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Dentro Immobile

I nostri demoni erano nuovamente lì con noi.
Il mio se ne stava appoggiato con le spalle al bancone del bar, rivolto alle entrate con il volto chiaramente insoddisfatto e le braccia incrociate sul petto imponente.
Faticava quasi a prendere il respiro, tanto mancava l'aria in quel luogo a cui mi ero arresa.
Il suo demone invece lo seguiva a distanza, a passi lunghi, tenendo gli arti distesi presso i fianchi e le mani impegnate a rigirarsi due monetine nelle tasche della giacca a quadri.
C'erano istanti in cui si facevano troppo ravvicinati nella presenza, tanto da risentirsene entrambi e il ragazzetto raggelato si voltava di scatto con il volto oscurato dalla coscienza di ciò che stava accadendo; dischiudevano le fauci, ghignando, con lo sguardo fermo, nostante il vuoto; occhi negli occhi, iniettati di sange.
Era accaduto diverse volte dalla sua entrata in scena.
Il mio demonio aveva una vocina sottile e fastidiosa, un sibilare distinto da tutto il sottofondo costante, imprecava, dissentiva, e mutava nelle forme, plasmando il suo starsene li come una stoffa sacra che si fonde e diventa carne chimica adosso ad altri. Quando si stancava di marcare, il mio demonio, lo faceva soltanto per lasciarmi più tempo in compagnia del mio errore; al suo ritorno la caduta sarebbe stata tremendamente più dolorosa e bruciante.
Non erano pericolosi poichè erano demoni del passaggio, i demoni del dinamico salto da vita a vita, quelli che seguivano solo coloro che avrebbero potuto sopportare, al termine dell'esistenza terrena che stava accadendo loro, un cambiamento importante per la prossima rinascita.
La pensavo a quel modo.
Non avevo mai osato chiamarlo demonio fino a quando non conobbi lui.
O lui riconobbe me, sarebbe più accorto dire.
Ci siamo ritrovati a parlare di noi, nudi nella notte. Con i corpi vestiti, di confessioni buie, ce ne stavamo lì, a due passi dal bar, come estranei alle nostre stesse vite.
Mi sale al pensiero un vecchio libro, e lo chiamerò così: Demian.
Demian mi ricordava l'infausto, il cerchio che quadra, quel senso che alle cose quotidiane manca. Quel ragazzo, uscito dalla casa accanto al posto in cui per sbaglio mi ero ritrovata a lavorare mi rimandava a quel conto irrisolto che avevo con me stessa. Per sbaglio o per gioco ci siamo raccontati di noi ed ogni cosa sapeva di buono. Il giorno iniziava con i frammenti dei discorsi lasciati in sospeso la sera prima. La mia mente rimasticava gli avanzi di ciò che era stato detto, di tutto quello che si era lasciato dire ed era così andato perduto. Mi svegliavo con gli occhi persi nel bisogno di un'ora ancora al suo fianco, per possedere quel che era rimasto taciuto.
Il ricordo più lontano è quello di lui seduto ad uno dei tavolini di tondo metallo appena fuori l'uscita del locale sulla destra; una birra il silenzio ed il cane.
Una birra era l'inizio di tutte le cose che c'erano state: -bevo l'ultima e poi vado- diceva credendoci poco.
Il suo silenzio aveva il suono di uno spazio vuoto, desideroso d'essere colmato e nuovamente svuotato. Quel non dire sapeva di un ragazzino spaventato dalle banalità che a molti rinfrancano. Quel giorno chi dei due mi spaventò di più probabilmente fu il cane. Di Demian non vidi gli occhi, perchè li tenne rivolti in una direzione sola, e non incontrarono i miei, ma lo sguardo di quel nero animale parlo per entrambi.

 

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