racconti » Racconti brevi » Guardo Dentro
Guardo Dentro
Dodici lecci secolari contornavano la bella piazza immersa nel verde, del grande parco ad est della città. Oasi per studiare, far sega a scuola, passeggiare mano nella mano, pranzare in santa pace, lanciarsi sguardi indiscreti, ricordare i tempi passati, giocare a carte sui tavoli di pietra, incontrare amori clandestini. Perchè lì, nel quadrato, in quel quadrato, nel bel mezzo a tutto il verde, solo i meno frettolosi potevano arrivare. Voleva dire, conoscere scorciatoie tra i piccoli viali della grande macchia; e non c'erano altalene o giochi per i bambini, non c'era una zona per pattinare o darci dentro con lo skate. Li', ci andavi solo se avevi bisogno di quello spazio, ordinato, isolato, tuo.
Dodici panchine, sotto ogni albero, lungo il perimetro color terra e al centro una vasca-fontana della stessa foggia della piazza. Quadrata. Attorno, sedute in pietra a formare un muricciolo continuo dove restare con i piedi a mollo nelle calure estive.
E il silenzio... possente, si intervallava con il vento. Neanche i telefonini erano ammessi e l'i-pod era un sacrilegio. La musica la sentivi ugualmente, sempre arrivare da qualche metro più in la. Potevi seguirla trascinandoti tra i tronchi e piccoli arbusti, calpestando legnetti e i frutti degli alberi, per ottanta, cento passi, fino a giungere al vialetto di ghiaia bianchissima, dove il “violinista delle diciotto” faceva cadere il suo cappello di panno rosso, prima di intonare qualche ballata lontana. Ti trovavi proprio alle sue spalle, fino a vedere le dita sulle corde dall'anima sintetica e l'archetto metterle in vibrazione, in breve tempo ricordarsi che c'erano altre cose da fare e ritornare verso lo spazioso quadrilatero. Appena calpestavi il selciato, era istintivo frugarsi nelle tasche, nelle borse e liberarsi finalmente delle mille cartacce della mattinata, indirizzandole nell'unico cestino presente.
In legno scuro, ormai scrosticciato, con in bella evidenza l'anima di rete in metallo. “Resisterà agli anni”, avevano detto. E così era stato. Dalla sua inaugurazione era rimasto li, nella buona e nella cattiva sorte, come un religioso sposalizio tra lui e il parco.
Quelle variopinte cartine le accoglieva come sempre, come si ricevono coriandoli a carnevale, te li lasci cadere addosso anche se danno un leggero fastidio. Perchè di cose ne aveva ricevute in tutti quegli anni, e quei sottili fogliettini erano roba da niente.
Era Peggio, molto peggio, quando alle tredici in punto, con il suo passo lento si sedeva sulla panca alla sua destra, Arturo, l'impiegato dal vestito grigio perla. Il suo sacchetto portapranzo era sempre quello dalla M gigante.
Si sistemava a gambe giunte, senza scomporsi, con movimenti schematici, aprire il piccolo contenitore e addentare il pasto trasudante salsa. Poi si guardava intorno, nessuno che si sedesse vicino a lui. E questo lo stritolava. Proprio la sensazione che provava quando boccone dopo boccone rendeva veloce quella sosta che era diventata un tormento. Il palesarsi della sua totale solitudine. Il suo isolarsi per stare un po' in pace non lo sopportava più. Eppure era stata una sua scelta. ”No grazie, declino l'invito, ho bisogno di un po' di tranquillità, c'è troppo caos al bar sotto ufficio” aveva ripetuto meccanicamente all'invito dei colleghi che oramai non si degnavano neanche di considerarlo per un semplice caffè al distributore automatico.
La testa reclinata di lato nella postura perfetta e soltanto il suono della sua masticazione. Ogni movimento gridava, e quel grido si fermava come un nodo alla testa. Doveva far veloce e terminare quello strazio, tanto che il più delle volte lasciava cadere pane e companatico quasi intatto, come vomito indotto avvolto nella carta oleata, tra gli altri rifiuti accumulati. Si puliva la bocca con una fazzolettino di stoffa, che riponeva nella tasca, si guardava di nuovo intorno e ritornava ai suoi affari.
Di lì a poco sarebbe passato Nebbia, che, con fugace sicurezza, avrebbe allungato la mano e raccolto il ricco bottino, che oramai era certo di trovare, rifugiandolo nella tasca sdrucita della giacca in velluto. Avrebbe sostato a bordo vasca a prendersi un po' di sole, estate e inverno, aspettando qualche dono dal cielo.
Massimiliano lo trovava sempre un po' più ubriaco, ma come al solito gli lasciava un paio di sigarette e qualche centesimo, dopo aver chiaccherato un poco con lui. Nebbia ne aveva di cose da raccontare. Sempre le stesse, ma con finale a sorpresa.
Con la solita rapidità di un gatto si presentava Giulia, le sue gomme da masticare erano dolcissime e al sapore di ciliegia, era un delizioso piacere riceverle. Lei le avvolgeva educatamente con un pezzettino di carta, prima di scartarne un'altra, profumare la bocca, lanciare uno sguardo a Massimiliano e correre verso la “loro” panchina. Lui si alzava, salutava Nebbia e scivolava tra i sorrisi della sua innamorata.
A volte poteva non incontrare nessuno per ore ed ore, ma era giovedì e come ogni giovedì alle 18, veniva buttato in sequenza, un sacchetto dall'interno brillante, due lattine e due legnetti di gelato.
Tommaso si accomodava al tavolo del lato nord della piazza e lì aspettava con un fumetto in mano. Scappava un'oretta prima da casa del suo amico Fabio. C'era l'incontro segreto con il nonno e questa volta aveva usato tutta la sua paghetta, alla botteghina di viale Costa, per festeggiare come si deve la sua imminente promozione in prima media. Nonno Carlo aveva procurato i cremini, vietatissimi al nipote, come del resto le patatine bisunte e la bibita dolciastra e naturalemnte vietatissime anche a lui. Si incontravano ormai da un anno dopo il brutto litigio che il vecchio ingegnere aveva avuto con il figlio, dove era stato tacciato di irresponsabilità e cocciutaggine. “Sei peggio di un bambino, tra i due non so chi è più piccino”.
Non aveva più messo piede in quella casa e il piccolo Tommy aveva capito dove trovare il suo compagno mangiaschifezze. In quel micromondo scoperto in una delle passate passeggiate della domenica. Trascorrevano un'ora così, a parlottare, riempiendosi la pancia e la vita. E come arrivavano felicemente, si allontanavano, sempre alla stessa ora, gettando tutto nel compagno cestino, custode del loro segreto.
C'era poi la signora dal passo leggero, che la rendeva una creatura da romanzo. E ne leggeva di romanzi. Uno al giorno, scartandoli con meticoloso disincanto, lasciando planare il celophane con estrema delicatezza in fondo al portarifiuti.
Accavallava le gambe avvolte nei pantaloni dal taglio classico ed elegante. In inverno il cappotto viola spiccava nel chiarore del primo pomeriggio. Le mani guantate di verde muschio la rendevano ancora più distante dall'austera cornice. Ne toglieva sempre uno adagiandolo sul grembo e prendeva a leggere. Faceva scorrere le pagine, tralasciando qualche riga qua e là, mentre contava i minuti in attesa di riconoscere il passo sicuro che forse sarebbe arrivato. E quell'attesa era fatta di promesse che non si facevano aspettare.
Guardava spesso l'orologio e sovente si concedeva una sigaretta per prolungare il tempo concessosi per terminare il libro. Lo riponeva sulla panchina piegando un lembo della pagina e si fermava a guardare lontano. Nessuno sa cosa vedesse o cosa cercasse. Qualche lacrima le solcava il volto e a lei piaceva credere che fosse per la troppa luce; come sempre non aveva gli occhiali da sole a proteggerla. Il romanzo poteva anche restare a metà, e questo le pocurava grandi sorrisi. Lo lasciava a raccogliere altre parole, sussurrate piano dall'uomo dalle scarpe stringate. Arrivava e sedendosi le prendeva la mano. La lettura era finita e stavolta la storia, i sentimenti, i batticuori, erano i loro. E per pochi minuti sembravano veri.
Attilio, il manutentore di quella porzione di parco, durante l'ultimo sopralluogo, lo aveva valutato vetusto e pericoloso. “Qualcuno potrebbe ferirsi e chiedere danni alla direzione, Sostituiamolo! ”
Lo sradicarono velocemente e fu gettato nel furgone dei rifiuti.
Al suo posto 4 brillanti portarifiuti si impossessavano della piazza.
Non si vedevano più gli alberi, ne i passi veloci, ne le mani affacciarsi e lasciare il loro ricordo. Finestre, balconi, cavi della luce e un sentirsi trasportare, come la prima volta che lo avevano portato al parco.
Poi una grande bocca sopra di lui. Non sapeva di ciliegia come quella di Giulia, ne di tabacco, alcol e patatine fritte. Sapeva di metallo e gli agganciò le maglie dell'anima in ferro, accartocciandolo come le foglie che Tommaso amava rincorrere e schiacciare. Era una masticazione lenta e solitaria come quella del grigio Arturo. Come le lacrime di attesa della donna-romanzo, mentre aspettava quel qualcosa inesistente. Una bocca senza vita che lo risucchiò tristemente nel buio.
123
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
- Bella opera comlpimenti
- la prima parte l'ho trovata troppo descrittiva e priva di enfasi... ma il finale è stato un colpo di genio!
Anonimo il 01/03/2009 12:15
Molto bello Deb, scorrevole e piacevole, un quadro animato, ho visto i personaggi, passarmi davanti, sembrava una sfilata di cuori...
grazie a presto...
FLO.
Anonimo il 27/02/2009 18:19
È di una dolcezza difficilmente descivibile. Personaggi perfetti, e un cestino ormai accartocciato...
Non butterò mai più le cicche accese dentro alcun cestino. Ne avrò rispetto reverenziale d'ora in poi.
Bravissima
Max
Anonimo il 27/02/2009 13:52
Scritto bene! Piaciuto.
Ciao
Contessa Lara
- della serie, anche i cestini hanno anima, in metallo ma sempre anima!
- Beh, come prova mica male!
Anzi direi... ottimo!
Mi piace come descrivi i personaggi ed il punto di vista che hai scelto è davvero... bizzarro!
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0