stessa sapienza del cuore, mia madre rubava di tutto: pane, carne, zucchero, uova e dava tutto alla sua parente. Una volta questa le disse: "Elenù, stai tranquilla. Ho detto al confessore quello che fai. Ha detto che non è peccato". Mia madre la guardò con un sorriso strano, come a dirle: "Quanto sei scema!" e disse: "Questo lo sapevo".
Quando mi sposai la vidi piangere come la classica fontana. Lei e mio padre venivano spesso a trovarci e si godevano i miei figli che spesso gli affidavo.

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2 commenti:

  • Franca Maria Bagnoli il 14/03/2006 23:50
    Grazie, Ivana. Un abbraccio. Franca.
  • IvaDiva il 14/03/2006 15:50
    secondo me hai un modo composto ed elegante di scrivere. anche questo racconto mi piace... ancora complimenti!

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