PREFAZIONE
L'autore in questo libro, immagina gli ultimi quindici minuti di vita del padre durante i quali, quest'ultimo, or-mai sessantaquattrenne, rivede come in un nastro la pro-pria vita, ricordandone i momenti salienti.
Ritornano alla sua memoria gli episodi vissuti e tra-scritti su di un diario, unico compagno nei momenti di so-litudine e tristezza.
Questi ricordi affondano le radici nell'infanzia vissuta drammaticamente per la perdita prematura del padre. Questa figura, pur assente, svolgerà un ruolo molto im-portante nel resto della sua esistenza, costellata pun-tualmente da esperienze drammatiche. Sperimenta la vita da orfano; costretto a vivere della pietà altrui, conosce la miseria umana passando da un orfanotrofio all'altro, fino a quando diciottenne conosce gli orrori della guerra.
Deportato ed internato nei campi nazisti, vede inper-sonificata la malvagità umana; è testimone degli orrori e dei crimini commessi contro l'umanità; vive in prima per-sona la condizione di schiavitù riservata ai prigionieri di guerra deportati in Germania.
Conosce la realtà dell'Italia anni trenta, una nazione povera e tecnologicamente arretrata rispetto al resto d'Europa, sprofondata, a seguito della seconda guerra mondiale, in una condizione di miseria sociale e civile. È in questa condizione che si sviluppa il suo cammino, sino a raggiungere momenti di tranquillità e benessere. In tut-to questo, però, non viene mai a mancare la speranza che, tra le tante vicissitudini, nutre e sostiene il protago-nista di questa vicenda.
Questi ricordi sono sospesi quando moribondo, nell'a-gone della morte, rivede soprattutto quel padre che aveva tanto desiderato, e parla con gli altri familiari defunti che gli preparano, in maniera indolore e quasi piacevole, il trapasso.
Michele MASTRAPASQUA
PREMESSA
Prima o poi arriva il momento della morte e dover en-trare di persona nel mistero della vita. La morte interessa e tocca tutti indistintamente.
Essa, per chi ha fede, non è un mistero, perché è vista come una porta che lo proietta verso la vita eterna. Infatti, anticamente era chiamata Dies natalis, il giorno della na-scita a vita nuova.
Tutto ciò è confermato dalle numerose testimonianze rese, in ogni tempo, da persone che, avendo vissuto una condizione di premorte, hanno narrato, le sensazioni pro-vate nello stato intermedio tra la vita e la morte. Queste esperienze, hanno in comune la positività e la gioia che procura la visione della vita futura, fugando così la paura che ogni essere umano ha della morte e dell'ignoto.
Salvatore MENNITTI
UN QUARTO ALLE NOVE
DIARIO DI UN GIOVANE FOGGIANO
L’orologio sul comò segna un quarto alle nove. Il ticchettio delle lancette risuona nella stanza da letto do-ve il tempo sembra essersi fermato e l’aria, divenuta pe-sante, quasi mi soffoca.
Scorgo mio figlio Giovanni, in un angolo della came-ra, appoggiato alla parete con gli occhi lucidi. Chissà da quanto tempo deve aver pianto.
Dietro di lui, più in là, quasi sulla soglia della porta, scorgo mia moglie Rina che piange, soffocando i sin-ghiozzi, distrutta dal dolore.
Stranamente ho la sensazione di essere diventato più leggero; il mio corpo, martoriato e livido, non sente più dolore, quel dolore che da mesi ormai era diventato un incubo per me, soprattutto durante le lunghe notti in-sonni passate, quasi ad attendere questo momento, e che non mi aveva abbandonato neanche per un istante.
Vedo e percepisco ogni movimento nella stanza in cui mi trovo. Ormai non ha più segreti per me, conosco o-gni piccolo graffio sul muro o l'impercettibile scalfittura sul pavimento, tanto a me è divenuta familiare.
Seduta, sul quarto superiore del cuscino, alla mia sinistra, rivedo mia madre, sorridente e premurosa, che mi conforta e mi da coraggio.
In piedi alla mia destra mio fratello Nicola. Anche lui nasconde il suo sorriso tra i folti baffi.
Non vedo mio padre Giovanni…è strano chissà per-ché non è venuto…eppure è morto da un pezzo anche lui! Non ho paura, la loro presenza mi sostiene e mi dà coraggio, sarei uno sciocco se non capissi che è arrivata la mia ora, e che tra pochi minuti lascerò questo mondo per andare verso uno migliore. Senz'altro sarà così, lo dicono tutti e poi ho fede in Dio e credo nell'aldilà, ne sono convinto.
L’unica cosa che mi rattrista è vedere i miei figli e l'adorata e fedele moglie soffrire per me. Vorrei tanto gridare a tutti “non piangete, sto bene, non sono mai stato così come adesso!” La certezza, che tra poco sarà tutto finito, mi solleva.
Nella mia esperienza, molte volte, ho assistito agli ultimi minuti di vita di amici o parenti, cercando sempre di penetrare nei loro pensieri, per cercare di capire cosa stessero provando in quei momenti. Ora sono incredulo nello scoprire, di persona sulla mia pelle, ciò che avrei voluto sapere allora.
Mia madre continua ad accarezzarmi, ed è come se la Sua dolce mano, scivolando ripetutamente sul mio capo, riavvolgesse il nastro della mia vita.
Mio padre Giovanni era vedovo con un figlio di nome Mario. Si risposò con mia madre, Lucia, nell’anno 1919 ed in nove anni di matrimonio ebbero cinque figli, di cui due maschi e tre femmine.
La prima fu Stella. Mio padre, volle chiamarla così, per ricordare la memoria di sua moglie.
Stella aveva un carattere simile a quello di mia madre, avara, semplice e molto graziosa. Era servizievole e tutto casa e famiglia.
La seconda sorella, Teresa, fu chiamata come la nonna materna.
Teresa aveva un carattere indomito ed impertinente, mai sottomessa, evitava di ascoltare i buoni consigli. Convolò a nozze all’età di quindici anni e per giunta con disonore. Il suo carattere nascondeva, comunque, un pre-gio non trascurabile: un cuore grande!
Dopo il secondo, venne il terzo figlio, quello fui io, Gabriele, era il 10 luglio 1923.
Rispettando la tradizione, mio padre volle ricordare, con il mio nome, il suo papà che morì in una tragedia, della quale però non ho delle precise notizie.
Quarto, fu mio fratello Nicola, così chiamato, in ricor-do del padre di mia madre.
Buono, sincero, sempre disponibile, capace di gesti generosi nei confronti degli amici e dei bisognosi in gene-re. Il suo limite era l’incostanza e la sua prodigalità. Que-sto fu il motivo per cui condusse una vita mediocre, e, pur avendo dalla sua la Dea fortuna, non ne approfittò, per cambiare in positivo la sua condizione di vita.
Somigliava, in maniera impressionante, a mio padre, sia fisicamente sia come carattere. Morì, relativamente giovane, di cirrosi epatica, avendo rifiutato, puntualmente il consiglio medico, dell'astenersi dal bere alcool. Ed ec-co, ora è qui vicino a me, avendo lasciato la vita terrena alcuni anni fa.
Ultima a venire al mondo fu Assuntina, la sorella più piccola. Assuntina, come carattere, era molto diversa da tutti noi, anche se sotto certi aspetti, il suo modo di pro-porsi alla gente somigliava un tantino al mio, poiché era abbastanza introversa, parlava poco, sempre chiusa in se stessa.
Intelligente e graziosa, propensa agli affari, soprattutto quando questi coincidevano positivamente con i suoi inte-ressi.
Per ciò che riguarda il mio carattere, ritengo che siano gli altri, dopo aver finito di leggere questo diario, a dover esprimere un giudizio in merito, ma mi rendo conto di non avere più il tempo di ascoltare ed eventualmente di-scutere il tutto.
Riferito da mia madre, io nacqui in una casa, prospi-ciente un cortile, in Via Dogali, al rione Caprai, chiamato ora, Rione San Michele..
Essendo il primo maschio, mio padre contentissimo, quel giorno non era nella sua pelle, volle celebrare la mia venuta al mondo, in famiglia con una festicciola danzan-te.
Fui registrato, all’ufficio anagrafe del comune di Fog-gia, due giorni dopo la mia nascita, cioè il 12 luglio del 1923.
Pochi giorni dopo fui battezzato e come testimoni si offrirono, mia zia la sorella di mia madre, e suo marito.
La mia vita fu subito in salita. Infatti, mia madre rac-contava che nel mio primo mese di vita, a causa di una non ben nota e precisata malattia alle viscere, rischiai se-riamente di morire, a tal punto che i miei genitori prepa-rarono il corredino funebre.
Su consiglio di una vecchia vicina di casa, mia madre, come ultimo e disperato tentativo, mi somministrò quoti-dianamente, per via orale, dei cucchiaini d'olio d'oliva.
Questa terapia risultò miracolosa, tanto che, dopo al-cune settimane, i miglioramenti furono così visibili, che tornai ad una completa guarigione.
Nella vecchia casa, al Rione Caprai, abitammo per po-co tempo, per trasferirci poi, nella zona ora chiamata del Carmine vecchio, e precisamente in vico Penne numero nove.
Mio padre era un brav'uomo, alto, robusto con un ca-rattere amabile ma incostante, dal quale poi Nicola ne e-rediterà le caratteristiche.
Gli amici lo etichettarono “U bellin” (il bello), per la gradevolezza del suo aspetto fisico ed anche perché, pare piacesse molto alle donne.
Sempre pronto ad aiutare il prossimo in difficoltà, non disdegnava di metter mano al portafogli, quando si tratta-va di aiutare gli amici in ristrettezze economiche, o sem-plicemente quando occorreva pagare da bere al bar. Per questa serie di motivi, era rispettato da tutti. Era vetturi-no, ed aveva un cavallo ed una carrozza di sua proprietà.
Nella nostra, umile casa, fatta di pietre cementate con calcestruzzo, si dormiva in nove, i miei genitori, sei fra-telli ed il cavallo. Già il cavallo!
Come poter dimenticare le calde estati foggiane, quan-do di notte in casa, per il caldo torrido, era difficile respi-rare.
In un monolocale di appena trenta metri quadri, il cui pavimento, all’apertura dei letti era letteralmente coperto, tanto che, per potersi recare al bagno, era necessario, su-perare con delle acrobazie particolari, tutti i letti ed i loro occupanti.
Come cancellare dalla mente le notti insonni, a causa dell’aria irrespirabile e quasi priva di ossigeno, i rimpro-veri di nostra madre, quando, come tutti i piccini, face-vamo la pipì a letto.
Giovanni Manerba
Non capivamo allora, perché il cavallo, per la stessa identica ragione, non era punito alla stessa maniera, ne-anche quando questo defecava sul pavimento di chianche di cava della nostra casa e dopo che mio padre aveva ce-lermente coperto con delle paglia questi escrementi, do-vevamo sopportare, tutta la notte, il cattivo odore.
Mio padre non avrebbe mai acconsentito a lasciare, fuori dell’uscio, il suo inseparabile quadrupede, unico mezzo di trasporto, necessario a sostenere e sfamare la nostra, numerosa famiglia. Pertanto, l’animale doveva al-loggiare, transennato in un angolo della casa. Quella era la sua stalla. Forse per questo, prima di morire, dopo aver abbracciato tutti, chiamò Mario figlio di primo letto, allo-ra quattordicenne, dicendo: “Sta attento a tua madre e ai tuoi fratellini; ti lascio, cavallo e carrozza affinché tu possa continuare il mestiere di vetturino e procurar da vivere per tutta la famiglia.”
Purtroppo, le ultime volontà di mio padre non furono esaudite. Fu fatto esattamente tutto il contrario di quanto egli aveva stabilito.
Correva l’anno 1928. La salma di mio padre, morto dopo sette giorni di febbre alta a causa di una polmonite dovuta, si disse, ad una sudata nel riempire un sacco di paglia, fu posta al centro della stanza, vegliata da mia madre piangente.
Nello stesso giorno, i parenti più vicini alla famiglia, incuranti delle ultime volontà di mio padre, discutevano su ciò che sarebbe stato più opportuno fare per la mia fa-miglia, riponendo, in Mario, il cavallo e la carrozza, le speranze per una pronta ripresa.
Ricordo la salma di mio padre lì, pronta ad intrapren-dere l’ultimo viaggio verso il cimitero e la casa piena di gente, amici e conoscenti. In strada noi figli, giocavamo ignari, della sventura che ci aveva colpito. Eravamo ripe-tutamente sollevati da terra, abbracciati, accarezzati e ba-ciati e ci venivano di continuo regalate delle caramelle.
Sui volti era visibile il dolore che la gente provava per noi piccini rimasti orfani di padre in così tenera età.
Stella, la più grande delle sorelle, aveva appena otto anni e Assuntina la più piccola solo un anno, mentre io, che avevo quattro anni e mezzo, non riuscivo a capire perché tanta gente mi accarezzava e riempiva le mie mani di caramelle. Poi ricordo il corteo funebre, che si mosse alla volta del cimitero tra urla e pianti.
In verità, anche noi piccini nell’assistere allo strazio che si paventava davanti ai nostri occhi, ci lasciammo an-dare in singhiozzi, malgrado non comprendessimo a pie-no le ragioni.
La mamma, poi, mi raccontò che la sera dopo la tumu-lazione, i parenti fecero una gran cena, a base di pesce e carne, mentre noi familiari del defunto assistemmo a di-giuno.
Passati alcuni giorni, i parenti presero la decisione di vendere sia il cavallo che la carrozza contrariamente alle ultime volontà di mio padre e quelle insistenti di mia ma-dre che, pur opponendosi, a tale decisione, nulla poté per evitare una decisione che, a mio parere fu presa lo stesso giorno del funerale.
L’opposizione di mia madre a quella decisione, peg-giorò i rapporti con i parenti di mio padre, tanto che que-sti si inventarono dei presunti maltrattamenti che, a loro dire, mia madre perpetrava nei confronti di Mario.
Così decisero di portare via, oltre al cavallo e la car-rozza, anche Mario. A questo punto la famiglia fu privata non solo dei mezzi necessari per vivere, ma anche dell’unico ometto che, almeno in parte, così come era nei pensieri di mio padre, avrebbe potuto portare a casa un pezzo di pane e garantire stabilità nel lavoro.
Mario iniziò a lavorare con i miei parenti, come aiuto vetturino, senza prendere una lira!
La vendita del cavallo e della carrozza fruttò una cifra che i nostri parenti pensarono di dividerla tra noi figli e, poiché eravamo tutti minorenni, vincolarono per ognuno di noi alle Poste la somma spettante, pari a lire 128, che avremmo potuto ritirare solo al compimento del ventune-simo anno di età. I parenti soddisfatti, erano convinti di aver fatto cosa giusta e saggia vendendo il cavallo e vin-colando la somma per ogni figlio al raggiungimento della maggiore età, ma in realtà non fu così. Sbagliarono!
Mia madre, invece, con il ricavato della vendita dell’animale, non avendo altro mezzo di sostentamento per sfamare la sua numerosa famiglia, suggerì l'idea di acquistare una casa e fittarla, per poi, con il ricavo del fit-to, poter offrire ai suoi figli una vita più dignitosa. Ma questa sua idea non fu presa nemmeno in considerazione.
In quel tempo, con la sola quota spettante ad un figlio, era possibile acquistare una camera da letto.
Al compimento del mio ventunesimo anno di età, di-ciassette anni dopo la morte di mio padre, recandomi alla posta per ritirare la mia parte di eredità, mi trovai di fron-te ad una brutta sorpresa. Il direttore delle Poste mi co-municò che, a causa del recente evento bellico, il governo aveva confiscato gli interessi nel frattempo maturati sul mio deposito, la svalutazione della lira poi, con la conse-guente perdita del valore di acquisto della moneta, aveva fatto il resto, tanto che, con quello che rimase, potetti a stento comprare un pacchetto di sigarette e neanche di marca eccelsa. Gli effetti negativi della sciagurata deci-sione dei miei parenti erano lì, nella loro drammaticità!
Dopo la morte di mio padre, com'era prevedibile, le cose andarono sempre peggio, ma, nonostante la sfortuna ci perseguitasse e la miseria incombente sulla nostra fa-miglia facesse il resto, mia madre, pur disperata e tra mil-le difficoltà, era costretta ad andare avanti inventandosi, giorno per giorno, qualcosa per sbarcare il lunario e provvedere a sfamare tutti i suoi figli.
Per prima cosa, si recava, insieme a mia sorella Rosa, al mercato per vendere del prezzemolo e delle uova, così da riuscire a procurarsi quel tanto che permettesse alla sua famiglia di sfamarsi e continuare a vivere. Misera-mente!
Gli anni passavano e dei parenti solo qualcuno, ogni tanto, si faceva vedere. Ci ordinavano di trasportare, per loro, dei secchi d’acqua fino alle proprie abitazioni, pa-recchio distanti dalla fontana.
Questo, per noi piccini, costava molto sacrificio, anche perché già debilitati nel fisico. Ma, la necessità di doverlo fare, e la miseria che non ci dava tregua, ci dava la forza di continuare e smettere soltanto quando eravamo riusciti a trasportare quanto c'era stato richiesto, cioè l'equivalen-te di tre secchi d'acqua a testa, tra fratelli e sorelle.
Le gambe non ci reggevano, e qualcuno di noi, quando durante il tragitto, faceva cadere involontariamente il sec-chio, era costretto a tornare indietro e ricominciare tutto daccapo. Alla fine, esausti e sudati, questi piccoli erano premiati con un tozzo di pane raffermo, e mandati via in malo modo come se fossero degli appestati.
La mamma con caparbietà, facendosi coraggio, si re-cava tutti i giorni in prefettura, sperando così di ottenere che, sia io che mia sorella Teresa, fossimo accettati da un collegio per poveri nella vicina cittadina Sipontina di Manfredonia. E così, dopo tanto lottare, questa sua capar-bietà fu premiata. La sua richiesta fu accolta e fummo ri-coverati presso l’istituto per orfani, come da lei desidera-to.
Purtroppo, per ironia della sorte, la nostra permanenza nel collegio durò solo due mesi. Fummo di nuovo rispedi-ti a casa perché la prefettura, a suo dire, non era più in grado di sostenere le spese per mancanza di fondi.
La testardaggine di mia madre, unita alla disperazione che procura il vedere i suoi piccoli sempre affamati e de-periti giorno dopo giorno, la spinse ad insistere, nelle sue richieste presso l’autorità fascista, ottenendo cinque chili di farina, scarpe e vestiario. Ma, come era prevedibile, gli alimenti, donati dalla caritatevole autorità fascista, non durarono a lungo. Così, ai primi freddi invernali, restam-mo di nuovo scalzi ed affamati più di prima.
Ricordo, che la sera, qualche vicino compassionevole ci portava gli avanzi della loro cena. Questo per noi era come la manna discesa dal cielo.
Le autorità fasciste, nei mesi invernali, quando le no-stre mani e i nostri piedi, a causa del freddo erano piene di duroni, ed eravamo quindi impediti nella ricerca spa-smodica del cibo, ci davano un buono al giorno, con il quale mia madre si recava quotidianamente alla mensa dei poveri per poter ritirare del pane. Eravamo veramente ridotti male, peggio dei barboni, intirizziti dal freddo, sempre sporchi ed affamati.
Ricordo ancora adesso con invidia i bambini del vici-nato che ad ogni ricorrenza festiva uscivano a giocare sull’uscio di casa con giocattoli e dolciumi nelle mani, mentre noi poveri ed orfani non avevamo niente. Neanche nelle tradizionali ricorrenze di tutti i Santi e della befana, quando ogni bambino riceveva dai propri genitori la clas-sica calzetta della befana piena di dolciumi, c'era qualco-sa per noi.
Gabriele in collegio
A dire il vero, ci saremmo accontentati anche di un panino con il companatico, per alleviare i crampi allo stomaco, che quotidianamente ci tormentavano.
La mamma rispettava, o forse è meglio dire, era nelle condizioni di rispettare e santificare, solo il Santo Natale. Faceva economia durante tutto l’anno per riuscire ad im-bandire una tavola, con alimenti degni di una ricorrenza tanto importante.
In quei particolari giorni di festa, la mamma, con mia sorella Stella, si recava presso una signora, la quale ricor-do chiamavamo Donna Licia. In cambio di alcuni servizi domestici riusciva ad ottenere un po' di carne e degli in-dumenti utili. Questa buona e brava signora, titolare di una macelleria, era benestante, ed aveva molta compas-sione per la nostra situazione e la grande miseria in cui si era venuta a trovare la nostra famiglia.
Nonostante i guai che non mancavano mai ed i pro-blemi che l’assillavano quotidianamente, mia madre si preoccupò di farci frequentare la scuola primaria e si a-doperò presso i maestri affinché questi ci procurassero gratis i libri scolastici.
Si recava di continuo alla Prefettura per farci accettare in qualche collegio, con l’intento di diminuire le bocche da sfamare in casa. La sua insistenza, alla lunga, ebbe successo solo per quando riguardava il sottoscritto non più Rosa, perché, l’istituto di Pesaro, presso cui fui accet-tato ed accolto, era un collegio per soli maschi.
Ricordo con infinita commozione quel triste giorno, quando, per la prima volta dovetti allontanarmi da casa per dovermi recare in un posto così lontano.( Desideravo tanto stare con i miei ed avrei voluto continuare a condi-videre la miseria e l'indigenza con i miei fratelli).
Mia madre mi preparò un panino, mi accompagnò in stazione, dove, insieme a tanti bambini orfani, fummo af-fidati ad un funzionario della Prefettura ed essere accom-pagnati poi nell’istituto di Pesaro.
Avevo otto anni e piangevo disperatamente. La mam-ma, commossa, mi abbracciò dicendo che non mi avrebbe mai abbandonato e promettendo che sarebbe venuta a tro-varmi. Ma io continuavo, singhiozzando, a piangere ed a sospirare. Indossavamo tutti dei vestitini con pantaloni lunghi e berretto.
Dopo alcuni giorni di permanenza nell’orfanotrofio, mi resi conto che senz'altro si stava meglio nell’istituto che a casa, almeno dal punto di vista alimentare. Infatti, si mangiava tre volte al giorno, la sera si andava in Chiesa ad imparare il catechismo e la domenica ci portavamo sul lungomare a passeggiare. Il rovescio della medaglia era rappresentato, però, dalla nostalgia e dalla lontananza del-le nostre famiglie.
I superiori, in accordo con gli insegnanti, decisero di farmi ripetere la prima elementare affinché potessi ap-prendere meglio. Questa, a mio parere, fu una saggia de-cisione.
Dopo non molto tempo, mi rassegnai all'idea di dover vivere lontano da casa, aiutato in questo anche dai miei compagni di sfortuna con i quali giocavo nei momenti li-beri. In quei giorni, l’attesa che mia madre mi scrivesse, e poter così sapere qualcosa dei miei fratelli e della mia cit-tà, era la mia dolce compagna preferita. Quando questo si verificava, il Direttore mi convocava nel suo ufficio e mi leggeva la cartolina inviata da mia madre, alla quale ri-spondevo con l’aiuto ed i suggerimenti dello stesso Diret-tore.
Frequentemente, passeggiando sulla spiaggia, incon-travamo delle brave persone che, alla vista di noi orfanelli in divisa, si prodigavano nel comprare delle caramelle ed offrircele, in questo, ovviamente spinti da uno spirito di compassione nei nostri confronti. Non dimenticherò mai il giorno in cui chiamato in portineria mi fu detto che era venuta una donna a trovare me. Il cuore salì in gola ricor-dando la promessa che mia madre fece nella stazione di Foggia prima di partire e cioè che presto sarebbe venuta a trovarmi.
L'incontro con quella donna fu per me una gran delu-sione In realtà, mi trovai di fronte ad una persona a me sconosciuta, ma che mia madre, evidentemente, conosce-va abbastanza bene. Infatti, avendo saputo dalla stessa che sarebbe venuta a Pesaro per motivi di lavoro, la pregò perché venisse a trovarmi.
La donna mi portò una scatola di scarpe piena di cose da mangiare che, sicuramente, la mamma aveva preparato per me. Poi mi condusse fuori dal collegio per delle foto-grafie.
Quel giorno fui molto contento per la visita ricevuta e per le buone notizie ricevute sulla salute dei miei familia-ri, ma soprattutto fui felice perché, la delusione provata al mattino si era trasformata in gioia alla vista delle cose da mangiare, non perché ne avessi avuto bisogno, ma queste, per me, in quel momento, rappresentavano qualcosa che mi faceva sentire la mia famiglia più vicino.
Passarono due anni e mezzo e, quasi senza accorger-mene, ero arrivato a frequentare la terza elementare e ad imparare anche un po' di musica.
A causa delle cattive notizie sulla guerra d’Africa e di Spagna fui impedito sia nel continuare la mia istruzione in collegio che nella permanenza nello stesso istituto. Il collegio, infatti, come già avvenuto in passato per quello di Manfredonia, non ebbe più i fondi necessari per conti-nuare ad assisterci. Pertanto fummo rimandati tutti alle nostre case.
Per tutta la durata del viaggio, sulla via del ritorno, non feci altro che piangere, e non smisi mai di pregare l’incaricato, che ci riportava a casa, di riportarmi al colle-gio da cui ero partito, perché ero orfano, e mia madre non aveva la possibilità di sfamare un altro figlio.
Tutto ciò, però, risultò inutile! Mi fu promesso che, quanto prima, avrebbero trovato per me un’altra sistema-zione, ma ora dovevo rassegnarmi al fatto di ritornare da mia madre. Così arrivai a Foggia, molto rammaricato e dispiaciuto.
Pochi giorni dopo il mio arrivo a Foggia, mia madre fu chiamata in prefettura e ricevette, oltre ad un buono da spendere per l’acquisto di biancheria, scarpe ed altro, an-che un po' di soldi, per far fronte alle prime spese, dopo il mio arrivo.
Nei primi giorni, dopo il mio arrivo, mi sentivo come un estraneo in casa, perché non ero più abituato ad ascol-tare i miei fratelli parlare in dialetto foggiano. Ormai a Pesaro avevo imparato a parlare quasi correttamente l’italiano ed avevo assimilato i metodi di educazione civi-le che mi erano stati imposti dai maestri del collegio.
A dire il vero, non mi sentivo neanche io tanto accetta-to dai miei fratelli i quali mi vedevano, non come uno di loro, ma, come un damerino vestito con pantaloni lunghi e berretto, mentre loro continuavano ad andare scalzi, la-ceri e vestiti di stracci.
Dopo poco tempo, i rapporti in famiglia e la comunio-ne con i fratelli ritornò come prima, non poteva essere al-trimenti. Nel frattempo, ripresi a frequentare la terza scuola elementare al mattino, nel pomeriggio, invece, an-davo a bottega da un fabbro ferraio per imparare il me-stiere.
La mamma continuava a vendere le uova ed il prezze-molo al mercato. Il pomeriggio si recava, lontano dalla città, in campagna, a raccogliere spighe di grano. Poteva, così, garantirsi durante l’inverno un po' di pane da dare ai suoi figli.
Fu un brutto colpo per lei il mio ritorno a casa. Era fe-licissima di sapere che a Pesaro mangiavo tre volte al giorno e per giunta ero istruito a dovere. Ora, invece, do-veva provvedere anche al mio sostentamento, mentre, la miseria e la sfortuna, perseguitandoci, non si decideva ad abbandonarci. Intanto, continuava ad insistere presso le autorità competenti, affinché accettassero qualcuno di noi in qualche istituto. Dopo qualche tempo riuscì a far acco-gliere, nell’ospizio Opera Pia Scillitani a Foggia, mia so-rella Assuntina, e mio fratello Nicola nell'istituto Lucia Cristina.
Mia madre aveva molta fiducia in me, perché ero il più grande ed anche perché riuscito a prendere la licenza di scuola elementare. Per poter meglio aiutarla, mi fece cambiare mestiere. Anziché mandarmi dal fabbro, mi mandò da un sellaio, perché potessi guadagnare di più. In verità questo lavoro mi rendeva mezza lira al giorno sen-za contare il fatto che il padrone mi portava con se in campagna a lavorare in grandi masserie assentandomi da casa anche per delle settimane intere.
Mi trovavo abbastanza bene dal sellaio, ma, tutto que-sto durò poco, perché i tempi erano difficili e mezza lira al giorno cominciò a non bastare più. Pertanto, ancora una volta, dovetti cambiare mestiere.
Andai a lavorare presso un bar dove guadagnavo mol-to di più anche se la giornata iniziava al mattino prestis-simo e terminava la sera tardi. Il padrone mi pagava una lira e mezza al giorno ed in più riuscivo a racimolare due o tre lire di regalia (Così all'epoca era chiamata la man-cia).
Sembrava che la sfortuna stesse per abbandonaci con la chiamata al lavoro di mia madre presso la cartiera di Foggia. Dietro l'angolo, però, si stava preparando, da par-te della sorte, un altro tiro mancino che avrebbe colpito proprio mia madre.
Infatti da un po' di tempo accusava dolori all’addome senza che ne conoscesse le cause. La pancia cresceva a dismisura tanto da rendere precaria la stabilità del corpo; a causa del volume e del peso, il tronco tendeva a pendere in avanti facendola spesso cadere a terra.
È da considerare il fatto che in quegli anni per la mise-ria che attanagliava la stragrande maggioranza delle per-sone e la necessità di sfamare la famiglia, alcune donne erano indotte a prostituirsi. Questa situazione era aggra-vata dall'abbandono di queste ultime da parte dei mariti, o dall'esser rimaste vedove. La maniera più facile, quindi, per procurarsi il danaro per andare avanti ere rimasta solo questa.
Mia zia, sorella di mia madre, nonché i parenti di mio padre acquisiti col primo matrimonio, i quali non erano certo in buoni rapporti con mia madre, insinuarono che l'aumento di volume della pancia era determinato dall'es-sere incinta, frutto questo di rapporti extraconiugali avuti con uomini allo scopo di reperire danaro per sfamare la famiglia.
Mia madre respinse con tutte le sue forze queste ca-lunnie, difese la sua onorabilità di donna, dedita solo ed esclusivamente alla memoria del marito ed alla famiglia, ma non conoscendo la causa che aveva determinato tutto ciò, non riuscì a giustificare questa sua nuova condizione.
Dopo un ricovero presso l’ospedale civile di San Seve-ro, le fu riscontrato un tumore, la cui estirpazione avrebbe comportato, un intervento chirurgico di parecchie ore e dall'esito incerto, tanto che prima d’intervenire fu neces-saria l’autorizzazione dei parenti. In quei momenti era-vamo soli, gli unici presenti erano i figli, pertanto i medi-ci dovettero rivolgersi a noi anche se minorenni.
L’intervento si fece e riuscì perfettamente. A quei tempi, riscontrare in una persona una massa tumorale di dieci chilogrammi e al tempo stesso guarirla, con i mezzi e le tecniche poco avanzate, che la medicina dell'epoca aveva a disposizione, era una cosa molto rara. Ai nostri occhi tutto ciò sembrò un miracolo fatto dal Signore che, nonostante la miseria e gli stenti, non si era dimenticato di noi.
Lucia Manusci (la mamma)
A stento la gente credeva ai nostri racconti, addirittura, alcuni mettevano in dubbio la veridicità delle nostre af-fermazioni.
Di questa storia, la stampa dell'epoca ne parlò e se ne interessò abbondantemente, mettendo in risalto soprattut-to i primi successi che la medicina andava riscuotendo in questo campo della chirurgia che era ai suoi albori.
In quei momenti di tensione, la vicinanza di un parente adulto ci avrebbe dato coraggio, ci avrebbe sicuramente aiutato nel colloquiare con i medici circa il decorso post operatorio, ma non c'era nessuno. Dopo l’intervento, e a tarda sera, mia zia, sorella di mia madre, che da giorni si trovava in città per una fiera di bestiame, venne a trovar-ci.
Mia madre accolse in malo modo la sua visita e, se pur sofferente, non rinunciò a rimproverare la sorella per il comportamento non proprio fraterno da lei assunto in questa circostanza. Questi in genere, disse mia madre “sono fatti che normalmente avvicinano due sorelle non le allontanano.”
Ciò che fece soffrire di più mia madre, fu l’aver saputo che la sorella, pur presente da giorni a San Severo, non si era minimamente preoccupata di andarla a trovare in o-spedale prima dell'intervento, anche per sapere se avesse avuto bisogno di qualcosa o se noi, suoi nipoti, avessimo avuto bisogno d'aiuto. Mia zia accusò il colpo ed offesa per il rimprovero, girò le spalle e se ne andò, raggiungen-do gli altri zii, uomini, che non si erano degnati neanche di salire e salutare la cognata.
Dopo alcuni mesi, ringraziando Dio, mia madre lasciò l’ospedale e fece ritorno a casa.
Mia moglie Rina mi asciuga il sudore sulla fronte, e dalla cucina sento i nipotini schiamazzare; mio genero li redarguisce intimando loro il silenzio. Si avvicina al letto anche mia figlia più grande, Lucia che mi accarez-za la mano, mentre l’altra, Carmela le è dietro quasi a-vesse timore di disturbarmi.
Ad un tratto vedo una figura davanti alla porta che dà sul balcone. Indossa un mantello nero e sul capo ha un cappellaccio che gli copre quasi per intero il viso, come se volesse nasconderlo.
La sua figura mi è sconosciuta, vorrei tanto chiedere a mio figlio di mandarlo via ma non ci riesco. Sento il corpo quasi bloccato e passato da parte a parte da un freddo gelido misto ad angoscia. È ricomparso il dolo-re.
Questa situazione, sembra piaccia molto a quell'indi-viduo, tanto da avere l’impressione che se ne stia lì ri-dendo divertito. Il dolore aumenta sempre di più, tanto da non sentire più le voci di chi mi stà accanto. Anche i cari defunti sono spariti d’un colpo, non so spiegarmi il perché! Mi sento solo, non più protetto dai miei cari, in-capace di comunicare i sentimenti a chi condivide con me questi momenti.
Un tremore invade il mio corpo, comincio a saltare, vistosamente, sul letto, tanto da preoccupare mia moglie che vedo correre verso la porta, presumo a chiedere aiu-to. Vedo le mie figlie piangere disperatamente. Anche loro, rivolgendosi in preghiera a nostro Signore, urlano chiedendo aiuto.
L’uomo, davanti la porta che dà sul balcone, intanto, non accenna ad andar via. Mi rendo conto che nessuno può mandarlo via semplicemente perché non appartiene a noi vivi. Un altro uomo, sempre vestito di nero, si av-vicina al mio letto e sedendosi di fianco mi farfuglia qualcosa nell’orecchio. Ma questo lo conosco, è don Luigi, è un Ministro di Dio, di questo non ho paura co-me dell’altro.
Don Luigi prega per me, per la mia anima, ma, or-mai, non riesco più ad ascoltare, a stento, riesco a vede-re ciò che mi circonda, come l’orologio che stà sul co-mò. Segna dieci minuti alle nove!
L’uomo in nero, alla vista di Don Luigi, ha voltato misteriosamente le spalle, rivolgendo il suo sguardo ver-so il muro. Sto male, credo proprio di essere in punto di morire, ma non mi va di farlo ora, voglio prima finire di ricordare a me stesso gli anni della mia giovinezza.
Ad un tratto intravedo un’altra figura che, con fare minaccioso, si avvicina all’uomo in nero spingendolo fuori dalla stanza e con dei ceffoni impedisce che questi rientri sull'uscio della porta.
Provo una felicità immensa nell’assistere a tutto ciò, godo nel vedere il mio Giovanni accanirsi contro quella losca figura. Ma chi sarà mai questo brav’uomo? Dov’era prima?
Dopo aver spinto e ricacciato fuori l’uomo in nero, con gran meraviglia, riconosco, in quel brav’uomo, mio padre. È venuto anche lui! Non avevo mai dubitato che sarebbe venuto a prendermi! Ciao papà! Grazie.
Lui mi guarda con tenerezza e, senza parlare, con il solo sguardo, sembra voler raccontare tutte le cose che non ha mai potuto dirmi, perché la sorte non glielo ha mai permesso. Hanno il sapore della purezza, della sin-cerità e dell’amore grande e reciproco che ci ha sempre unito. Ora sento che non ci separeremo mai più e mia madre, nel frattempo tornata insieme a mio fratello in-torno al letto, sembra confermare tutto ciò con un dolce sorriso.
Il dolore, d’un tratto, é sparito, nessuno piange più, nella stanza è tornata la serenità ed in me la consapevo-lezza che ci vorrà ancora del tempo, prima di andar via…Posso ancora continuare a ricordare.
Dovette passare molto tempo prima che mia madre po-tesse tornare al lavoro. Anche questa volta, i nostri, cari, parenti non ci furono di alcun aiuto, in nessun modo.
Il sostentamento alla famiglia arrivava solo dal mio la-voro nel bar, con la paga che ricevevo, riuscivo e sostene-re l'intera famiglia.
Dopo cinque, lunghi, mesi, mia madre, ristabilitasi completamente, tornò a lavorare in cartiera e quando sembrava che la vita volgesse al meglio, tanto da poterci comprare un po' di pane in più ed a permetterci qualche indumento decente, arrivò la dichiarazione di guerra da parte del governo con le conseguenti restrizioni sugli ali-menti e sui vestiti. Naturalmente gli acquisti si potevano fare solo dopo la presentazione di una tessera, che stabili-va, anche, le quantità necessarie rispetto al nucleo fami-liare.
Gabriele a sedici anni
Ormai, eravamo tutti adulti, e, secondo la tessera, ave-vamo diritto solo a duecento grammi di pane a testa. Que-sto, ovviamente, non era sufficiente per l'intero arco della giornata. Allora decisi di cambiare nuovamente mestiere. Lasciai il bar per andare da un panettiere, in questo modo, oltre ad imparare il mestiere, portavo a casa un chilo-grammo di pane in più e sfamare così tutta la famiglia.
Mia madre lavorava tutto il giorno, mentre, mio fratel-lo Nicola, a causa della solita mancanza di fondi, era tor-nato a casa dal collegio. Intanto, non riusciva ad imparare un mestiere e quindi a rendersi utile per la famiglia.
Mia sorella Teresa, contrariamente al nostro parere, convolò a nozze all’età di soli quindici anni, mentre io, nel frattempo, per l’ennesima volta, cambiai mestiere. In-fatti, trovai lavoro presso una ditta appaltatrice in ferro-via.
La paga era buona, ma il lavoro di manovale, cui ero stato adibito, era pesante, dato il mio fisico gracile, tutta-via, nonostante tutto, andai avanti per due anni sino a quando ricevetti la cartolina per la chiamata alle armi.
Per me, quello fu un triste giorno. Pensavo a mia ma-dre, a quanti sacrifici aveva fatto per noi, e di quanti altri se ne sarebbe dovuto far carico a motivo della mia futura assenza.
Dovevo presentarmi, il 24 aprile 1943, alla 232 fante-ria di Bolzano. In quel periodo, la guerra era in una fase cruciale; da una parte c'erano i bombardamenti che avve-nivano quotidianamente, dall'altra gli alleati che avanza-vano con lo sbarco in Sicilia. Il 23 aprile, volendo ralle-grare un po' la famiglia, prima dell'addio, in compagnia dei vecchi amici ed i vicini, tenni di sera una festicciola danzante. Ben presto, però, presto la festa terminò.
Alcuni funzionari della questura ci ordinarono di spe-gnere immediatamente le luci ed evitare suoni di ogni ti-po perché questo era vietato dopo una certa ora a causa degli imminenti bombardamenti che sarebbero avvenuti di lì a poco.
Verso la mezzanotte, tutti i parenti e conoscenti, mi accompagnarono in stazione per attendere la tradotta merci che mi avrebbe portato a Bolzano. È indescrivibile la commozione che provai nel momento in cui dovetti sa-lutare i familiari e gli amici. Gli abbracci e baci sembra-vano non terminassero mai, la tristezza, insieme alla spe-ranza di tornare presto a casa, si leggeva nei loro occhi, e mentre tutti, voltandomi le spalle, si allontanavano, io con lo sguardo continuai a seguirli sino a quando il treno la-sciò la città, e gli occhi velati di pianto si spensero nel buio del vagone.
Cerano molti soldati su quel treno, tutti stesi per terra a dormire; cercai anch'io un posticino per sedermi, e a fati-ca, facendomi spazio tra i commilitoni, alla fine lo trovai. Il vagone, però, era molto affollato, le persone erano sti-pate una a fianco all’altra, era impossibile dormire; non potetti, infatti, prendere sonno per l’intera notte.
All’alba, con la luce del sole che filtrava attraverso le fessure di legno, riuscii a vedere in faccia i miei compa-gni di viaggio. In seguito seppi che la gran parte di loro proveniva dalla Sicilia.
Durante il viaggio, col passar del tempo, ad ogni fer-mata del treno, se ne aggiungevano altri, di regioni diver-se. Ricordo, in una piccola stazione di cui ora mi sfugge il nome, accadde una disgrazia che colpì tutti noi militari.
Un soldato, nel salutare la propria famiglia, ritardò il suo ingresso nel vagone e, nella foga della salita con il treno in movimento, perse l’equilibrio finendo sotto il treno. Fu immediatamente soccorso e portato in ospedale tra le urla disperate della famiglia.
Ancora oggi, mi chiedo spesso, senza potermi dare una risposta certa, se quel soldato sia riuscito a sopravvivere a quell’incidente, magari restando ferito e, se l’aver evitato la naia, anche se in modo così traumatico, sia stato un be-ne per lui, considerando anche quello che gli sarebbe po-tuto accadere se fosse partito regolarmente.
A mezzanotte, arrivati a Bologna, il convoglio fu i-stradato verso Bolzano, dove ad attenderci c'era un ser-gente che ci accompagnò a destinazione. Giunti nella ca-serma gli ufficiali ci indicarono la compagnia cui erava-mo stati assegnati. Al sottoscritto fu chiesto il perché del mio arrivo a destinazione con due giorni di ritardo, e giacché non seppi trovare delle scuse attendibili, mi furo-no comminati tre giorni di prigione. A ben considerare, mi andò bene, anche perché, mentre i miei commilitoni furono immediatamente destinati a lavori di corvè, io po-tetti dormire a lungo e riposare, anche se su di un tavo-laccio posto lì come letto.
Scontata la pena, dopo aver preso in consegna la divisa e la biancheria intima, fui destinato alla terza compagnia.
La sveglia era alle cinque del mattino; in pochi minuti dovevamo provvedere sia alla pulizia del corpo sia ai bi-sogni fisiologici, e presentarci puntualmente in cortile per l'alzabandiera e le successive esercitazioni. A mezzogior-no si andava a mensa, dove di solito consumavamo un pasto a base di riso, alla fine del quale era consentito ri-posare sino alle sedici per poi riprendere le esercitazioni. Dopo il rancio serale si poteva andare in libera uscita.
Col passar del tempo, le esercitazioni divennero sem-pre più pesanti e molto faticose. Spesso ci svegliavano di soprassalto, perché fossimo allenati ad esser pronti, nel minor tempo possibile, nel caso in cui ci fosse stato un allarme, od un attacco improvviso del nemico.
La nostalgia e la speranza di ricevere notizie dai nostri cari ci accompagnava spesso in quel periodo. Capitava anche che qualche compaesano, arrivato dopo di noi in caserma, portasse lettere e notizie dei nostri familiari. Questo avvenne anche per me.
Dopo alcuni mesi d'addestramento, arrivò il giorno in cui decisero di mandarci al campo di esercitazione, e pre-cisamente al passo della Mendola, distante da Bolzano una cinquantina di chilometri.
Ricordo che quel giorno stavo malissimo, avevo una febbre dovuta ad una tonsillite. Al mattino, come da pras-si, avevo marcato visita presso l'infermeria della caserma; inspiegabilmente, però, il medico assicurò che non c'era nulla di grave e potevo benissimo seguire la mia compa-gnia alla volta del campo, nonostante le mie condizioni fisiche non erano delle migliori.
C'incamminammo a piedi con zaino a tracolla. Dopo pochi chilometri, stremato dalla fatica e febbricitante caddi a terra sfinito, ma, gli ufficiali presenti non vollero credere che io stessi davvero male, anche perché il medi-co mi aveva ritenuto idoneo alla marcia. Questo loro pen-savano, memori del fatto che quando c'erano in pro-gramma delle lunghe marce spesso i soldati, al fine di evitarle, inventavano mille scuse che il più delle volte e-rano false.
Giunti a destinazione, fui visitato di nuovo. Questa volta però, mi riscontrarono la febbre e notarono anche le tonsille gonfie. Dopo aver costatato la mia buona fede, mi permisero finalmente il riposo in branda, mi curarono con antinfluenzali ed antinfiammatori tornando alla piena guarigione in pochi giorni
Al fine di combattere le epidemie, che frequentemente scoppiavano nella promiscuità che eravamo costretti a vi-vere, nell’accampamento sotto le tende, i medici ufficiali provvidero a vaccinarci.
Intanto, le esercitazioni continuavano. Ogni giorno e-rano sempre più impegnative con manovre di guerra e scarpinate per circa cinquanta o sessanta chilometri al giorno. Nello zaino, il rancio consisteva in duecento grammi di pane e mezza scatoletta di carne, che conside-rata l’aria buona dei monti di Bolzano e la fatica di tutti i giorni, era davvero misero ed insufficiente.
Alcuni commilitoni ricevevano dalle famiglie dei va-glia postali che spendevano per l'acquisto di generi ali-mentari, sopperendo così alla penuria del cibo. Ovvia-mente mia madre non aveva la possibilità di inviarmi da-naro. Con quello che guadagnava riusciva a stento a mandare avanti la famiglia, oltretutto gli era venuto a mancare anche il mio aiuto economico. Pertanto, alla no-stalgia di casa ed alla speranza di ricevere notizie, si ag-giunse anche la fame.
Dopo due mesi di campo, tornammo a Bolzano. I bombardamenti ogni giorno che passava erano sempre più frequenti, certo non come a Foggia dove si sussegui-vano a distanza di ore.
Nell’ultima lettera, i miei familiari mi comunicarono che, la mia città aveva subito un bombardamento a tappe-to e che era stata rasa quasi al suolo la stazione ferrovia-ria. Questa rappresentava un nodo strategico molto im-portante, soprattutto per il trasporto militare. In quell'oc-casione caddero migliaia di vittime, e tra i tanti c'erano anche tutti i compagni che lavoravano presso la ditta per la quale lavoravo anch'io prima di partire militare e che, per l’appunto, era ubicata in un capannone, nei pressi dell’ultimo binario merci. Da considerare che tutto questo si verificò appena due giorni dopo la mia partenza!
La notizia di questa morte, così improvvisa ed impre-vedibile, mi rattristò molto. Per tutto il giorno, ed anche per i successivi, il ricordo dei miei compagni, dei loro volti, degli scherzi che facevamo per rendere più gioiosa ed allegra la giornata lavorativa, del suono delle loro vo-ci, era lancinante, come se una spada avesse trapassato la mia mente. Ringraziai il Signore che, almeno, questa vol-ta aveva risparmiato me ed i miei parenti da tanta carnefi-cina. Questo leniva un po' il mio dolore.
Bolzano era bombardata e mitragliata continuamente. Du-rante i bombardamenti ci ricoveravamo nei rifugi antiae-reo, mentre quando questi cessavano, pattugliavamo la città. Le licenze e la libera uscita, intanto, erano state so-spese, ed ogni tanto, dopo esserci preparati in assetto di guerra partivamo su degli automezzi militari, senza mai sapere quale fosse la destinazione.
L’otto settembre 1943, mentre riposavamo in caserma, verso sera, si sparse la voce che il governo italiano aveva chiesto l’armistizio. Tutti noi militari salutammo la noti-zia con gioia, perché immaginavamo di poter tornare pre-sto a casa, ma fummo ben presto delusi. Dopo alcune ore, infatti, i nostri comandanti ci comunicarono che i tedeschi erano nelle vicinanze, pronti ad attaccare, pertanto, ci fu impartito l’ordine di armarci, e con lo zaino a spalla do-vemmo pattugliare la città sparando su chiunque fosse venuto incontro. Nell’occasione ci dettero in dotazione anche le bombe a mano.
Bolzano: 02/08/1943
Io ed i miei compagni dovevamo iniziare il nostro tur-no di pattuglia alle ore ventitré. Poco prima, però, la no-stra caserma fu circondata da carri armati tedeschi i cui comandanti, con i mitragliatori puntati verso di noi, ci in-timarono la resa senza spargimento di sangue. Alcuni no-stri ufficiali iniziarono a sparare sul nemico, ma avendo i tedeschi, risposto prontamente al fuoco, si resero subito conto di non poter nulla contro l’armata tedesca. Decise-ro, allora, di alzare bandiera bianca ed arrendersi, ordi-nando a noi di fare altrettanto. Ovviamente eseguimmo gli ordini.
Nel frattempo, tra i soldati che erano di pattuglia per le vie di Bolzano, ci furono alcuni morti e molti feriti, per-ché, avendo ricevuto l’ordine di sparare su chiunque gli si fosse avvicinato, risposero al fuoco nemico, col risultato di essere fatti prigionieri dai tedeschi.
Per tutta la notte, restammo fuori nel cortile della ca-serma, con le armi tedesche puntate addosso. All’alba fummo prelevati ed ammassati presso l’Adige, dove ci ri-trovammo in compagnia di altri trentamila prigionieri provenienti dalle province limitrofe. Restammo lì a di-giuno per tre giorni, minacciati continuamente di morte se qualcuno di noi avesse accennato alla benché minima fu-ga.
Era commovente vedere alcune famiglie italiane resi-denti sul posto, che venivano a portarci un po' di pane; ri-cordo di essere riuscito a racimolarne quasi un chilo men-tre gli altri militari neppure mezzo quarto. Naturalmente ero abituato sin da piccolo a ristrettezze del genere. Sicu-ramente in questo mi aiutava molto la scuola di vita dalla quale provenivo, che in passato mi aveva insegnato a sbarcare il lunario cercando del pane ovunque e chieden-dolo a chiunque ne avesse avuto, senza per questo sen-tirmi minimamente mortificato.
In quei momenti tragici, mille ricordi attraversarono la mia mente, ero angosciato dal fatto di non sapere cosa mi sarebbe accaduto di lì a poco, tutto questo mi terrorizza-va. Pensavo di non poter più riabbracciare i miei cari, ed immaginavo mia madre distrutta dal dolore, credendomi morto. La paura dell'ignoto attanagliava il mio cuore, solo e privo degli affetti più cari, vivevo quei momenti nella disperazione. Le notizie su come i tedeschi trattavano i prigionieri di guerra ci lasciavano a dir poco sgomenti.
Stremati dalla lunga giornata, eravamo sdraiati per ter-ra, cercando di riposare un pò, quando verso le tre di not-te, suonò l’adunata. In pochi minuti ci radunarono tutti per essere portarti alla stazione di Bolzano da dove sa-remmo partiti alla volta della Germania.
Verso mezzanotte, infatti, il treno partì con un carico di quaranta persone circa per ogni vagone, stipati come bestie. Dopo due giorni di viaggio estenuante arrivammo alla stazione di Saerbruch. Facemmo sosta e finalmente furono aperti i vagoni, e poiché c'era la necessità di prov-vedere al rifornimento dei viveri, fu prelevato un soldato da ogni vagone per l'approvvigionamento di pane in città. In quel giorno furono distribuiti duecento grammi di pane ed un po' di burro a testa per continuare il viaggio. Ov-viamente, digiuni, come eravamo da giorni, divorammo avidamente il tutto, in pochi secondi. La sosta del treno in stazione fu di due ore circa, poi ripartì per la città di Cre-mus dove arrivò dopo due giorni di viaggio. Appena scesi dai vagoni, fummo costretti a marciare per dieci chilome-tri per essere deportati in un campo di concentramento che ospitava parecchi prigionieri stranieri in circa cento baracche divise in zone. Il campo aveva una circonferen-za di quasi due chilometri. All'esterno c'erano due torri altissime, fornite di riflettori ed a guardia c'erano delle sentinelle armate di tutto punto.
Il secondo giorno di permanenza al campo, ci fecero lavare e rasare i capelli, si preoccuparono di fotografarci a mezzo busto ed assegnarci un numero di riferimento. La mia matricola fu il 91. 390.
Il giorno successivo, ci interrogarono. In primo luogo ci chiesero se eravamo fascisti, poi ci offrirono la possibi-lità di passare nelle loro fila, accettando una resa incondi-zionata. In definitiva ci chiesero di rinnegare l’operato del nostro governo diventando così dei traditori. Fu promesso anche che, chi avesse accettato le loro condizioni, avreb-be evitato di lavorare nelle fabbriche di guerra tedesche e non sarebbe incorso nei rischi della deportazione oltre ad evitare il duro regime di detenzione.
Per la verità, molti soldati italiani accettarono la pro-posta che si presentava loro, soprattutto per paura che, i tedeschi, durante la prigionia, avessero operato ritorsioni nei loro confronti. Tra questi ci fu anche qualche foggia-no.
Io rifiutai questa possibilità che mi si presentava, ave-vo fiducia nel destino, e poi non intendevo tradire la Pa-tria, e di questo, ne sono andato sempre fiero.
Il mangiare era poco e di qualità molto scadente; all’inizio della prigionia, qualche soldato barattava con i tedeschi il proprio orologio o qualche anello per procu-rarsi un tozzo di pane. Dopo una settimana di permanenza ci fecero consegnare, dietro ricevuta, orologi ed effetti personali e ci dotarono di biancheria ed indumenti. A me furono assegnati un paio di zoccoletti di legno ed una vecchia giacca militare francese. Poi ci condussero alla stazione di Cremus, e dopo aver ricevuto una colazione a testa, partimmo, ancora una volta, per la città di Linz.
Il viaggio durò alcune ore. Giunti a destinazione, ci trovammo di fronte una grande città con parecchie fab-briche belliche, alla cui vista ci preoccupammo parecchio, perché sapevamo che lavorare in quelle strutture sarebbe stato abbastanza pericoloso poiché i bombardamenti ame-ricani, da quelle parti erano all'ordine del giorno.
Appena scesi dal convoglio, fummo condotti in un al-tro campo di prigionia, denominato campo numero venti-due. Questo distava dalla città un paio di chilometri. Era molto più piccolo di quello di Cremus. Infatti, in questo campo alloggiavamo quasi duemila prigionieri. All'arrivo ci fu subito chiesto che tipo di lavoro facevamo in Italia. Io affermai che facevo il meccanico quando in realtà, non lo avevo mai fatto, ma, pensando di poter imparare qual-cosa di utile anche in prigione inventai questa bugia. Non avevo, infatti, perso la speranza di tornare vivo a casa, ed imparare un nuovo mestiere, mi sarebbe tornato utile in futuro.
L'ottimismo non mi ha mai abbandonato, e lo ero an-che in quei momenti così tribolati, dovevo esserlo per forza di cose, data la mia giovane età. Non avevo ancora assaporato appieno ciò che è riservato ad ogni essere u-mano, ed a me, sino a quel momento erano toccate solo sciagure, pertanto, mi sentivo in credito verso la vita.
La mattina seguente ci portarono al numero due della fabbrica così detta “B” dove si effettuava la manutenzio-ne nonché la ricostruzione di carri armati. L’aria che si respirava all’interno del capannone era satura di fumo ed il rumore assordante era ai limiti della sopportazione u-mana. In questa fabbrica, molto grande, lavoravano circa cinquemila prigionieri, coadiuvati da operai tedeschi, mentre alla manovra di apposite gru, atte al sollevamento dei carri armati, erano addette alcune donne, di nazionali-tà russa. Ogni squadra aveva un suo capo, il mio era di nazionalità austriaca ed era il responsabile del reparto mola e smeriglia elettrica.
Si lavorava non meno di dodici ore al giorno, dalle sei del mattino sino alle diciotto di sera. Al termine della giornata eravamo stremati ed infreddoliti, anche perché, oltre a nevicare per tutto l’inverno fino al mese di marzo inoltrato, nelle fabbriche, coperte e mimetizzate per ovvi motivi, non entrava neanche la luce del sole. All’interno, erano situati anche i ricoveri antiaereo. Durante la giorna-ta lavorativa, le sirene d'allarme suonavano almeno tre volte al giorno, perché questi siti, per loro natura erano particolarmente importanti strategicamente, ed erano quindi l'oggetto preferito dei bombardamenti americani. Eravamo pertanto, costretti a lasciare il lavoro, raggiun-gere in fretta i ricoveri, ed attendere la fine dei bombar-damenti. Chi ritardava moriva, e questo, purtroppo, capi-tava spesso a coloro che avevano, per loro sfortuna, il banco di lavoro lontano dall’ingresso dei suddetti ricove-ri.
Durante i primi mesi, ci furono imposti due turni di la-voro giornalieri, e come giorno di riposo fu concessa la domenica. Successivamente, però, fu abolito anche il fe-stivo, perché, la Germania fu detto, aveva un estremo bi-sogno di materiale bellico.
Il cibo, oltre ad essere scarso e schifoso era distribuito una volta al giorno. Esso consisteva in una specie di mi-nestra tutta brodo con crauti, ed in un chilogrammo di pa-ne nero da dividere tra venti persone. La domenica, poi, era consentito avere in più qualche patatina, come secon-da portata. Ogni mese avevamo una razione di trenta si-garette ed un pezzettino di sapone e di soda.
Mentre, per molti soldati, questo trattamento che i te-deschi ci riservavano era oggetto di molte lamentele, per me, abituato com'ero sin da piccolo alle ristrettezze ed al-la penuria, tutto ciò era la normalità, desideravo soltanto tornare a casa sano e salvo.
Nel campo erano prigionieri due fratelli, anch'essi fog-giani come me, che, al termine del lavoro, andavano nei pressi della cucina a raccogliere tra i rifiuti, patate marce e tutto ciò che poteva essere commestibile, tanto la fame li attanagliava.
Un giorno, uno dei due, senza aspettare la fine del la-voro, riuscì a sgattaiolare, in anticipo fuori, dal recinto, con l’intenzione di raggiungere prima degli altri, i bidoni dell’immondizia e rovistarli per primo. Noi altri, intanto, aspettavamo di essere inquadrati e guidati dalle sentinelle oltre la stazione ferroviaria, che divideva la fabbrica dalla cucina. Nell’attraversare il recinto di filo spinato, questi non si avvide dell'arrivo di un treno che lo uccise sul col-po.
Quando arrivammo alla stazione vedemmo un corpo maciullato tra i binari, un misto di carne umana con ap-piccicato del tessuto. Era il pastrano verde che indossava il malcapitato per coprirsi dal freddo. La certezza che quel cadavere tra le rotaie fosse quello del nostro compa-esano, l’avemmo il giorno successivo, quando, all'appello del suo nome, non fece seguito alcuna risposta.
Ricordo il Natale 1943. Gli americani senza alcun ri-spetto per la Santa festa, bombardarono violentemente la città. Quel giorno tutti eravamo tranquilli e fiduciosi che per l'occasione avremmo avuto almeno un pasto decente, ma fummo delusi perché a parte un barile di birra non ci toccò altro. Ubriachi e sdraiati sulle nostre brande il no-stro pensiero volò alle nostre case, immaginando il Natale vissuto dai nostri cari e ricordando i Natali passati in loro compagnia. Anche il capodanno di quell’anno, purtroppo trascorse alla stessa maniera..
Intanto, la vita continuava sempre allo stesso modo, lavorando per dodici interminabili ore nella fabbrica della morte; entravamo nei capannoni che era ancora notte ed uscivamo quando le tenebre ormai avevano coperto il tramonto.
Alle undici del dieci gennaio del 1944 si scatenò l'in-ferno. Sulle città si abbatté un bombardamento che durò ininterrottamente quasi cinque ore. In quell'occasione fu-rono colpite alcune baracche dove trovarono la morte otto prigionieri italiani e molti altri rimasero feriti.
Tra le giornate vissute da prigioniero nel campo, que-sta fu una delle più tristi ed indimenticabili. Nella fabbri-ca contammo decine di morti ed anche questa volta la for-tuna fu dalla mia parte.
Pensavo che, per evitare la morte sotto i bombarda-menti che si abbattevano incessantemente sulla fabbrica, l'unico modo era di fare il lavativo. Speravo in una man-sione diversa da quella che svolgevo in quel momento all’interno della struttura.
Un giorno il mio capo austriaco mi comunicò che ave-va notato il mio scarso rendimento sul lavoro, pertanto, era costretto a riferire il tutto ai suoi superiori che avreb-bero preso gli opportuni provvedimenti. Pensai di essere riuscito nel mio intento, ma evidentemente sbagliavo, non avevo calcolato le conseguenze. Ottenni, infatti, solo un trasferimento al campo venticinque, dove il lavoro era più pesante e la disciplina era più ferrea, rispetto al campo che avevo lasciato.
Fui utilizzato subito come muratore. Ero costretto a la-vorare fuori, all’aperto, in mezzo a cumuli di neve pressa-ta in vicinanza delle baracche distrutte dai bombardamen-ti. A fine giornata, poi, tra le intemperie, stanco, infreddo-lito e con la pancia sempre vuota dovevo tornare alla mia baracca a piedi. Essa distava quindici chilometri circa dal posto di lavoro. Il mio fisico, già esile per natura, non riu-sciva a sopportare tutto quel freddo, e giorno dopo gior-no, cominciai ad accusare sempre più dei malori tra i qua-li giramenti di testa.
Il giorno peggiore in assoluto passato al campo venti-cinque fu quando a fine giornata, dopo un lavoro stres-sante, verso le diciotto, per la pioggia caduta, ci ordinaro-no di svuotare una baracca quasi distrutta dai bombarda-menti, piena di cemento non confezionato. Non avendo scelta, e non potendo esimerci dal farlo, con pazienza, andammo presso questa baracca; ma il freddo, la stan-chezza e la fame causarono il mio solito giramento di te-sta e caddi di faccia sul cemento, svenuto.
Il nuovo capo era anch'egli austriaco come il preceden-te, ma a differenza del primo era molto violento ed ag-gressivo. Aveva un aspetto truce e tra le mani aveva sem-pre un tubo di gomma, pronto ad usarlo contro quei pri-gionieri che a suo dire erano i soliti lavativi.
Questi, non credendo al mio improvviso malore, e pensando che non avessi voglia di lavorare, mi frustò con il tubo di gomma, peggiorando, così, il mio stato di salu-te. A nulla valsero le difese dei miei compagni di sventu-ra, che in tutti i modi cercarono di evitarmi quella puni-zione. Spiegarono al bruto che, il mio malessere era reale, non un modo di evitare il lavoro. L’unico risultato che ot-tennero fu quello di essere frustati a loro volta dall'au-striaco che, dopo essersi sfogato a dovere, permise che fossi portato in infermeria dove una suora si limitò a mi-surare la temperatura.
Ero tutto bagnato, sporco ed impastato di cemento con la febbre a trent’otto gradi. Questo sarebbe stato un buon motivo per giustificare una mia eventuale assenza dal la-voro nei giorni successivi, ma il bruto presentò ai supe-riori un rapporto distorto e menzognero, tanto che gli uf-ficiali tedeschi mi comminarono tre giorni di prigione da farsi sotto una tenda, al freddo e con poco cibo. Allo sca-dere del terzo giorno, infine, sarei dovuto rientrare, im-mediatamente, al lavoro.
Durante la notte, mentre gli amici dormivano, profon-damente stanchi, dopo aver passato una giornata di lavoro in mezzo alla neve, mi sentii molto male. Un freddo geli-do attraversò il mio corpo, cominciai a sudare freddo e tremare come una foglia, a tal punto da svegliare i miei compagni che, preoccupati del mio stato di salute mi por-tarono immediatamente in infermeria. Alle prime ore del mattino fui visitato da un ufficiale medico, il quale, costa-tato il mio stato di salute, prescrisse sette giorni di riposo assoluto.
Ricordo con piacere la settimana di ricovero trascorsa nell’infermeria del campo, dove, se non altro, si mangia-va discretamente. Infatti, oltre alla razione giornaliera ci davano anche gli avanzi della mensa ufficiali tedeschi. Tra le altre cose c'era del riso cotto condito con zucchero e quasi giornalmente avevamo delle mele cotte zucchera-te.
L’ultimo giorno di ricovero, arrivò dal comando una circolare in cui si affermava che, i malati ritenuti gravi, dovevano essere trasportati al campo Putin dove avrebbe-ro trascorso un ulteriore mese di convalescenza. Questa notizia, ovviamente, ci rese gioiosi e noi tutti malati nu-trimmo la speranza di rientrare nel numero di coloro i quali avrebbero dovuto raggiungere Putin, potendo così usufruire di un ulteriore mese di riposo. Ma, un mio com-paesano, di San Severo, che era infermiere in corsia, mi avvisò dicendo di non illudermi più di tanto, perché, al campo c'erano malati molto più seri e bisognosi di riposo rispetto a me.
Non persi la speranza, fiducioso nel suo aiuto, promisi all’infermiere che, se fosse riuscito in qualche modo ad inserirmi nella lista dei cinquanta malati da inviare al campo di Putin, l'avrei ricompensato con le trenta sigaret-te di razione mensile che a giorni avrei dovuto ricevere.
È da sapere che, per noi prigionieri, quelle sigarette avevano un valore superiore ai soldi.
In verità, il compaesano s'interessò al mio caso; fece notare all’ufficiale medico che ero così debilitato da non poter sopportare il regime carcerario e lavorativo del campo; ottenne, così, che fossi visitato il giorno seguente dalla commissione medica giudicante. Infatti, l’indomani fui sottoposto a visita medica; avevo un peso di appena trenta chili, ed anche se c'erano altri prigionieri che alla visita presentavano carenze fisiche forse superiori alle mie, fui ugualmente inserito nella lista di coloro che a-vrebbero raggiunto il campo Putin..
All'alba del giorno seguente, ci radunarono nel cortile e dopo l’appello ci portarono nella stazione di Linz per prendere il treno ed essere trasferiti. Abbracciammo e sa-lutammo gli amici rimasti; naturalmente nei loro occhi era visibile l'invidia che legittimamente provavano nei nostri confronti, coscienti del fatto che saremmo andati in un campo senz’altro migliore, dove il trattamento sarebbe stato molto diverso, meno rigoroso e senza la costrizione di lavorare come schiavi al freddo.
A mezzogiorno in punto, arrivammo al campo interna-zionale di Putin. Appena giunti, provammo la sensazione d'essere più vicini all’Italia, perché qui erano ospiti pri-gionieri di tutte le nazionalità; trovammo americani, russi, francesi. C'era molta allegria in quel posto; le radio acce-se nei vari cortili trasmettevano musica e notizie inerenti l’avanzata degli americani. Tutto ciò alimentava in noi la speranza in una celere conquista da parte degli alleati ed una nostra conseguente liberazione.
Il cibo a disposizione in verità non era molto, ma, senz’altro era migliore. In ogni caso avevamo la possibili-tà di procurarcelo lavorando per i contadini della zona. Infatti, questi, ogni mattina, venivano al campo alla ricer-ca di volontari che lavorassero nelle loro campagne; per ricompensa avrebbero avuto pane e patate. Oltre ai conta-dini c'erano anche gli americani ed i francesi, che, in cambio di servigi da parte nostra, come quello di lavare loro la biancheria o altro, ci offrivano parte del contenuto dei pacchi destinati a loro dalla croce rossa internaziona-le. Ci rifornivano soprattutto di sigarette.
Al mio arrivo, da alcuni prigionieri italiani, seppi che, prima di me, c'era stato un mio paesano, rientrato poi al campo d'appartenenza. Dalle loro descrizioni riconobbi chi fosse, era una brava persona. Avendo saputo che al-loggiava al campo ventidue gli scrissi immediatamente per ricevere sue notizie.
Ogni tanto scrivevo anche a mia madre. Avevo poche speranze di ricevere risposta, perché, in quel periodo, l’Italia era divisa in due fronti di guerra, e per le condi-zioni disastrose delle linee ferroviarie, era molto difficile ed alquanto problematico ricevere o inviare posta.
I giorni passavano in fretta e, come un incubo, si avvi-cinava sempre più la data del rientro al maledetto campo venticinque. Non volevo abbandonare questo campo, so-prattutto non volevo tornare nel mio d'appartenenza ed essere trattato come una bestia da quel porco di un au-striaco.
Quando ormai sembrava che tutto fosse perduto, ed avevo perso ogni speranza, dal comando tedesco arrivò una circolare nella quale si diceva che ogni prigioniero, avrebbe avuto la possibilità, se solo lo avesse voluto, di lavorare presso le campagne alle dipendenze dei contadi-ni del posto.
Presentai immediatamente domanda al mio diretto su-periore perché la inoltrasse al comando sperando arden-temente in una sua accettazione. Pensavo che questo fos-se l’unico modo per evitare il rientro al campo lager. In essa specificai anche che in Italia il mio mestiere era pro-prio quello di contadino così da evitare una probabile e-sclusione dalla graduatoria.
A soli tre giorni dalla fine della convalescenza, era e-sattamente il ventisettesimo di permanenza al campo Pu-tin, seppi che la mia domanda era stata accolta. La gioia che provai in quel momento fu indescrivibile; ero stato affrancato dalla schiavitù di una prigionia abietta e bece-ra, la peggiore che mai avessi potuto immaginare.
Il mattino seguente partimmo in treno e nel tardo po-meriggio arrivammo in un paese chiamato S. Florian. E-ravamo molto felici; al nostro arrivo ci portarono in una sezione militare dove ci fu rilasciato un visto di permes-so.
Ci schierarono tutti in fila, uno di fianco all’altro e, poiché c'erano più di milleduecento prigionieri, dovettero formare parecchie file per poter permettere ai contadini di attraversarle con facilità, e scegliere così tra i prigionieri, quelli più sani ed in salute, esattamente ciò che avveniva, di solito, nelle fiere di bestiame quando si dovevano sce-gliere gli animali da comprare o se volete come quando i romani decidevano di comprare e sceglievano i loro schiavi.
Ovviamente, la scelta ricadeva soprattutto sui prigio-nieri più robusti ed in buona salute. Ogni contadino che mi passava davanti, dopo un'eloquente smorfia negativa, non esitava un solo istante ad andare oltre, naturalmente scartandomi.
In verità, oltre ad essere magro e per niente robusto, la mia presenza scoraggiava i contadini; alla loro vista si presentava un individuo, con i capelli rapati a zero, con un pastrano rotto sulle spalle, una corda ai fianchi, posta lì per reggere la gavetta ed un cucchiaio, (cose che porta-vo sempre dietro nella speranza di poterli usare, e questo tra l'altro era una cosa sempre di più rara). Tutto questo certo non mi aiutava ad essere uno dei loro prescelti; ai loro occhi, infatti, sembravo più deperito di quando già non lo fossi.
Nel frattempo, tutti i prigionieri che erano stati scelti erano partiti con i loro nuovi padroni. Nel cortile ero ri-masto soltanto io, un amico leccese ed un altro siciliano. Il pensiero che nessuno ci aveva scelto ci atterriva; sa-remmo tornati certamente al campo lager. Ad un tratto, da lontano, notammo un carretto che veniva incontro a noi, ed alla cui guida c'era un garzone che, a prima vista, sem-brava essere un ritardato mentale. Questi faceva ampi ge-sti, con le mani, verso di noi, invitandoci a salire sul suo carro. Increduli, lo seguimmo, e con gran nostro stupore, ci ritrovammo in una campagna, destinazione finale del nostro viaggio. L'epilogo di questa giornata, così rocam-bolesco, ci lasciò esterrefatti; eravamo davvero contenti.
Dopo il nostro arrivo alla fattoria, non ci separammo più, lavorammo insieme, diventando amici per la pelle.
Il nostro nuovo padrone era austriaco; ex prigioniero della prima guerra mondiale, aveva scontato la sua pri-gionia in Italia, pertanto, non amava gli italiani ed in par-ticolar modo, nutriva una forte antipatia nei miei confron-ti e, per quanto mi sforzassi, non riuscii mai a capirne il motivo.
La sua famiglia era composta oltre che dalla moglie, da quattro figli tutti adulti, di cui, tre giovani ragazze ed un maschio. Insieme a noi tre italiani c’erano anche altri due prigionieri, uno di nazionalità russa l'altro ucraina che, già da diverso tempo lavoravano con questi contadini
Dagli sguardi incuriositi delle loro figlie ebbi netta la sensazione che non avevano mai visto di persona dei pri-gionieri italiani; la mia impressione fu quella che que-st'incontro facesse loro molto piacere, considerando an-che il fatto che, forse, ci consideravano ancora loro allea-ti.
Infatti, ricordo che, al nostro arrivo, trovammo l’intera famiglia schierata davanti la porta d’ingresso, pronta ad accoglierci con dei sorrisi misti a curiosità ed ansia di co-noscerci.
Dopo averci fatto accomodare alla loro tavola, la pri-ma cosa che chiesero fu se avevamo fame. A questa loro richiesta, non tardammo un secondo a rispondere di sì poiché, oltre ad essere molto stanchi, eravamo a digiuno da oltre ventiquattro ore.
Mangiammo senza indugio tutto quello che misero a nostra disposizione. Ricordo ancora adesso l’avidità con la quale divorai un grosso piatto di purea di patate. Incu-rante degli sguardi incuriositi di tutti i presenti e sopratut-to della famiglia che continuava a farmi delle domande, tra un boccone e l’altro rispondevo di sì anche con il solo gesto del capo.
Continuai a mangiare a sazietà, bevendo del mosto ed accompagnando i crauti con del pane nero. Alla fine del pranzo ricordo che non riuscivo più a reggermi in piedi tanto ero sazio e soddisfatto. La notte ci fecero dormire tutti e tre in una stanza, poi questa fu chiusa a chiave da una sentinella tedesca. Infatti, tutte le sere alle venti que-sti sorveglianti passavano per le fattorie dove erano pre-senti dei lavoratori prigionieri e provvedevano a rinchiu-derli dentro le stanze da letto.
Nella camera c’erano tre letti morbidi e molto comodi, di lana vaporosa così alta che i nostri corpi sprofondava-no al suo interno quasi a scomparire. Dopo che la guardia fece il suo giro, prima di addormentarci, continuammo per circa un'ora a pensare a quanto cibo i contadini ci a-vevano messo a disposizione; eravamo increduli per tanta grazia ricevuta, non capitava da tanto tempo che qualcuno ci avesse trattato da esseri umani.
La nostra convinzione era che, considerata l'ospitalità che ci avevano riservato al nostro arrivo e considerando la stanchezza per il viaggio da noi affrontato, il giorno seguente i nuovi padroni avrebbero concesso una giornata di riposo; ma non fu così.
Il mattino seguente, infatti, alle quattro e mezza, una delle figlie del padrone venne a darci la sveglia e ci per-suase ad alzarci immediatamente per iniziare il lavoro. Era ancora buio, quando attraverso la finestra della mia stanza, vidi i miei due amici incamminarsi per i campi in compagnia del padrone, io, invece, fui destinato a compiti che la signora stessa mi avrebbe assegnato.
Per iniziare, la figlia del padrone mi portò nella stalla per mungere una decina di vacche, poi mi spiegò come pulirla dallo sterco degli animali. Non avendolo fatto per bene, ricevetti il primo rimprovero dalla padroncina che, vista la mia inesperienza s'insospettì e mi chiese se vera-mente in Italia avessi lavorato come contadino. Io, senza malizia, risposi di no, e lei arrabbiandosi molto, mi disse che suo padre aveva chiesto dei prigionieri esperti del mestiere e non persone incompetenti. Tutto sommato, la giornata terminò in maniera positiva perché, anche in quest'occasione, ero riuscito ad imparare qualcosa di nuovo che sicuramente mi sarebbe tornato utile in avveni-re. Al di là di tutto la mia speranza era sempre quella di tornare a Foggia. Il mio cuore era costantemente afflitto dal pensiero che la mia vita dovesse consumarsi e spe-gnersi in una landa sperduta della Germania nazista, terra che non teneva in alcuna considerazione la dignità uma-na.
Il mattino seguente al canto del gallo, dopo essermi svegliato, mi fu offerta la prima colazione che consisteva in latte, pane e caffè. Mi diedero una falce dal lungo ma-nico ed insieme alla padroncina e gli altri due prigionieri stranieri, ci avviammo verso i campi.
Maneggiando quell'attrezzo così lungo e inusuale per me mi sentii subito in grande difficoltà, e col passare del-le ore quest'arnese, mai usato in precedenza, divenne sempre più pesante nelle mie mani.
Ad un certo punto, accadde un episodio che avrebbe potuto cambiare in peggio la mia vita, per mia fortuna pe-rò, tutto passò quasi inosservato. Dopo alcune ore di lavo-ro, infatti, persi il controllo della falce che scivolò dalle mani ed andò a colpire la gamba della figlia del padrone la quale essendo nelle vicinanze, si procurò un taglio ab-bastanza profondo ad una gamba
Mi sentii spacciato, rimasi immobile, non sapevo cosa dire, come discolparmi, come giustificare la mia imperi-zia. La ragazza in quell'occasione fu molto buona e com-prensiva; mi tranquillizzò dicendomi di stare bene e pro-mise di non riferire nulla dell’accaduto a suo padre. Ri-masi veramente sorpreso da tanta sua generosità.
La giornata di lavoro terminò dopo aver sparso il leta-me per i campi in compagnia del russo e dell’ucraino con i quali, poi, nacque un profondo rapporto di amicizia
Durante il giorno erano concesse due soste durante le quali la padroncina, alle nove del mattino portava pane, patate ed un po' di prosciutto il tutto accompagnato da qualche bicchiere di mosto, a mezzogiorno, ci permetteva di pranzare sotto qualche albero, la sera poi, prima di an-dare a dormire, si cenava nella masseria in compagnia degli altri prigionieri, ovviamente eravamo stanchissimi. In particolare io soffrivo molto questo tipo di lavoro per-ché, oltre alla giornata molto lunga e faticosa, non avevo il fisico abituato a raccogliere pesi ed usare attrezzi agri-coli. Per contro il mangiare era abbondante ed ottimo nonché genuino. Non ricordo di aver mangiato così tanto in vita mia, neanche a casa dove vissi gli anni della mia infanzia e quelli dell'adolescenza, tra stenti e privazioni di qualsiasi genere.
Dopo una quindicina di giorni di duro lavoro nei cam-pi, sempre curvo sollevando pesi, contrassi un forte mal di schiena tanto che fui costretto a riposo quasi per una settimana intera. Dopo la quale guarii completamente.
Con il passar del tempo mi abituai a questo tipo di la-vori molto gravosi, divenendo il migliore tra i prigionieri ed anche il più svelto, tanto da conquistarmi l'ammirazio-ne del padrone e dei componenti l’intera famiglia che presero a volermi un gran bene.
Le cose volsero al meglio, soprattutto dopo l’invio di una circolare da parte del comando tedesco nella quale si precisava che noi prigionieri dovevamo essere considerati in posizione d'internati e pertanto potevamo godere di una maggiore libertà. Era concessa pertanto la possibilità di allontanarsi, non più di trenta chilometri dalla masseria presso la quale si alloggiava, mentre prima non si poteva uscire per nessun motivo senza l’ordine della sentinella tedesca o del padrone.
Questo ci permise di andare a trovare gli amici, inter-nati in altre masserie e, nella speranza di ricevere posta da casa andavamo spesso in visita al paese di San Florian in prossimità del comando tedesco.
Inaspettatamente una domenica mi consegnarono ben dieci lettere provenienti da casa. Per me quello fu uno dei più bei giorni trascorsi in prigionia, perché dopo aver at-teso invano e per tanto tempo notizie dai miei cari, non avrei mai immaginato di poterne ricevere tante e tutte in un sol giorno. Lessi e rilessi quelle lettere cento volte, immaginando di trovarmi a casa in compagnia dei miei, ed ogni volta che prendevo una lettera per rileggerla, an-nusavo il contenuto della busta, nella vana speranza di re-spirare un po' d’aria della mia città. Ormai la lettura delle notizie era per me divenuta un culto quasi religioso di cui non riuscivo a farne a meno.
Nel ripensare oggi alla ritualità con cui aprivo la posta proveniente da casa, mi viene da sorridere e quasi mi ver-gogno di averne parlato in questo diario, ma allora, in quel contesto ed in quella situazione tragica queste cose erano per me molto importanti, ed anche se possono sem-brare stupidaggini, in quel tempo esse avevano un senso, m'infondevano tranquillità, speranza e forza. Attraverso questi piccoli gesti nutrivo la speranza che al mio ritorno in patria avrei trovato oltre ai miei cari, tutto ciò che, a causa degli eventi come appunto la guerra, mi era stato brutalmente strappato anche contro la mia volontà. Oltre alla posta, nei giorni successivi ebbi anche, da parte della croce rossa italiana, un pacco viveri.
Un giorno, presso la masseria in cui lavoravo, venne a trovarmi un compaesano. Il padrone presso il quale lavo-rava non era buono come il mio, lo trattava molto male. Dopo averlo fatto mangiare e dormire, gli regalai anche l’intero pacco che avevo ricevuto della croce rossa. Ci volevamo molto bene, ci univa un affetto quasi fraterno, ed ogni settimana ci scrivevamo a vicenda per sapere no-tizie l’uno dell’altro nella speranza di tornare presto a ca-sa.
Restai a lavorare presso i contadini per tutto il periodo estivo, ma un brutto giorno il padrone mi chiamò dicendo che poiché il lavoro era finito non poteva trattenermi oltre senza una giustificazione plausibile, pertanto era costretto a licenziarmi ed avvisare il comando tedesco. Al mattino del giorno successivo mi diede il foglio di licenziamento, la colazione per l'intera giornata e mi esortò, chiedendo di raggiungere l’ufficio di collocamento di Linz.
Ero tanto affezionato a questa famiglia ed agli altri prigionieri sia italiani che stranieri, che allontanandomi dalla masseria riprovai, in qualche modo, la stessa ango-scia e la stessa tristezza che ebbi quando mi staccai dai miei parenti. Nel percorrere il viale che separava la strada dalla tenuta scoppiai a piangere.
Alcuni amici, che lavoravano per i proprietari dei ter-reni vicini a quelli del padrone, nel vedermi andar via, godendo della loro stima guadagnata dopo mesi di duro lavoro, mi rincorsero per il viale, mi baciarono mi ab-bracciarono e nello stesso tempo m'infondevano coraggio.
Verso le nove di sera arrivai alla stazione di Linz, su-bito mi accorsi di essere tornato alla triste realtà della guerra. In questa città, i bombardamenti erano continui ed incessanti, con colpi di mortaio e raffiche ininterrotte di mitragliatrice. Inoltre gli americani lanciavano bombe a tempo, provocando così parecchie vittime tra la gente ci-vile, che ignorando la pericolosità di questo tipo di ordi-gni, percorreva la strade ed i viali della città inconscia del pericolo cui andava incontro. Ero come un bambino smarrito ed insicuro che continuava a camminare senza meta in una città grande e sconosciuta piena di pericoli; non sapevo a chi rivolgermi per avere informazioni, vole-vo soltanto raggiungere, al più presto possibile, l’ufficio di collocamento.
Dopo aver vagato per qualche ora in quella bolgia in-fernale, ad un tratto vidi un gruppo di persone intente a disinnescare bombe ad orologio. Avvicinandomi scoprii che erano italiani che in mancanza di lavoro accettavano anche di fare gli sminatori con tutti i rischi e pericoli an-nessi. Chiesi loro informazioni circa l’ufficio di colloca-mento che puntualmente mi fornirono, ma allontanando-mi, dopo appena un minuto, udii un esplosione provenire proprio dalla parte dove quella gente lavorava. Ritornai di corsa sul posto, mi si presentò una scena allucinante; as-sistetti, infatti, alla morte di tutti gli italiani, colpiti dalle schegge della bomba che avevano appena disseppellita e sepolti dalle macerie. A quella vista raccapricciante rima-si sconvolto, pensai subito a quanto ero stato fortunato nel lasciare un minuto prima i miei connazionali, e scap-pando, terrorizzato, da quel luogo maledetto, meditavo sulla triste sorte toccata a quei poveracci che avevano perso la vita per estrarre quella bomba ad orologeria.
Raggiunsi finalmente l’ufficio di collocamento. En-trando trovai un’interprete tedesca alla quale mi rivolsi per chiedere se fosse stato possibile avere un ingaggio presso una fattoria indicatami dal vecchio padrone. Mi fu subito riferito che questa era distante circa una trentina di chilometri dalla città ed era andata interamente distrutta sotto un recente bombardamento. Sperando che l'interpre-te tedesca si fosse sbagliata, intenzionato comunque a raggiungerla ad ogni costo, pensavo che questa fosse l’unica soluzione possibile ai miei problemi;, mi incam-minai, pertanto, senza sapere neanche la giusta direzione.
Ad un tratto notai un via vai di gente che scappava ter-rorizzata. Mi fermai per chiedere il motivo di tanta fretta, mi fu risposto che gli americani, di lì a qualche minuto, avrebbero bombardato Linz e che sarebbe stato opportuno anche per me trovare un ricovero come copertura.
Ero da poco arrivato in città, non conoscevo alcun ri-fugio antiaereo, non sapevo dove andare, il panico per un attimo mi bloccò le gambe, cominciai a correre all'impaz-zata fino ad arrivare nella vicinanze di un ponte al di sotto del quale scorrevano le acque del Danubio. Le sentinelle che presenziavano, vedendo me varcare il ponte di corsa, si affannarono con gesti eloquenti ad indicare di attraver-sarlo con cautela, perché era pericolante. Ma io avevo fretta; sentivo sopra la testa il sordo rumore degli aerei che si avvicinavano velocemente con un rombo da far rabbrividire; alzando la testa vidi che erano un’infinità e pronti a lanciare sulla città il loro carico di morte.
Di lì a poco iniziò il bombardamento, la terra tremava sotto l'incalzare delle bombe, il cielo era divenuto scuro, l’aria irrespirabile. La polvere che si era sollevata dalle buche createsi sul terreno, rendeva la situazione ancor più insopportabile. Lo spostamento d'aria causato dall'impatto delle bombe sul terreno fu violento, all'improvviso mi ri-trovai scaraventato giù dal ponte senza conoscenza.
Mi risvegliai dall’incoscienza, grazie ad una donna che mi suggerì di andar via in fretta da quel luogo, perché ciò che era rimasto del ponte era così pericolante che sarebbe crollato all'improvviso investendomi in pieno. Fu anche molto gentile tanto da chiedermi dove fossi diretto e pri-ma di indicarmi la via da seguire mi confidò che con ogni probabilità ero rimasto lì privo di conoscenza per circa tre ore, esattamente per tutta la durata dei bombardamenti.
Durante il tragitto, vidi la grande devastazione che i bombardamenti americani avevano provocato. I campi erano pieni di grosse buche causate delle bombe, i fabbri-cati dei contadini incendiati, le loro stalle distrutte, nelle vicinanze c'erano cadaveri di persone disseminati un po' ovunque e molti animali erano ancora agonizzanti.
A tarda sera, dopo tante peripezie, giunsi a destinazio-ne, cioè nella campagna che il mio ex padrone mi aveva indicato. Mi resi subito conto che quanto la signorina da me interpellata nell’ufficio di collocamento di Linz aveva detto, corrispondeva a verità. Non a caso, quest'ultima si ere preoccupata di informarmi sul disastro che era avve-nuto nella zona, dove appunto ora mi trovavo, e mi aveva sconsigliato anche di raggiungerla, data l’eccessiva di-stanza che avrei dovuto coprire a piedi sotto l'incedere dell'offensiva nemica.
Trovai il padrone affranto e sconsolato. Mi disse, tra le altre cose, che durante gli ultimi bombardamenti aveva perso sei mucche e tre cavalli, nonché la quasi totale agi-bilità del fabbricato. Comunque, aveva la necessità di ri-mettere a posto la sua fattoria, ed era intenzionato a sgombrare dalle macerie la sua tenuta. Per questo motivo mi offri la sua ospitalità ed un lavoro.
Dopo due mesi, lavorando duramente, riuscimmo a rimettere in piedi la fattoria. Per un lungo periodo il pa-drone fu costretto a dormire presso alcuni vicini, io inve-ce dovetti accamparmi nel fienile.
Anche questo padrone fu molto riconoscente nei miei confronti. Aveva visto, infatti, che mi dedicavo con pas-sione al lavoro, e a differenza degli altri due operai una tedesca ed un polacco, mi trattava quasi come un figlio, senza lesinare il mangiare, anzi sotto questo aspetto notai che si comportava meglio del contadino precedente.
Purtroppo un’altra tegola si abbatté sulla famiglia di questo mio nuovo datore di lavoro. Oltre alla moglie ave-va una figlia diciottenne, bellissima, che purtroppo morì, dopo essersi ammalata di tifo. Questo fatto gettò nello sconforto non solo la sua famiglia che visse questa trage-dia come un'altra ferita mortale infertagli dal destino, ma anche tutti noi lavoranti alle loro dipendenze.
Anche se colpito così duramente dalla perdita della sua unica figlia, nonché dalle devastazioni subite a causa dei bombardamenti, il padrone cercò di reagire con forza ai tragici eventi abbattutisi sulla sua casa.
Intanto, il mio paesano, venuto a conoscenza della mia nuova sistemazione, venne a trovarmi per informarsi sulle mie condizioni. Anche questa volta gli andai incontro riempiendo il suo zaino di carne, perché, nei giorni pre-cedenti il suo arrivo, incaricato dal padrone, ero andato in soccorso della vicina fattoria bombardata dagli alleati, ed avendo trovato le carcasse di tre maiali appena uccisi dal-le schegge, ne avevo approfittato per prelevarne le carni. Ovviamente andò via molto contento. Al carico di carne, infatti, avevo aggiunto anche un sacco di patate perché sapevo che nel suo campo erano presenti anche altri miei paesani, e che, purtroppo, non erano trattati come me. Nel salutarlo promisi di andare a trovarlo quanto prima al suo campo. La domenica successiva, infatti, così feci, rag-giungendolo al campo ventidue.
Giunto al campo, fu per me una grande gioia riascolta-re la lingua natia, risentire parlare tra i miei amici l'amato dialetto foggiano, mentre tutti venivano incontro abbrac-ciandomi e comunicandomi le notizie più recenti prove-nienti dall'Italia.
Poiché i miei amici erano molto pratici della città, in loro compagnia andai a Linz, dove mi divertii parecchio. In quell'occasione ricordo di essere andato al cinema. Le proiezioni, per sicurezza, si svolgevano al mattino; a mezzogiorno all'uscita del cinema raggiungemmo una trattoria dove pranzammo.
Purtroppo quello non fu un pranzo tranquillo: fummo interrotti in anticipo perché era imminente un attacco ae-reo ed era pertanto opportuno raggiungere al più presto un rifugio. Dovemmo così, nostro malgrado, abbandonare la locanda e raggiungere un posto dove ripararci.
I bombardamenti durarono due ore, all’uscita dal rifu-gio ai nostri occhi si presentò una città spettrale, quasi to-talmente distrutta ed avvolta in un denso fumo nero dal-l'acre odore di morte.
Rimasi molto scosso da quest'ultimo bombardamento, tanto da giurare ai miei amici che non sarei più andato a trovarli in città, ma che li avrei rivisti solo se fossero ve-nuti loro in campagna, dove mi sentivo senz’altro più al sicuro. Ove ciò non fosse stato possibile, ci saremmo in-contrati alla fine della guerra se Dio lo avesse permesso.
Un altro compito che mi fu assegnato dal padrone, era quello di portare tutti i giorni, con il carretto, della legna al campo dei prigionieri politici, i quali erano sottoposti ad un regime di carcere duro, con lavori forzati e discipli-na da lager. Questi prigionieri provenivano da varie na-zioni, una volta catturati, erano deportati nei campi nazi-sti. Vestivano tutti una tuta di colore identico, erano fa-cilmente riconoscibili per una rasatura centrale sul capo che sembrava dividesse in due la testa. Inoltre erano mar-cati con un numero di matricola sul petto e sulle spalle avevano una striscia bianca, tutto ciò per evitare che nella remota eventualità di una fuga, potessero nascondersi fa-cilmente e a lungo, perché perfettamente identificabili.
Al mio ingresso nel campo ero perquisito e guardato a vista dalle sentinelle tedesche, che non mi permettevano né di fermarmi né di avvicinarmi ai prigionieri per nessun motivo. Alla vista di questi relitti umani provavo molta pena; deperiti com’erano quasi non si reggevano in piedi e quando qualcuno di loro non riusciva più ad alzarsi a seguito di una caduta, era portato di peso ai forni e cre-mato senza alcuna pietà nonostante fosse ancora in vita.
In questo campo di tortura e di morte chiamato Ma-thausen e distante circa quaranta chilometri da Linz in territorio austriaco, erano ammazzati centinaia di prigio-nieri politici al giorno; ancora oggi non riesco a dimenti-care, tanto la mia mente ne è rimasta impregnata, l’odore di morte che si respirava, ancor prima di entrarci dentro. Nel varcare il cancello d'ingresso si aveva netta la sensa-zione di essere entrato in un girone infernale da cui sa-rebbe stato impossibile uscirne fuori.
Ormai era giunta la primavera del 1945 ed io conti-nuavo a lavorare con i contadini. Intanto le notizie sull'a-vanzata russa ed americana sui vari fronti di guerra, si fa-cevano sempre più insistenti, di giorno in giorno, in noi prigionieri internati, la speranza su un'imminente libera-zione si faceva sempre più plausibile. Anche il compor-tamento dei tedeschi, divenuti più miti e meno arroganti nei nostri confronti, aumentava le nostre attese. Avevano perso quell'aria di superiorità che li aveva contraddistinti in tanti anni di guerra. Non incutevano più terrore, ora al contrario avevano paura delle nostre reazioni, coscienti del fatto che erano stati i nostri aguzzini, maltrattandoci oltre ogni misura.
I bombardamenti in questa fase della guerra, si fecero sempre più frequenti ed incessanti; gli alleati cercavano di dare l'ultima spallata al regime nazista, era quasi im-possibile lavorare all’aperto perché si rischiava di essere colpiti sia dagli americani sia dai tedeschi. Un giorno io ed un'operaia tedesca, comandati dal padrone, andammo fuori a tagliare la legna, in quell'occasione rischiammo seriamente di essere colpiti dalle schegge delle bombe americane, lanciate dagli aerei in sorvolo sui cieli della fattoria. La guerra, senza accorgermene, volgeva al ter-mine, le radio diffondevano le notizie non più solo in lin-gua tedesca, ma spesso in inglese e russo.
Un giorno presi la decisione di andare via dalla fatto-ria. Ero molto combattuto, non riuscivo a trovare una so-luzione, non sapevo se comunicare o meno questa mia in-tenzione al padrone. In seguito decisi di andar via senza neanche avvertirlo. Non so perché lo feci, ricordo però che avevo una gran voglia di correre dai miei amici al campo ventidue, intuivo che gli americani sarebbero arri-vati di lì a poco a liberarci, ed a quest'evento volevo esse-re presente insieme agli altri prigionieri del campo per accogliere con loro la liberazione che si faceva sempre più vicina.
Arrivai con ansia al campo avido di sapere notizie, ero fiducioso. Gli amici che mi aspettavano da molto tempo dissero che gli alleati erano ormai entrati a Linz e che nessuno di loro lavorava più ormai da tre giorni. Gli ame-ricani, infatti, avevano liberato tutti i prigionieri e conces-so una settimana di libertà prima di presentarsi ai loro comandi per l'identificazione.
Il giorno seguente decidemmo di andare in città per accogliere, festanti, gli americani. Questi, in segno di a-micizia, dispensavano a tutti cioccolato e sigarette, entra-vano nei negozi con i carri armati invitandoci a prelevare dai banconi tutto ciò che potevamo desiderare. Noi tutto questo lo intendemmo come una specie di risarcimento danni per le umiliazioni subite in anni di guerra, ma in re-altà i nostri liberatori, assicurandoci le provviste alimen-tari, volevano evitare che tra noi si potessero venire a cre-are dei problemi a causa del cibo. Erano consci del fatto che non potevano prenderci immediatamente in conse-gna; agendo così avrebbero avuto la possibilità di operare con più calma. Per tutta la notte partecipammo alla razzia della città tanto da portare al campo provviste che ci sa-rebbero bastate per quasi un mese.
Nei giorni seguenti, ormai libero da obblighi di lavoro, decisi di tornare alla fattoria da cui ero quasi fuggito; a-vevo una gran voglia di salutare il mio vecchio padrone che mi aveva trattato così bene durante i mesi trascorsi nella sua tenuta, e con il quale avevo condiviso le gioie e i dolori degli ultimi mesi di guerra. Era veramente un brav’uomo quest'austriaco, il quale mostrò la sua bontà d'animo anche ora che la guerra era finita; quando mi vi-de si preoccupò sopratutto di pagarmi l’ultimo mese di lavoro prestato nella sua fattoria. Io naturalmente rifiutai quel danaro anche se ne potevo avere bisogno. In quei giorni i soldi per me erano l’ultima cosa cui pensare, la libertà riacquistata aveva un valore supremo. Ci abbrac-ciammo e nel salutarlo mi commossi. Andai via dispia-ciuto.
Tornato al campo trovai i soldati americani, che dopo averci disarmato ci presero in consegna al fine di preveni-re eventuali incidenti. Nei giorni successivi oltre a prov-vedere alla nostra pulizia personale, con una pulizia radi-cale disinfestarono anche le celle che erano sporche e piene d'insetti.
Nei giorni seguenti, passavamo le nostre ore fantasti-cando sul nostro futuro, pensavamo a quanto eravamo stati fortunati in tante occasioni, a quante volte il buon Dio ci aveva risparmiato la vita; immaginavamo quanto sarebbe stato bello ed emozionante il nostro ritorno in Ita-lia. Eravamo impazienti, volevamo al più presto raggiun-gere il nostro paese d’origine, rivedere finalmente i nostri cari.
Dopo alcune settimane i nostri desideri stavano per re-alizzarsi, l'agognato ritorno in patria si avvicinava. Ci comunicarono, infatti, che saremmo partiti di lì a breve e che durante il viaggio avremmo potuto portare con noi non più di cinque chili di roba. Alcuni prigionieri dovet-tero liberarsi della biancheria in eccesso consegnandola agli americani, altrimenti le rigide regole imposte non gli avrebbero permesso di partire.
L'euforia in quei momenti era tanta, la gioia che perva-se i nostri cuori era indescrivibile, persino le baracche, che fino a quel momento erano state il luogo del nostro abbrutimento, sembravano diverse ai nostri occhi, quelle stesse che prima erano piene di tristezza e disperazione, ora risuonavano di canti e di festa, erano tornate ad avere una dimensione più reale, più umana.
Era la mattina del 24 giugno 1945 quando lasciammo il campo ventidue di Linz alla volta della stazione ferro-viaria. Con i nostri cinque chili di masserizie personali, il cuore traboccante di allegria e la colazione a sacco, che gli americani ci avevano fornito.
Alla partenza del treno diretto per l’Italia, esplose in tutti noi un'esultanza irrefrenabile che sancì la fine di un incubo. Ormai tutto era passato, ci buttavamo alle spalle anni di privazioni e di stenti, anni trascorsi annichiliti da tanta ferocia e disprezzo da parte dei tedeschi.
Cantammo per tutta la durata del viaggio, ad ogni so-sta nelle stazioni tedesche ci accanivamo a schernire il personale locale apostrofandolo con un’infinità di paro-lacce che sapevano tanto di rabbia inesplosa, subita per anni dai tedeschi. Dopo alcune ore arrivati nella stazione di Salisburgo, per i danni subiti da quest'ultima durante i bombardamenti, dovemmo scendere e trasbordare su un treno fermo su un binario a fianco al nostro. Questi tra-sbordi, per le cause sopra citate, avvennero anche in altre stazioni, sino a quando arrivammo al Brennero, dopo un viaggio durato alcuni giorni.
Giunti finalmente nella stazione di Bolzano, trovammo una marea di gente lì in attesa dei propri cari da riabbrac-ciare. Lacrime di gioia inondavano i volti delle persone, la loro felicità era quasi palpabile, sprizzavano esultanza da ogni poro della pelle. Queste furono le prime scene commoventi cui assistemmo. Nel proseguimento del viaggio ce ne sarebbero state altre. A Bolzano ci fecero scendere e ci portarono in una grossa sala d’aspetto per essere interrogati. Ci fecero delle domande cui dovemmo rispondere in modo circostanziato e molto preciso. Alcu-ne funzionarie del comando alleato, compilando dei que-stionari con delle macchine da scrivere, raccoglievano le nostre risposte. Le domande erano parecchie, vertevano sopratutto sul nostro luogo di prigionia, il reggimento d'appartenenza ed altre notizie di ordine strettamente mi-litare, alla fine ci fecero mangiare.
Nel pomeriggio non potemmo sottrarci alle domande dei parenti dei militari non ancora tornati dal fronte. Cer-cavano disperatamente di rintracciare i loro cari, sperava-no che almeno da noi potevano ricevere quelle notizie uti-li al loro ritrovamento.
Il giorno seguente riprendemmo il viaggio. La rete fer-roviaria in molti tratti era quasi inesistente, i continui bombardamenti a cui era stata sottoposta l'avevano resa inagibile. I trasbordi su camion si divennero necessari, per l'approvvigionamento dei viveri molte soste furono inevitabili; il tutto rese il percorso ancor più gravoso.
A tal proposito, il Santo Padre, diede disposizioni a tutti i sacerdoti delle chiese d’Italia, di rifornire gli ex prigionieri di ritorno in patria, assistendoli ed alloggian-doli lì dove fosse stato possibile, accorrendo nelle stazio-ni ferroviarie ad ogni loro arrivo.
Anche se malandata, il treno viaggiava speditamente sulla linea adriatica; la città di Foggia si avvicinava sem-pre più, dopo la stazione di San Severo erano rimasti po-chi militari sul treno, in prevalenza erano siciliani e cala-bresi. Io indossavo una divisa coloniale ed un fazzoletto rosso al collo. Nello zaino avevo conservato un chilo di pane nero tedesco, pensavo alla mia famiglia, sempre bi-sognosa di sostentamento; la mia principale preoccupa-zione, però, era quella di trovare tutti in buona salute. Non avevo avuto loro notizie da molto tempo.
Eravamo ormai vicini alla nostra città, io ed il mio a-mico foggiano ci guardammo negli occhi commossi e con il volto pieno di lacrime esultammo di gioia, quasi non credevamo di essere tornati a casa. Ad un tratto, scor-gemmo la torre del comune di Foggia, la c
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