( Voce policroma della terra)
Morto? Non so?!
Stringo la mano a pugno.
Sabbia.
Calda sabbia.
Cristallina.
Ho le membra pesanti come ferro antico.
Le palpebre come finestre chiuse mai aperte.
Uno spirito fresco sollecita le mie pelurie salate, un alito di vento vagabondo, viaggiatore instancabile, mi sussurra incomprensibili storie. Un gran chiacchierone.
Lei mi risveglia con il garbo dei suoi profumi e il fresco rumore delle sue quiete onde.
Un piccolo granchio, suo servo devoto, pizzica le dita dei miei piedi.
Lei vuole la mia attenzione.
Ci tiene.
Un piccolo varano viene a saggiarmi con la sua lingua a "v".
"Che vuoi da me?" Le dico col pensiero.
"Te" lei risponde, non so con che voce.
Il mio volto prova a sorridere di compiacimento.
"Dunque sono vivo?"
"Non lasceresti la forma del tuo corpo sulle mie spiagge"
Ho un brivido.
"Chi sei?"
Sento ridere in modo limpido come può ridere solo una donna, una splendida donna.
"Non essere sciocco! Tu lo sai bene!"
È vero! Lo so bene.
Tutte le vicende hanno un inizio, questa ha avuto origine dalla viltà, la mia!
In Italia, gli anni Sessanta hanno portato energie spaventose, erosive come fiumare selvagge.
L'impegno sociale e politico, forte impulso, come una nuova religione manichea, ha messo al rogo innumerevoli idoli individuali.
Il giovanilismo, nuova morale anti-morale, ha sconvolto per sempre il lineare sviluppo delle idee, negando la storia, confondendo l'oggi con il futuro, dividendo l'umanità in puer e xeno, la sindrome di Peter Pan come destino irriverente.
Ben che giovane, il mio "territorio" si era ridotto ad una zolla di solitudine.
Non riconoscevo più un mio possibile ruolo in quella nuova "Storia".
Archeologo ed esperto d'Arte. Ridicolo. Ridicolo.
Per me solo un tragico non senso.
Alternativa?
La fuga!
Come un ratto al far della sera, sfidando la luce del giorno morente, avevo raggiunto l'aeroporto di Fiumicino.
Davanti ad una carta geografica nella sala viaggiatori avevo chiuso gli occhi e "buttato" il mio indice sinistro a caso.
"Venezuela".
L'imbarco era di li a minuti.
Mezza giornata di volo ed ecco il luogo remoto.
Il caos di Caracas urtò con il mio desiderio di oblio e cercai di meglio.
Resistetti alla seduzione di Maracaibo, ma il nome della città di Cumanà colpì la mia immaginazione, o la mia superstizione, e leggendola priva di accento, Cumana, come la fatale "Sibilla", la rese accogliente, in qualche modo domestica alla mia mente.
Vissi con ansia vigile il viaggio sulla carettera che corre in riva al Caribe.
La città mi accolse con indifferenza.
Il mal di stomaco mi accompagnò nella scelta dell'alloggio, che trovai in un residence di fattura coloniale, la trascuratezza era tangibile in ogni ambiente.
Unico conforto, la vicinanza del mare.
Era ormai notte quando il portiere si era congedato chiudendosi la porta della stanza alle spalle, uscendo.
Silenzio.
Pervaso da brividi di disagio mi ero rifugiato in un angolo della camera, avevo atteso l'alba del nuovo giorno accucciato sul pavimento, il sonno pietoso aveva avuto la meglio sulla mia mente.
La notte più buia della mia vita.
Quante volte si muore e si rinasce in una vita?
Non esiste statistica! A mio giudizio è un alternarsi costante e necessario.
Risorgere dal buio a nuova luce.
Lo sguardo purgato dal male di vivere.
Riscoprire a poco a poco la meraviglia assoluta della realtà in cui fluttuiamo.
Sospetto che questo costituisca il senso ultimo del vivere: "una eterna rivelazione".
Con questa fiammella nel petto ricominciai a esistere.
Gradualmente, seguendo i bisogni elementari, iniziai a radicare la mia presenza nelle giornate di Cumanà.
La scorta di dollari era sufficiente per risparmiarmi l'urgenza di sostentarmi.
Nel volo dall'Italia avevo scambiato, in spagnolo, alcune opinioni sulla cultura meso-americana antica con un certo Prof. Manfred Ulrich, volto intelligente di sessantenne dagli occhiali l'oro, di origine centro-europea, che curiosa equivalenza.
Era un uomo distinto e sensibile, diceva di occuparsi di affari e cultura.
Aveva reso meno faticoso il viaggio.
Resosi conto delle mie erudizioni, mi aveva consegnato il suo biglietto da visita, invitandomi a contattarlo per eventuali affari.
Avevo infilato il biglietto nella tasca della camicia estiva con automatismo, certo com'ero della sua inutilità.
Smentii me stesso dopo un paio di settimane.
L'inoperosità cominciò a erodere la mia pazienza.
Ero preda di una smania nascente di fare, di capire, di scoprire.
Essere, in fine, unico giudice del mio sentire e al diavolo la "STORIA".
Alla reception del residence dove alloggiavo chiesi il telefono e, ritrovato il biglietto, composi il numero di Monaco di Baviera che vi era riportato.
Immaginai la scintilla della trasmissione percorrere lo smisurato cavo telefonico sul fondo dell'Atlantico, risalire la penisola iberica, attraversare la Provenza.
Dopo alcuni squilli rispose una prima segretaria, mi destreggiai con la lingua inglese e dopo tre passaggi di voci femminili mi rispose quella maschile del Prof. Manfred.
Fui lusingato del calore con il quale mi rispose.
"È un grande piacere risentirla così presto, dove è alloggiato? "
"Sono a Cumanà prof. Manfred, alloggio al residence Vista de Mar."
"È prodigioso! Incredibile. Lei si trova nella località che speravo scegliesse.
Senta! Per riservatezza le invio un telex all'ufficio postale di Cumanà. Le raccomando la riservatezza! Lo legga con attenzione. A presto collega."
Bighellonai per le strade di Cumanà, la prima città sorta nel nuovo mondo.
Fondata dal Capitan Gonzalo de Ocampo nell'anno del Signore 1521, dominata da "forti" ormai inutili, lustrata da numerose chiese, palme verdi, fettine di azzurro mare, bianco di case e su tutto un manto di cielo come quello ceruleo della Santa Vergine.
Trascinai i miei passi sino all'ufficio postale.
Trascorsa un'ora l'impiegato in camicia fiorita mi fece accedere alla saletta del telex.
Digrignando i denti la macchina aveva vomitato un lungo stampato.
Lo lessi con curiosità ed attenzione.
Riassumendo, il testo presentava l'attività della società "Die Fenix" specializzata nella ricerca di reperti e documenti di rilevanza archeologica, su mandato di alcuni prestigiosi istituti di ricerca e musei.
Il mio ruolo era inerente alla prima catalogazione e repertazione di manufatti provenienti dagli stati del sud e centro-america affacciati sul mar Caraibico.
Vi si diceva inoltre che sarei stato contattato da un emissario della società dopo la mia accettazione telefonica.
Si ventilava di un congruo compenso che mi sarebbe stato notificato personalmente.
Ci pensai tutta l'insonne calda notte stellata.
Al primo sole dissi a me stesso: "Al diavolo, perché no?!"
La fiammella del mio torace si tramutò in rogo.
Inviai la conferma.
Come liberato da un qualche legaccio, mi concessi una visita oziosa del territorio che ora volevo possedere cognitivamente.
Affittai una vecchia auto americana, bianca con interni rossi, una sontuosa Eldorado degli anni 50.
Decapottabile.
Un bianco cappello a tesa larga, occhiali da pilota USAF e musica nella mente più potente delle lagne venezuelane che la radio, dal cruscotto, riversava nell'aria.
Euforia e leggerezza condizionavano il mio essere in quei giorni.
Frequentai assiduamente stamberghe e bordelli.
Un sorriso doloroso turbava il mio viso.
La figura di Gonzalo Almirante entrò a far parte delle mie conoscenze in una gita a Puerto de la Cruz.
Il nome altisonante apparteneva ad un uomo scuro di pelle, dalla magrezza nervosa, dinoccolato e sdentato e gli stava addosso, il nome, come la giacca da uomo ad un bambino.
Rapido d'intelletto e assai di più di coltello, era intervenuto in mio aiuto in un tentativo di rapina che aveva me come bersaglio.
Due "desperados" armati di machete nella penombra di un imbarcadero, avevano tentato di alleggerirmi dei dollari, che maneggiavo con troppa disinvoltura, e anche della testa, credo, giusto per divertimento.
Il cuchillo di Gonzalo era apparso, dopo un sibilo, infisso nella gola dell'assalitore più minaccioso.
Il secondo figuro si era dato alla fuga dimostrando, a mio parere, molto buon senso.
Dal buio era emerso il mio salvatore e si era presentato motteggiando i nobili spagnoli del passato, per poi riderci su sgangheratamente.
La sbornia, che fino ad allora aveva anestetizzato i miei sensi, si era dissolta, per ciò ritenni opportuno ripristinarla con la compagnia del mio nuovo buon amico Gonzalo Almirante, gran cavaliere dei pontili e patrono dei babbei, dato che tale mi ero dimostrato.
Portai con me, di quella notte, il fotogramma di un corpo malamente disteso sul pontile di legno, illuminato dal flebile cono di luce di un lampione opaco, lo sciabordio, indifferente, dell'acqua prigioniera tra gli scafi, e il gesto, crudo e pratico, di Gonzalo che appoggiato il piede, calzato in un vecchio sandalo, sulla testa del morto, sfilava dalla gola il suo pugnale, con un gesto secco.
Sin dal primo momento mi visitò il "dubbio" verso il mio buon amico, che da quella sera divenne la mia seconda ombra.
Il pensiero insistente che non fosse comparso per caso nella mia vita, mi rimase annidato nei sensi.
In qualche modo lo associavo al mio "mecenate" Manfred Ulrich, il simpatico Professore.
La cosa mi fece riflettere sulla natura del mio rapporto professionale.
"In guardia esimio prof. Carlo Uberti (il mio nome), in guardia e mutande di ferro!"
Questa riflessione mi spinse compulsivamente a chiedere al buon Gonzalo di procurarmi un'arma.
La cosa non lo sconvolse anzi, il giorno stesso ritornò al mio residence Vista de Mar portandomi un grosso revolver inglese ben unto e avvolto in un foulard a fiori rossi.
Nel momento in cui, nella veranda della mia stanza, ci scambiammo il fagotto rosso con due biglietti verdi da cento dollari, il blu del mare aveva raggiunto i miei occhi, provai una vertigine, seguita subito da un sussulto!
La mia mente aveva percepito una voce.
Una voce di femmina.
Il suono era mentale.
L'episodio mi convinse a morigerare l'uso del Cacique.
In capo a una settimana mi raggiunse una telefonata alla reception della mia residenza.
Mi annunciava l'arrivo dell'"emissario".
Il mio "amico" Gonzalo si palesò la sera stessa al mio appartamento.
Mi rivelò di essere uno dei procacciatori di reperti grazie alla sua professione di "commerciante" e navigante.
Mi illustrò le meraviglie della sua "nordizia", un barcone di ferro, motorizzato con un vecchio ma potente diesel di una draga.
Poi mi fece "l'occhiolino" .
Uscì sul mio patio e rientrò con un pesante zaino militare, con un poco di sforzo lo collocò sul tavolo, con intimo gusto estrasse una serie di cartocci imbottiti di paglia e li dispose sul piano in modo ordinato.
"Mira profesor! Mira!"
Disse con entusiasmo.
Con una crescente curiosità principiai l'esplorazione di quei misteri.
Man mano che liberavo gli oggetti il mio spirito regrediva all'infanzia e alla Befana.
Manufatti di cultura Mochi, Incas, Maya e oggetti europei del 1600.
Tra tutti spiccava una piccola statuina intagliata nello smeraldo pallido, di foggia inconsueta e dal valore incalcolabile.
Mentre Gonzalo gongolava, io iniziai il mio lavoro con entusiasmo.
Presa carta, penna e lente d'ingrandimento iniziai la valutazione dei reperti.
Con buona professionalità redassi venti schede, una per oggetto.
A tarda notte ci concedemmo due sontuosi bicchieri di barbon con ghiaccio e li consumammo con calma guardando dalla veranda il cielo e il mare di notte.
Tra uno strascico d'onda e l'altro chiesi al mio socio, dopo un breve ragionamento, che fine avevano fatto i miei predecessori, Gonzalo mi guardò con sorpresa e disse con candore.
"Desparacidos!"
Strinse le spalle e allargò le braccia.
Presi atto spegnendo i miei pensieri con un:
"Domani è un altro giorno!"
Il giorno successivo, quattro ore dopo l'alba, sentii bussare con ferma gentilezza alla mia porta.
Mi alzai dallo sdraio dove avevo smaltito la stanchezza e non solo.
Fu in condizione disperate che aprii il mio uscio, capelli turbinosi, barba lunga, bocca impastata, occhi cisposi, a torso nudo e vestito di un paio di bermuda con vistosi pappagalli gialli stampati. Se non fossi stato abbronzato anche il "rosso vergogna" avrebbe fatto parte del mio abbigliamento.
Bella!
Gelida!
Europea!
Una luce, che solo i veri biondi emanano, la circondava.
"Puon ciòrno! Her!? Her Uberti?"
Bella!
Gelida!
Un metro e ottanta di hostess Lufthansa con i tacchi.
Balbettai:
"Lei è? ... l'emissario?"
Non capiva, o lo dava a vedere.
Guardandomi con le "acque marine" delle sue pupille, con evidente disprezzo, si presentò come collaboratrice del professor Manfred, disse di chiamarsi Gretha, di dover ritirare alcuni oggetti.
Mi mise in mano un capace borsone della compagnia aerea.
Lo riempii con cura maniacale, vi inserii una busta con le schede e le polaroid dei reperti, sempre seguito dai suoi occhi algidi e severi.
A lavoro finito prese il borsone, senza alcun sforzo, e mi consegnò una polposa busta da lettera commerciale ben sigillata.
Con la durezza della lingua germanica si accomiatò rimandando il rito all'occasione seguente.
Non trascorsero che pochi minuti e il buon Gonzalo bussò alle persiane della veranda.
Magnificando la sua solerzia aprii la busta sotto i suoi occhi
Consegnai a lui cinquemila dollari e ne tenni duemila per la mia prestazione.
La cosa lo soddisfece e fu un'altra scusa per una sontuosa bevuta.
In cuor mio non ebbi il coraggio di dire a Gonzalo che il valore dei reperti superava di molto i duecentomila dollari.
Il giorno seguente, come avevo previsto, mi giunse una telefonata dove il caro professore si compiaceva e mi diceva dell'esame superato.
Bastardo!
Ero dunque assunto.
Trascorsero altri dieci giorni e mi giunse un voluminoso pacco, al suo interno carte geografiche, appunti, alcuni libri e un pacchetto con altri diecimila dollari.
La passione è come una immane cornucopia che s'apre in un monte, ne scaturisce a cascata energia vitale, che motiva ogni prodezza, stordisce il buon senso e riscalda il giudizio.
Quelle carte erano sussurri intriganti, seduzioni di sirene di mondi remoti e fascinosi;
parlavano di tesori, di navi dai nomi di donna o di santa, in spagnolo, francese, olandese, inglese e portoghese.
La loro lettura produceva in me slanci di immaginazione e ispirava un prepotente desiderio d'avventura.
Capii di far parte di una missione di recupero di un tesoro perduto, ma non fui convinto che lo scopo fosse quello dell'oro.
Altro covava sotto la cenere dell'apparenza.
Alcune notti dopo, nonostante la mia inconsueta condizione di sobrio, nel remoto del mio sonno, trovai una flebile via musicale.
Mentalmente la seguii, con crescente interesse e man mano che mi avvicinavo alla fonte sonora, capivo la sua natura di voce.
Un canto dipanato dolcemente modulava il mio sentire.
Con intimo piacere mi immersi in quella laguna di parole cantate con voce di donna.
Compresi il senso di alcune che dicevano del cuore del mondo, del respiro del mare, di tempeste dei sensi e moti di passione.
Un brano mi colpì per la nitidezza, parlava con soave spagnolo de "el corazon verte".
Via, via i giorni scivolavano abbacinanti di sole, colorati di celeste, leggeri di rhum e conditi di cosce di femmine.
Dopo tre carichi di routine, con l'occasione del quarto, scoprii un Gonzalo strano nel comportamento.
Aveva un'aria pensosa e i modi nervosi.
"Profesor!"
Esitava, girando lo sguardo intorno.
"Voy a dar esta "
Dal solito zaino trasse quello che appariva come un tronco di legno segato e lasciato imputridire nel terreno, ma che al tatto risultò cristallizzato.
Stavo per deriderlo quando pulendo un'estremità mi accorsi che si trattava di un manufatto, del tutto inconsueto, ma opera umana.
Il sorriso furbo sul muso del sig. Almirante mi disse che la cosa aveva un prezzo.
"Quanto?"
Dissi e misi mano al portafoglio.
"Oh! Gratis el primer"
Gli altri sette mi costarono mille dollari.
Una frenesia incontrollabile si prese il mio stomaco.
Dentro di me una muta certezza generava pensieri bellissimi.
Quella sera mi sbarazzai della presenza di Gonzalo al primo buio, dissi al métré di non passare nessuna telefonata e che non avrei ricevuto nessuna visita.
Preparai un paio di litri di caffè e mi accinsi ad analizzare gli strani reperti.
Li pulii tutti e otto meticolosamente, per poi accorgermi che erano rivestiti di cera e resina indurite.
Misi a bollire un paio di litri d'acqua sul fornello in dotazione all'appartamentino.
Con un forte spirito di sacrificio, tenni i "tronchetti", uno a uno, sul vapore bollente finche cominciarono a rammollirsi.
Con cautela, trepidando, lavorai alacremente fino a svelare la natura dei manufatti.
All'alba un esercito ordinato di fogli di corteccia occupava il tavolo ed il mio letto.
Nei fatti si trattava di un volume scritto, diviso in otto tomi.
I fogli di corteccia erano incisi nella faccia interna e le incisioni riempite di ocra rossa.
Quando mi decisi a leggere il contenuto del primo foglio mi si fermò il cuore:
"Hoy, 4 de junio del año de Nuestro Señor 1675,
I don Fernando Martínez Conde de Sierra Nigra, médico, hombre de ciencia, caballero de la Serenísima Majestad,
sobrevivientes de tres días de la Tierra Esmeralda, una gran flota de galeones..."
Ci volle un bel bicchiere di rhum con ghiaccio.
Determinato e affascinato continuai la traduzione ad oltranza trascrivendola su fogli da lettera.
Man mano che procedevo la mia ragione si intorbidiva lasciando efficiente solo la facoltà di tradurre.
Quando, a sera, ultimai il mio lavoro mi accinsi, con gusto, a rileggerne il risultato.
Si trattava di un diario-resoconto di un naufrago.
Leggerlo è stato come viaggiare con la mente:
"Oggi, 4 Luglio dell'anno di Nostro Signore 1675,
Io, don Fernando Martínez Conte di Sierra Nigra, medico, uomo di scienza, cavaliere della Serenissima Maestà (Spagna), sopravvissuto (naufrago) da tre giorni del gran galeone Tierra Esmeralda.
Qui scrivendo, a futura memoria, che la mia esistenza sia di ricchezza per i posteri.
Tutto ciò che vo scrivendo trovò il suo inizio con il racconto di un prigioniero delle celle del forte di Cumanà, condannato alla garrota, un tal capitan Keethon, un nemico della Spagna, un predone dei mari dedito alla pirateria con patenti olandesi e inglesi.
Catturato dopo una battaglia a largo delle coste ad oriente dell'isola di Ispagnola nel mare di Carribe, sotto tortura, afflitto dalla febbre delle paludi, dichiarò diverse sue colpe e alcuni segreti.
Tra i segreti il più misterioso mi fu rivelato, a fil di voce, dal prigioniero delirante, io, in veste di medico, raccolsi le sue parole e le celai a mia volta ai sensi dei più.
Nell'ispirato racconto narrò di come una razzia sulla terra ferma compiuta anni prima, a sud della gran penisola dello Yucatan, in quelle terre chiamate Belize, conducesse lui e i suoi accoliti, in un sito di antiche rovine appartenute alle genti Maya, popolo perduto nel buio della storia.
Il racconto proseguì descrivendo un bottino d'oro rapacemente accumulato in un luogo che era stato la città chiamata TIKAL e di come un selvaggio catturato parlasse dello "SPIRITO DELLA DEA ALAGHOM NAOM", lo stesso cuore della divinità, un gioiello dai poteri oscuri.
Il pirata riferì che le ricerche del manufatto furono rese inutili da eventi misteriosi, come il fare degli animali e delle piante della foresta che ostacolavano i bucanieri.
L'arrivo di numerosissimi selvaggi armati di archi e frecce obbligò la ciurma ad una fuga sanguinosa verso il vascello.
Disse che prima dell'attacco degli indios, dalla piramide centrale erta sulla gran piazza con sulla cima il tempio bianco privo di una delle quattro colonne quadre, improvvisamente si era alzato uno stormo numerosissimo di pappagalli variopinti che come una nube urlante aveva avvolto la sommità della grande costruzione a gradoni.
Io sono sempre stato avverso alle superstizioni miserevoli dei semplici, la mia scienza, più della fede, guida il mio giudizio.
Il racconto di un uomo morente, un uomo pratico e senza scampo, è una testimonianza attendibile in quanto scaturita dall'onestà dell'ineluttabile.
Le sue parole, ben che intrise, per certo, di travisamenti, di sogni scaturiti dalla sua mente avventurosa, restituivano alla mia ragione luminose e future verità.
Credetti ai suoi argomenti e lo graziai da una morte orribile sulla garrota dandogli pace con una copiosa coppa di vino arricchita con l'arsenico.
Ai frati misericordiosi lasciai quel che rimaneva della sua anima.
Nei mesi che seguirono raccolsi informazioni, leggende, mezze verità, completando un quadro generale.
Raggiunta la certezza necessaria concepii un piano usando tutta la mia arguta sapienza e le mie ascendenze alla corte di Re Filippo.
Costruito un falso resoconto della testimonianza del prigioniero, nel quale si descriveva un luogo prodigo di ricchezze, che solo con la mia presenza, che mi garantiva la decima del bottino, si rendeva possibile il recupero delle abbondanze non che il possesso del territorio.
Quando, dopo quattro mesi, giunse la risposta positiva da Madrid con la patente di corsa, richiesi tosto una nave e un equipaggio esperto.
Dopo altri due mesi, passata la stagione degli uragani, Giunse da l'Avana al porto di Cumanà un galeone possente e ben armato:
il "Tierra Esmeralda"
Quella nave in rada, con il candore delle sue vele al sole, appagò l'entusiasmo che ardeva nei miei desideri.
Si che mi dedicai ai piani di navigazione con il sostegno del Gran Capitan Isidoro de Gomera, comandante del Tierra Esmeralda.
Questi era un uomo di notevole prestanza fisica, dalla mente equilibrata e salda nel ragionamento.
Un suo bisogno arrecò vantaggio ai miei disegni di segretezza.
Mi pregò, vista la vicinanza, di allungare il viaggio verso il Messico facendo scalo a Martinica dove imbarcare una nobildonna promessa a lui in matrimonio.
Mi confidò che lo sposalizio era stato predisposto per procura tra la famiglia dei de Gomera e i conti francesi dei de la Rogue.
Tutto era motivato dal reciproco interesse in quanto le due famiglie condividevano la medesima valle aperta tra i Pirenei, la parte spagnola da i de Gomera e da parte francese da i de la Rogue.
L'atto avrebbe generato vantaggi notevoli in barba alla politica delle reciproche nazioni di appartenenza.
Resomi inquieto dai sospetti e dal timore di essere spiato, accettai di buon grado di assecondare il capitano, nessuno avrebbe sospettato o intuito la vera rotta del Tierra Esmeralda.
Le notti che vennero prima dell'imbarco videro la calma spiaggia dei miei sogni invasa da granchi d'ogni fatta.
Finalmente giunse il giorno e una gioia simile a quella che provai è data solo a chi, come me, ha avuto l'onore di concepire e attuare una spedizione avventurosa, poggiare i piedi sul ponte di comando e le mani sulla balaustra di una magnifica nave, con la nitida linea dell'orizzonte incisa nello sguardo.
Il breve tratto che ci portò alla Martinica fu un tranquillo preludio.
Giungemmo nella rada di Saint-Pierre, dinnanzi alla verde isola solitaria.
Sul mare calmo tracciò una leggera onda una lunga lancia con otto rematori che dalla riva si portò sottobordo del Tierra Esmeralda, dal riparo del parasole sbocciò una visione di donna bellissima.
Vestita con una semplice veste di lino bianco sulle belle forme, venne a bordo una femmina dai capelli neri, lo sguardo insostenibile, la bocca ingorda di delizie, con lei, dotata di egual bellezza, la fida domestica Eveline.
Era la promessa sposa del Capitan Isidoro de Gomera, Isabelle de la Rogue, lineamenti europei piacevolmente contaminati dal sangue creolo.
Da quel momento non vi fu più pace sul galeone..."
Sospesi la lettura, rabboccai il bicchiere di rhum, vi misi a galleggiare qualche piccolo iceberg, alzai quel profumato paesaggio all'altezza degli occhi e lo posi tra me e il mare mentre i primi chiarori dell'alba svegliavano i gabbiani.
Immaginai che il rhum fosse il caribe, immaginai la nave, vidi le vele ed il vento, baciai la bocca di Isabelle.
Immaginai!
Dunque ripresi la lettura in preda ad una calda malia.
"... Sfruttando un buon vento mettemmo la prua verso una rotta nell'apparente direzione di Ispagnola, tenendo visibile il profilo dell'isola Dominica, per poi, successivamente, virare decisamente a ponente alla prima vista di Guadalupe.
La gran nave filava imponente senza alcuna incertezza.
Sul far della sera, circa un'ora prima della virata, ero intento a sperimentare il grand'oculare (o cannocchiale) spiando l'orizzonte, quando vidi un lontano bagliore dovuto ad un riflesso di sole.
Allertai il capitano che verificò il fatto usando il mio medesimo strumento.
Di poi ci consultammo anche con l'ufficiale in seconda, non v'era dubbio che qualcuno ci tenesse in occhio.
Di mia invenzione apposi al gran oculare altre due lenti incassate in un cilindro di rame ad una esatta distanza tra loro, lenti che io stesso, amorevolmente, avevo lisciate dal vetro purissimo.
Cosi scrutando l'orizzonte, in direzione N. N. E., vedemmo velatamente due sagome del color dell'ombra.
Il capitano, immediatamente, riconobbe in quei fantasmi uno sloop e una fregata.
Il dubbio divenne certezza: Corsari!
Il de Gomera ordinò immediatamente di anticipare la virata ad Ovest, venuta la notte corresse la rotta verso O. O. S., imponendo che nessun lume fosse acceso, sia quelli di navigazione che altro qualsiasi.
Un senso di allarme si diffuse per la nave e tra l'equipaggio.
Il de Gomera fece distribuire ottimo rhum, della sua riserva personale, ed esortò la gente di bordo a cantare e suonare adducendo che il buio conciliava lo spirito.
Quella sera cenammo nella sua cabina con i drappi ben tirati sulle vetrate.
Intorno al desco ci ritrovammo, io, il capitano, il vice comandante, l'ufficiale degli archibugieri, il cartografo, il nostromo e lei Isabelle de la Rogue.
Il sollievo del cibo e del vino ben disposero gli spiriti e un che d'ineffabile si diffuse tra i commensali, e giurerei che l'odore squisito della femmina dominasse sui cibi e il tabacco dei sigari.
Isabelle aveva in se una selvaggia forza che lottava con la avvenente dolcezza delle sue forme e lineamenti.
Inquietava e seduceva, si! Anche un uomo di scienza d'alto spirito, qual son io.
L'amenità del convivio fu avvelenata, ad un tratto, da una risata beffarda di Isabelle e dalle sue parole sibilline:
"Aucun pauvres d'entre vous ne seront jamais des terres!"
Un brivido percorse la mia schiena, conoscendo io il francese.
Colei aveva detto che non avremmo mai più messo un piede in terraferma.
Attribuimmo il suo comportamento agli effetti che il vino ha sulle donne e non vi pensammo oltre.
Il dubbio si era già insediato nelle nostre anime.
La mia inquietudine mi costrinse a nervosi passeggi sui ponti del galeone, uno sguardo alle stelle e uno all'orizzonte a vigilare.
Fu a notte fonda che un leggero bagliore di una lanterna cieca si riflesse sulle basse creste delle onde, chiamai l'ufficiale di guardia che confermò subito la mia osservazione.
Qualcuno usava una lanterna schermata per fare segnali, dunque un traditore era a bordo del Tierra Esmeralda.
All'alba che venne mi palesai nella cabina del comandante.
Mi ricevette scuro in volto e davanti ad un bicchiere di vino di Madera, io gli comunicai la mia scoperta e lui i suoi tormenti.
Dopo un lungo silenzio il De Gomera mi descrisse l'amarezza che gli sgorgava dal cuore a causa della sua promessa sposa, alloggiata in un altro locale a preservarne illibatezza, con la sola compagnia della serva creola Eveline.
Sentiva in lei un rancore feroce che a volte sfumava in odio, non ne capiva l'origine, pareva che un demone la possedesse.
Rimase assai turbato dalle mie rivelazioni dei fatti della notte trascorsa.
Concordammo discrezione e ragionammo su delle misure da porsi in atto per sopportare l'attacco dei "cavrones" dei mari.
Mi diede mano libera per l'uso di alcune mie invenzioni.
Affrontai la giornata con l'euforia di un bambino.
Convocai, nella mia cabina, il maestro armiere e il capo cannoniere, divertito dalle loro espressioni allibite, illustrai le meraviglie della mia scienza.
Approntammo migliorie alle polveri con l'aggiunta di potassio, tanto da aumentare la gittata dei proiettili dei cannoni di ben due volte.
Predisponemmo palle cave satolle di polvere arricchita, cinte da una catena trattenuta da una cuffia di cuoio bagnato, asciugato al sole e lisciato con il grasso.
Creammo una sorta di "brulotti" con delle botti calafatate tenute due a due legate con una lunga gomena sottile, inanellata di numerosi sugheri, nelle botti fu collocato fulminato d'oro attivato da inneschi di mia invenzione, agenti ad urto diretto.
Con gran trambusto furono posizionate quattro bocche da fuoco sul ponte di comando, due per ogni lato, orientabili con grande libertà verso i lati e verso poppa.
Le prove di tiro, per la grande efficacia, provocarono grida di gioia tra l'equipaggio ed entusiasmo nei cannonieri.
Le botti, nel numero di cinque coppie, furono collocate sulla lancia, posta a traino della gran nave.
Predisposi dei dardi da balestra con delle sacche in grado di produrre "fuoco greco".
Costruimmo piccole zattere che incendiate avrebbero prodotto un vasto fumo denso, per queste inventai un innesco chimico, tale che due sostanze messe a contatto generavano combustione e una vivida fiamma.
Gli archibugieri adottarono le medesime polveri dei cannoni, con effetti entusiasmanti.
A notte il "Tierra Esmeralda" era una fortezza.
Quella sera la cena fu disertata, la tensione era forte sulla nave.
Il capitano si unì a me e appostati sul ponte di comando, fumando le pipe di schiuma, attendemmo la replica di ciò che era avvenuto
la notte precedente.
Nell'ora seconda, nel buio, lampeggiò un raggio di luce proveniente da una cabina con la vista a poppa. Una e più volte il raggio spezzo il buio del mare, il suo orientamento era verso la probabile direzione delle navi corsare.
Ci precipitammo, silenziosamente, negli alloggi, il capitano, con furia inusitata, sfondò la porta della cabina incriminata e il sospetto che entrambe covavamo si rivelò esatto.
Bella e feroce come un felino a cui si vuole sottrarre la preda, Isabelle, lasciata la lampada, si era lanciata sul De Gomera con tutta la furia di cui è capace una femmina, imitata, di slancio, dalla serva Eveline, complice devota.
La mole del capitano resse come una roccia l'assalto delle onde, reagì con un solo gesto sprezzante del braccio che scaraventò Isabelle nell'alcova ed Eveline sul pavimento, poi con sordo rancore, il De Gomera, estrasse uno stiletto, io mi parai tra lui e le donne ormai inermi.
Allo sguardo cupo del capitano io opposi la "ragione" delle idee richiamandolo all'onore e ricordandogli l'utilità di conoscere i motivi di tale fraudolente comportamento.
In preda a un furore mal celato De Gomera ordinò che si montassero due gabbie nella cabina delle donne e con evidente voglia di umiliarle ve le rinchiuse indifferente ai graffi e morsi di Eveline e Isabelle, che una volta chiusa urlò con rabbia parole di fuoco in francese.
Io le tradussi e così capimmo ciò che era mistero.
I corsari che ci seguivano erano guidati da un tal Robert de la Rogue cugino e amante di Isabelle, fu rivelato che lei gli aveva proposto di liberarsi del controllo della famiglia e all'unisono di catturare il "Tierra Esmeralda" come dote di nozze.
La rabbia si impossessò di noi e giurammo vendetta istigati da tanta perfidia.
All'alba la flotta corsara non era ancora nella vista delle vedette.
Il capitano De Gomera ordinò un'adunanza di guerra di tutto l'equipaggio sul ponte di manovra.
Arringò la gente della nave istigandola alla battaglia, poi con grande intelligenza, illustrò un coraggioso piano d'azione.
Disse che grazie alle modifiche apportate alla nave e usando una sperduta isola di sua conoscenza, battezzata l'Isla de Aves, avremmo avuto ragione dei nemici, illustrò alcune tecniche che avremmo usato.
Al fine la nave, nella sua interezza, tese i muscoli.
Il Tierra Esmeralda fece rotta verso il luogo dove preparare lo scontro.
Giunti che fummo alla piccola isola sbarcammo quattro pezzi di grosso calibro, vennero piazzati a sud, mimetizzati con cura e protetti da un plotone di archibugieri e alcuni falconetti.
L'isola si presentò allungata sull'asse nord-sud, è separata, a nord, da una grande secca per mezzo di un canale di buon pescaggio, fu li che piazzammo due brulotti in modo che la fune galleggiante lo attraversasse per intero.
Altre tre mine eguali furono poste a nord della secca, sempre ancorate precariamente al fondo.
A mezzo miglio a est dell'Isla de Aves, su un fronte di tre quinti di miglio, fu creata un una barriera di venti zattere fumogene saldamente ancorate sul fondo e collegate tra loro con una fune a scorrere che strappata da una prua di nave avrebbe determinato l'incendio chimico simultaneo di tutti gli ordigni.
La trappola era pronta.
Il capitano ordinò rotta sud.
Il Tierra Esmeralda navigò per circa due ore in quella direzione, poi invertì la rotta procedendo a vele spiegate per nord-nord-est.
La manovra ebbe successo, le vele nemiche vennero viste con buon anticipo grazie ai miei prodigiosi oculari, cosi che la nave mutò nuovamente direzione verso ovest, verso l'Isla de Aves.
Il capitano ordinò di ridurre il velaggio per favorire l'approssimarsi degli inseguitori.
L'osservazione dei nemici ci mise in sgomento, la fregata con la sua mole aveva nascosto l'entità della flotta corsara, ben quattro sloop.
Una simile forza avrebbe certamente avuto ragione del galeone, ben cinquecento uomini si preparavano all'arrembaggio.
Ma la mole e la determinatezza del gran capitan Isidoro De Gomera ci rassicurò tutti, per cui ci concentrammo ai nostri compiti.
Rimasi ammirato dall'acume di quell'uomo che incarnava in se doti di intelletto e di carattere formidabili.
Fece in modo che la flotta corsara si portasse a una distanza utile per i cannoni posti sul ponte di comando, per la maggior gittata data dalle mie polveri, tenne a bada le cinque navi inseguitrici.
Come previsto, la flotta si divise in due gruppi per preparare l'abbordaggio, tre sloops in parallela a nord e la fregata con uno sloop in parallela a sud.
Fu dato ordine d'impavesare e tutte le vele possibili si riempirono di vento.
I calcoli del De Gomera si rivelarono esatti e tutto si svolse con epica precisione.
La prua del galeone investì la fune delle zattere fumogene poco prima di rimanere sotto il tiro dei corsari.
Nel mentre si alzava una densa cortina di fumo, il galeone, appena superata quella barriera, virò bruscamente verso sud e appena in assetto, attraverso il fumo, fece fuoco di linea a volontà. La sorpresa e le bordate obbligarono la fregata e lo sloop a virare a sud ed essendo avvantaggiate e più veloci si trovarono in anticipo rispetto al Tierra Esmeralda ed è per ciò che emersero dal fumo proprio in bocca alla batteria di cannoni al capo sud dell'isola, la bordata investì il veloce sloop e lo troncò dell'albero maestro così lo espose, impotente, a una bordata di venticinque bocche da fuoco del galeone che sopraggiungeva.
Le palle di mia invenzione, mostrarono tutta la loro potenza, lacerando lo scafo e spazzando la coperta come un'onda di fuoco, passandogli a tiro di balestre lo bersagliammo con fuoco greco, era spacciato.
Il Tierra Esmeralda da preda si trasformò in predatore e si pose alla caccia della fregata, per merito dell'efficacia dei miei ordigni la nave corsara subì danni tali da ridurne la velocità, quell'equipaggio disperato tentò una reazione che provocò una decina di vittime tra le nostre fila, ma fu tutto inutile, senza tregua, colpo su colpo, bordata su bordata riducemmo la veloce nave in un cimitero galleggiante, anche su questa le balestre lanciarono fuoco greco a volontà tutto lo scafo si trasformò in una fornace che si spense affondando.
Nel frattempo i tre sloops aggirarono il fumo a nord e si trovarono davanti alla vasta secca, tra urla e strepiti della ciurma, il primo scafo entrò inconsapevole nel canale a nord dell'isola.
Appena la chiglia prese la fune con i galleggianti, le due botti liberate dall'ormeggio, si schiantarono ai lati della nave, l'esplosione fu impressionante, il battello si impennò e ciò che resistette si arenò sulla spiaggia dell'Isla de Aves.
Delle due superstiti una, a sua volta, incappò in una delle mine poste a nord della secca, le esplosioni fecero detonare anche la Santa Barbara e nessuno scampò.
Un solo battello rimase illeso, ma s'avvide di ritirarsi, a tutto vele, facendo rotta a nord.
Dai resti dello sloop arenato ne venne una quarantina di uomini, alcuni feriti, inferociti, mossi dal desiderio di vendetta si diedero all'assalto della nostra batteria a sud dell'isola, gli archibugi e i falconetti, grazie alla maggior gittata e all'assenza di vegetazione dell'Isla de Aves, fecero strage tra i pirati subendo solo il ferimento di due archibugieri.
Circa quaranta corpi furono cibo per gli uccelli marini.
Il De Gomera, indifferente al giubilo della ciurma, portò sul
ponte la femmina Isabelle e la obbligò a rendersi partecipe della strage.
Alla vista delle fiamme, dei morti, dei relitti e alla notizia dell'affondamento della fregata lascio fluire dalla gola un alto grido di disperazione per poi accasciarsi ed entrare in uno stato di muto dolore.
Il capitano, per nulla intenerito dalla prostrazione di colei che gli era stata promessa, la ricondusse, con evidente spregio, nella cabina e la richiuse nuovamente nella gabbia.
Isabelle de la Rogue pareva svuotata di anima, ma ciò non la privava di una bellezza magnetica che cominciò ad insinuarsi nei nervi della nave come se il suo spirito animale fagocitasse quello del Tierra Esmeralda.
Ben che io uomo di scienza, fui colpito da questo fenomeno al limite del stregonesco, al punto di divenirne partecipe poco a poco mentre il galeone gonfiava le vele verso la meta agognata..."
Il sole alto mi sorprese.
Dal mio alloggio si allungava una vista oltre la vetrata aperta, oltre il patio ombroso, oltre la sola fila di palme le cui ombre nitide, come disegnate con la china, ornavano a merletto la prima sabbia della spiaggia bianca, fino a culminare, più oltre, con il vivido azzurro del mare.
Di impulso feci mio "l'oltre" e, vestito dei soli bermuda con pappagalli, mi conquistai una nuotata ristoratrice resistendo al desiderio di bere tutta quella bellezza.
Giorno di visioni quello!
Sul bagnasciuga era apparsa, come uscita da un raggio di sole, una siluette bionda, la spiaggia deserta giustificò ai miei occhi la sua appetitosa nudità, e con sorpresa ammirai Gretha, che come una Venere-inversa, condivideva con me l'acqua frizzante di spuma.
Raggiuse la mia espressione interrogativa, e senza una sola parola pose le sue labbra tedesche sulle mie italiche.
A volte la vita rivela la forza della sua dolcezza e ringrazio il creatore per quel giorno.
Fu strano, quasi a sera, risvegliarmi da solo sotto la zanzariera del letto senza la presenza di miele di Gretha.
Uno sguardo, dalla posizione supina, alle pale rotanti del ventilatore del soffitto generò la nascita di un sospetto.
Balzai giù dal giaciglio e controllai le pagine di corteccia, capii subito che erano state maneggiate, la mia memoria fotografica individuò tutta una serie di discrepanze, da che ebbi conferma del mio dubbio su Gretha, inoltre la mia dote produsse in me la certezza che i dattiloscritti della traduzione non erano stati trovati, visto che li avevo celati nel frigo dentro una scatola di biscotti in compagnia dell'ultima pagina di corteccia.
Sorrisi compiaciuto scoprendo che era stato cambiato il nastro della macchina da scrivere, sorrisi perché prima di farmi attirare dal mare lo avevo già sostituito con uno vecchio.
Come dicevo! : ".. mutande di ferro Carlo, mutande di ferro!"
Mi ristorai di crostacei alla baracchetta di Francisco, sulla spiaggia, divorai, a tratti ridendo, tutti quei doni saporosi del mare.
Tornai al mio patio con indolenza "caraibica", giuntovi, ripresi la preziosa lettura, confortato dal fido bicchiere di rhum.
"... il mare si apri alla prua solcante del gran galeone vittorioso, a bordo euforie insidiate dal presagio; non avemmo più ostacoli sino alla nostra destinazione.
Un solo episodio mi turbò profondamente.
Avvenne per puro caso, dovendo io chiedere un aggiornamento della rotta. Arrivai con foga alla cabina del capitano aprii la porta e la trovai deserta. Dall'alloggio attiguo, dove erano recluse in due gabbie distinte le prigioniere, venivano ansimi e mugolii. Forse per distrazione non era stato messo il paletto all'uscio, così entrai nella penombra e potei vedere una scena che corruppe la mia serenità. Tre lanterne illuminavano l'ambiente e la luce infiammava tre corpi nudi rinchiusi in due gabbie, nella prima riconobbi la mole del De Gomera in postura di monta, similmente ad una bestia, piegato sul corpo indifeso della bella serva, la femmina mugolava e malediceva sotto lo sguardo allibito della padrona, chiusa nell'altra gabbia.
In me il turbamento si accompagnò al disagio; consapevole, com'ero, di quanto possa essere pericolosa la febbre della passione, di odio o amore che sia, in quanto corrompe il limpido pensiero della ragione.
Un condottiero non può permettersi di perdere la propria integrità e controllo, pena la sventura e la rovina.
Tenni per me quanto avevo visto.
Trascorsero sette giorni e vedemmo le linee di costa del Belize.
Sapevamo della presenza, in quelle terre, di un presidio di corsari inglesi.
Gettammo l'ancora dinnanzi a una barriera di isole coralline distanti due miglia dal continente, in tal modo lasciammo fuori vista il Tierra Esmeralda.
Sbarcammo su un isolotto con molta vegetazione e vi creammo un fortino armato con colubrine e baliste poi procedemmo alla costruzione di sei grandi zattere messe in acqua nella laguna che divide l'isola dalla terra ferma.
Sbarcammo venti cavalli dal galeone, non che alcuni muli e dieci falconetti con ruote da campagna.
Trascorsi sei giorni avevamo costruito una solida fortificazione di appoggio protetta a mare dai cannoni del galeone, a sua volta utile per proteggere una spedizione in terra di Belize.
Lasciati dieci uomini a reggere il fortino, con l'aiuto della notte sbarcammo in forze sulla spiaggia, che battezzammo "riva de tabacco".
Trascorsero altri due giorni di intensi lavori che videro la creazione di un campo trincerato tenuto da quindici armati con sei falconetti e due baliste, su ogni zattera in attesa una colubrina.
Giunse, infine, il momento tanto atteso, consultai le carte con gli ufficiali e finalmente alla testa di una colonna di trentacinque soldati con venti cavalli, quattro falconetti e provviste su dieci muli ci inoltrammo nella foresta intensa e profumata del nostro destino.
Ci facemmo strada seguendo alcuni corsi d'acqua come indicato dalle note che io avevo segnato su una accurata mappa, facendo tesoro delle mie informazioni.
Avevamo l'impressione che la natura ci guardasse.
In vero il nostro ardimento era alimentato dalla bramosia, ed era per ciò potente.
Nessun timore, dunque, turbò i nostri animi.
Il bagliore del sole riflesso dalle corazze, dagli elmi e dalle alabarde, illuminava, a tratti, il verde scuro della foresta.
Similmente ad un serpente di metallo la nostra colonna violava la femminea natura del luogo.
Nei primi momenti vi furono alcuni accidenti con serpi e ragni che ci gravarono della perdita di due compagni, ma con grazia di Dio giungemmo, dopo otto giorni di cammino, nel luogo chiamato Tikal ed io fremevo di impazienza e timore.
Il respiro ci si interruppe nella gola alla prima vista dei castillios a gradoni e l'immensa piazza che incorniciavano.
Tikal!
Il nome incuteva timore e riverenza, l'umore del luogo era cupo come la corona d'ombra che circondava la grande città, o quello che ne rimaneva.
Solo pietre ordinate in costruzioni imponenti soffocate dal verde; uccelli e scimmie padroni di tutto.
Creammo il campo con il metodo a doppio quadrilatero compreso uno nell'altro con al centro la batteria dei quattro falconetti, usammo la vasta piazza perché utile al tiro di fucileria e dei cannoni.
Trascorsa la notte, alle prime luci, tenemmo consiglio dov'io rivelai i luoghi ove trovare gli ori e le gioie che tutti bramavano.
Le informazioni, che avevo estorto in vari modi al prigioniero lasciato sepolto sotto le mura della fortezza di Cumanà, riguardavano i tesori che al sopraggiungere dei selvaggi erano stati nascosti dai corsari fuggitivi.
Per mio conto, ben altra cupidigia motivava i miei atti.
Mentre i miei compagni procedevano, con gaudio, ai loro fortunati
uffici, io scrutavo il cielo al di sopra delle fronde arboree alla ricerca di un preciso segno, e alla ora decima una nuvola chiassosa di pappagalli si alzò sopra un punto, verso ovest, non lontano nella foresta.
Era il segno.
Scortato da due ignari armati mi recai verso quel fenomeno, vi giunsi ansioso.
In un improvviso slargo, privo di alberi, una piramide ben conservata, il cui tempio era privo di una colonna, era alla base della colorata nuvola.
Lasciata la mia scorta a guardia alla base della erta gradinata, la salii fiducioso.
Con imprevedibile fatica raggiunsi il livello del tempio, accesi con l'acciarino la torcia che mi ero portato appresso. Impulsivamente estrassi la spada e mi avventurai sotto il padiglione, dove raggiunsi una scala interna in discesa le cui pareti erano riccamente decorate da misteriosi dipinti su intonaco. La mia prudenza mi salvò dall'assalto di un grosso e aggressivo serpente nero, infierii su di lui con la lama finche un liquido verdastro ne uscì mescolandosi al suo sangue.
La fiaccola diede fastidio ad un gran numero di pipistrelli che si diedero alla fuga in un caos di strilli acuti, volando scompostamente.
La mia determinazione si nutrì di ogni difficoltà.
Giunsi, alfine, d'innanzi ad una porta di pietra dov'era effigiata una divinità femminile dipinta con colori verde, verde-smeraldo.
Come guidato da un intuito superiore, inserii con sicurezza la lama della mia spada in una fessura nella porta adornata con fiori di orchidea dipinti in modo stilizzato, sentii un contatto di ferro su pietra poi uno rumore sordo e un cigolio, la porta si arrese e si socchiuse.
Un suono ritmico e profondo mi accolse nel sancta-sanctorum all'unisono di una luce smeraldina pulsante.
Tutto proveniva da un enorme pietra di smeraldo a forma di cuore umano, per quanto grezzo. La preziosa era incastonata in sorta di massiccio tripode d'oro ben ancorato ad un altare di marmo. Mi resi conto immantinente dell'impossibilità di asportare il supporto aureo per cui agii con la spada, con il timore in petto, rimossi la meravigliosa gioia, che mi parve viva, l'avvolsi in un panno e la misi in un tascapane.
Valutai il suo peso in dieci o dodici chilogrammi.
L'istinto urlò in me l'urgenza di fuggire da quel luogo.
Mentre scendevo la gran scalinata della piramide, avvertivo un calore intenso provenire dal tascapane, questo pareva darmi forza inusitata e nuova agilità a i miei movimenti.
Ad un tratto il cielo si empì di migliaia e migliaia di uccelli bercianti, erano pappagalli ciarlieri.
Produssero una gran nuvola sulle teste, mia e della scorta, il loro turbinare su di noi ci mise in altissimo allarme.
Nel mentre, a cavallo, ritornavamo al campo al centro di Tikal, sentimmo un vociare d'urla nella lontananza della foresta.
Con sollievo m'avvidi che tutti i miei compagni erano già in armi ed in possesso di molto oro in manufatti.
Ordinai alla truppa di caricare i cavalli e i muli e di prepararsi alla battaglia.
In cuor mio sapevo bene cosa ci aspettava.
Era già l'ora quindicesima del giorno e vedemmo la morte in tutta la sua bellezza.
Dal limitare della foresta, distante da noi circa mille metri egualmente da ogni lato, uscirono alla luce da nord, da ovest e da sud, un'orda di guerrieri adornati di bellissime piume e con i corpi dipinti in colori vivaci.
Noi eravamo pronti.
Li facemmo avvicinare per circa trecento metri, dunque i falconetti iniziarono un fuoco con proietti esplodenti ad un ritmo sovraumano, i colpi aprirono varchi notevoli tra le nemiche schiere, ma questo non arrestò la loro corsa, giunsero cosi a tiro degli archibugi, che ben brandeggiati, non perdevano un colpo.
L'orda non parve desistere fin che giunta a una distanza di centocinquanta metri, si trovò a tiro della trappola che avevamo saggiamente disposta.
Furono lanciati alcuni dardi con le balestre, i dardi erano incendiati.
Le fiamme appiccarono fuoco a canalette empie di melassa di "fuoco greco" che s'avvampò creando due barriere di fiamme altissime a nostro vantaggio.
Le prime linee dei nostri assalitori si trovarono così prigionieri e perirono orrendamente.
A quel momento l'assalto si spense e la fiera armata ripiegò decimata dai falconetti e gli schioppi.
Non lamentammo nessuna perdita e gridammo la nostra gioia vittoriosa.
Capimmo immediatamente che il secondo assalto sarebbe stato fatale per le nostre sorti, si che sul far della notte, incendiato tutto l'incendiabile, iniziammo a ripiegare prestamente verso la costa.
Ordinai al più temerario della truppa di anticipare l'arrivo della colonna ai difensori in attesa sulla "riva do tabacco".
Ci inoltrammo nella foresta sulle nostre orme.
Ordinai, con la mia supervisione, di approntare svariate trappole, esplosive, incendiarie, buche con punte acuminate sul fondo, e
altre che per brevità non sto a descrivere.
La via del ritorno parve più agevole dell'andata, ma la detonazione della prime trappole ci disse della distanza dei nostri inseguitori, decisi per ciò di abbandonare i falconetti e il carico superfluo e accelerare la nostra andatura.
In breve; la nostra fuga durò quattro giorni, nonostante noi fossimo a cavallo e i nostri nemici a piedi, in vista del mare le loro prime pattuglie ci raggiusero, li uccidemmo tutti ma perdemmo cinque valorosi, due muli e due cavalli.
Arrivammo al campo trincerato giusto in tempo per unire le nostre armi a quelle dei difensori e ricacciare un primo assalto.
Eravamo esausti e col primo buio facemmo carico sulle zattere e dopo aver predisposto a che il campo nostro apparisse pieno di armati, attraversammo il mare basso fino all'isola dove ci attendeva l'ospitale fortino.
Allertammo il "Tierra Esmeralda" ed iniziammo all'unisono le operazioni di imbarco che già albeggiava.
Il fuoco delle colubrine del forte ci fecero volgere il capo verso la "riva do tabacco" da dove un innumerevole flottiglia di canoe e zattere si faceva strada verso la nostra isola.
Come guidato da i nostri desideri il galeone manovrò arditamente e si fece più prossimo alla riva, grazie a ciò la gittata dei suoi cannoni fu in grado di superare le nostre teste e giungere in mezzo a quei selvaggi temerari per farne una gran strage.
Trascorsero alcune ore tumultuose, con gravoso affanno, l'ultima scialuppa si staccò dall'isola e noi potemmo finalmente gioire e ristorarci del sonno e della fame.
La grande quantità di oro e gemme portò alle stelle l'umore dell'equipaggio, si che nessuno sospettò del mio ritrovamento.
Veleggiammo a sud verso Maracaibo.
La vita di bordo rivelò alcune nequizie createsi durante la mia assenza.
La gente della nave, superata l'euforia della nostra avventura, coltivava la mala pianta della calunnia nei confronti del nostro capitano.
Si vociferava di cose pagane fatte da il De Gomera e le sue prigioniere, cose che muovevano il desiderio più triviale degli uomini, già troppo digiuni del piacere dato dalle femmine..."
Sospesi la lettura, così vidi il buio della sera già padrone del Caribe.
Mi rinfrescai con una sontuosa doccia.
Mangiai del pollo fritto, del chili e un buon caffè lasciò il suo sapore nella mia bocca.
Del tutto inaspettata avvertii una vibrazione in sintonia con la notte, con il suono del mare, simile un leggero modulare di una voce di donna indefinibile come una frequenza imprecisa, mi prese lo stordimento ebbro d'ambrosia, poi il silenzio delle stelle riprese il controllo.
Restai incredulo per qualche secondo, ergo come un sasso lasciato cadere in uno stagno giunge rapido sul fondo, inevitabilmente, la curiosità mi riportò sulle righe dattiloscritte.
"... Il tempo che trascorse rivelò a me la natura di un'infezione che oramai ammorbava la Tierra Esmeralda, come se il Male, in tutta la sua "nobiltà", vi albergasse in maniera sempre più irreversibile. Episodi di feroci risse tra l'equipaggio, marinai scomparsi nella notte senza che nessuno sapesse come, il comandante ormai posseduto dal demone della lussuria più selvaggia, una ridda di voci malevoli e sobillanti, la bramosia dell'oro e tutto ciò di abbietto immaginabile mi convinsero a mettere al sicuro il pulsante smeraldo.
L'occasione mi fu data da un'isola nelle cui acque gettammo l'ancora per provigionare la nave di alimenti e frutta.
Feci il punto nautico e ordii per sbarcare con i marinai incaricati. Giunti, con due lance, sulla spiaggia dell'isola, mi separai dagli uomini e mi inoltrai inosservato nella vegetazione, trovata una palma giovane e ben radicata praticai una sorta di tana alla sua base e con rimpianto vi seppellii il tascapane con il prezioso.
Siglai su una pietra corallina una "M" in memoria del mio cognome e posi quella a protezione.
Finito che ebbi ritornai su i miei passi.
Il calore che mi aveva avvolto dal momento del ritrovamento del "Cuore della dea ALAGHOM NAOM" mi lasciò.
Il cielo fu invaso da nubi ed il mare prese ad agitarsi.
Il vento sempre più potente annunciò l'arrivo di un tornado.
Giunsi giusto in tempo per salire sull'ultima lancia che lasciava l'isola.
Il Male pareva promanare dal galeone come fosse la fonte della bufera che si andava liberando.
Tutto precipitò in pochi minuti.
Il Tierra Esmeralda per evitare di essere disancorato e portato sui coralli levò gli ormeggi e con il solo uso delle vele minori prese la via del mare.
Furono del tutto inutili le nostre grida, gli spari, le maledizioni.
Vedemmo con sgomento le luci di poppa affievolirsi e sparire nel buio.
Perdemmo da subito la vista della prima lancia e il nostro tentativo di tornare a riva fu reso vano dai marosi.
Quando, dopo un tempo indefinibile, l'inferno del mare rientrò negli abissi e il sole scintillò sul mare calmo io mi riebbi, rotto in tutti gli ossi, solo sulla lancia alla deriva.
Temendo per la mia vita issai la vela e con l'aiuto del sole e delle stelle cercai la rotta per Maracaibo.
La mia lotta fu inutile in quanto non sapevo quanto mare aveva solcato la lancia con l'uragano.
Un'altra isola fu la mia salvezza ed in questa che scrivo le pagine di memoria nelle quali lascio ai naviganti futuri la posizione dell'isola ove giace in attesa "el coracon verte".
"Cazzo!!! Cazzo... CAZZO!! E vaiiii con la Peppa"
Il mio cervello era preda dell'euforia, tanto che mi alzai dalla sedia e mi precipitai sulla spiaggia buia dove mi esibii in una tarantella folle...
Esaurii il mio compiacimento fino a sfiatare.
Esausto fui pervaso da pensieri inquietanti.
Aleggiava in me, come un fantasma maligno, l'immagine del Prof. Manfred.
L'"azione" mi parve da subito la soluzione più praticabile.
Come se mi leggesse nella mente, l'alba seguente, al mio risveglio trovai seduto sul bordo del letto il mio angelo custode sdentato.
Rise, sgangheratamente, al mio sobbalzo.
Mi puntò l'indice in faccia e fece "PUM".
"Profesor tu est loco, no compriende?"
Oh! Capivo benissimo!
Con entusiasmo proposi a Gonzalo una avventura piena di incognite e lui si accese d'interesse alla vista di una cospicua mazzetta di biglietti da 100 dollari.
Per tutta risposta prese dal mio armadio una borsa vuota e me la porse.
La sua espressione tesa mi disse del rischio che incombeva su di me.
Fatto il bagaglio vi misi i documenti compresa l'ultima pagina di corteccia, infilai il grosso revolver in cintura e squagliai.
Per necessità e con dispiacere abbandonai la Cadillac, così, a bordo di un furgone tutto ruggine e ammaccature guidato da Gonzalo, lasciammo Cumanà con cura, in modo di non essere seguiti.
Prendemmo la direzione ad est della città, abbandonammo la strada costiera e penetrammo nella foresta seguendo delle piste forse note solo al mio salvatore, poi dopo una quarantina di chilometri ritornammo verso la costa fino a sbucare in una piccola baia fatta a fiordo dopo essere passati sotto un ponte che apparteneva alla littoranea.
Protetto alla vista dalle fitte fronde di foresta esisteva un piccolo porto, sulla riva una grossa baracca, sull'acqua un esile pontile e attraccato a questo un grosso barcone di lamiera caratterizzato da uno scafo basso e largo rialzato da murate in piastre metalliche saldate, in altri tempi doveva essere stato un rimorchiatore di media portata ma gli interventi che aveva subito lo rendevano un natante stranissimo dato che tra l'altro esibiva a poppa e a prua due corti alberi per vele.
Gonzalo me la presentò come se si trattasse di un parente chiamandola "nordizia".
In effetti si trattava di un rimorchiatore da fiume a basso pescaggio a cui era stato montato un potente motore di una draga e, con non poco ingegno, due derive laterali retrattili necessarie per affrontare il mare grosso.
Gonzalo gongolò vedendo il mio interesse, pochi attimi, poi intonò a voce alta una strofa di canzone da marinai a me sconosciuta, ciò sortì l'effetto di fare emergere dal verde della foresta sei figuri di razze varie e con caratteri definiti ben che laceri.
Mi presentò il suo variopinto equipaggio, tutti tagliagole, ma per buona ventura miei alleati.
Il "capitan" dette prova di grande efficienza e organizzo le provvigioni rapidamente.
Mi inquietò alquanto il fatto che si facesse un carico di alcuni fucili, un mitra a tamburo Thomson, un mitragliatore pesante con treppiede, una cassa di bombe a mano, alcune pistole e i consueti machete.
Le prime luci dell'alba del giorno seguente ci vide già in navigazione con rotta verso nord e in vista dell'isola di Granada.
Il nostro obiettivo era di allontanarci dalla costa venezuelana e poi fare rotta in pieno caribe con destinazione a sud est del Belize verso alcune isole di cui una in particolare, quella della quale conoscevo segretamente la posizione; le nostre scorte erano sufficienti per evitare un qualsiasi scalo onde ridurre la nostra tracciabilità.
L'azzurro intenso, a volte degradante al blu del mare si apriva in spuma bianca sotto la spinta potente della chiglia della "nordizia", il cielo era terso e profondo allo sguardo; un senso di tregua negli animi, chi pescava, chi raccontava di imprese di femmine, uno parlava vezzeggiando un imponente pappagallo multicolore, Gonzalo al timone, altri affascinati dal gioco delle carte, io sulla prua a nutrirmi di orizzonte e speranza.
Il primo giorno e la notte seguente trascorsero in un blando ozio.
Nello scorrere della mattina successiva un ronzio in cielo penetrò il rombo del motore del rimorchiatore, levammo tutti lo sguardo e vedemmo indugiare su di noi un idrovolante bianco.
L'aereo compì alcuni giri a una quota di 3000 metri circa, poi puntò verso est e si allontanò deciso in quella direzione.
Il fatto ci rese inquieti e il più teso parve Gonzalo, che decise di farci predisporre le armi.
L'ombra sulle espressioni dei nostri visi preludiò quella del cielo in tempesta sul far della sera.
La "nordizia" proseguì la sua rotta con caparbietà mentre le onde ingrossavano e le nuvole si chiudevano minacciose.
Le cose peggiorarono con l'avanzare della notte.
Calammo le derive.
La tempesta fagocitò ogni riferimento e ci costrinse a un convulso lavoro per stabilizzare il battello.
Fu improvviso!
Avvertimmo un urto sordo alla fiancata destra e un lampo nel cielo rese evidente un lungo scafo di un battello veloce pieno d'armati impegnati all'abbordaggio.
Urla concitate, Gonzalo manovrò d'istinto ed evitò il primo assalto.
Alcuni spari dal lato opposto ci rivelarono la presenza di un altra imbarcazione.
Al caos delle onde e dei fulmini si unirono gli spari, le raffiche, le esplosioni, le urla di guerra, gridi di dolore e rantoli.
Alcuni assalitori salirono a bordo e fu battaglia di pistole, coltelli e machete.
Una delle barche nemiche si beccò un grappolo di granate ed esplose in un gran vortice di fiamme e di sangue.
Per la prima volta uccisi un uomo.
Scaricai il mio revolver nel torace di un gigantesco nero con lo sguardo invasato.
Poi un forte urto alla fronte mi sprofondò in un sonno malato.
Dolorosamente, dopo un tempo immemore, lentamente riacquistai coscienza.
Tossii rifiutando di ingurgitare acqua salata.
Intorno era buio.
Tentai con gran fatica di alzarmi.
Mi resi conto di trovarmi sul fondo stiva della "nordizia".
Lo scafo aveva imbarcato acqua ed era sbandato di alcuni gradi a sinistra.
Mi passai la mano sulla fronte e vi riconobbi una ferita.
Abituai i miei occhi al buio e sfruttando piccoli spiragli di luce cominciai a distinguere l'ambiente in cui mi trovavo.
Ai miei pedi, immerso nell'acqua, vidi il corpo di uno dei compagni di Gonzalo;
i suoi capelli si muovevano, come un'anemone nera, a tempo con il lento sciabordio del natante.
Il silenzio mi suggerì lo scenario che mi aspettava sul ponte, grazie a questo non sussultai quando, emergendo dal boccaporto, incontrai lo sguardo vitreo di un creolo con la bocca adorna di sangue rappreso.
Sul battello "madonna Morte" aveva fatto un buon raccolto, ero l'unico sopravvissuto.
Gonzalo non era più a bordo, non lo trovai tra i dieci cadaveri che scoprii con indifferenza.
Creai una panoramica nella mia mente guardando a tutto cerchio l'orizzonte.
Nulla!
Solo mare piatto e cielo terso.
Un insensato bisogno d'ordine mi spinse a fare pulizia del battello.
Rintracciati tutti i cadaveri, chi ucciso da sparo e chi di lama, li disposi in ordine sul ponte; uno alla volta li gettai a mare per poi dedicarmi a rassettare la "nordizia".
Mentre ero impegnato, a svuotare l'acqua dalla stiva con l'uso di una pompa a mano, avvertii nel mare in bonaccia una varietà di rumori d'acqua e gorgoglii.
Salii in coperta, li uno spettacolo mi attendeva; una dozzina di grossi squali erano intenti a pasteggiare con i poveri corpi che non avevo zavorrato.
Come in ipnosi assistetti.
Ad un tratto mi venne da ridere; un grosso squalo con il muso deformato da un'antica ferita stava "lavorandosi" un corpo, la sua espressione lo rendeva incredibilmente simile a Oliver Hardy (Olio). Risi in maniera rumorosa a lungo.
Poi un sipario grigio sigillò la mia coscienza.
Raccolsi il mitra Thomson abbandonato dentro un nido di gomene.
Mi feci sulla murata e svuotai il tamburo di quaranta colpi su Olio...(Bastardo)
Il sangue dello squalo si mescolò con quello degli uomini dando origine a inedite gradazioni di rosso e rosa nel Caribe.
Per la prima volta avevo ucciso uno squalo!
Ultimai i lavori.
Visto che il motore non dava segni di vita issai le due piccole vele, una all'albero di prua e l'altra a quello di poppa in attesa di vento.
Trovai un bottiglione di rhum presso il timone, mi coricai nell'amaca abituale di Gonzalo e mi cullai con l'ausilio di una solenne sbornia.
Ultima cosa che dissi fu:
"Vai al diavolo mondo, vai al diavolo "Her Professor" tieniti il tuo inferno"
Dormire, sognare, morire, partire... ma va a fanculo! (Pensai)
Quanto è "solido" il sonno! Secondo me la pietra è materia che dorme.
Nell'esercizio d'Orfeo liberai l'inconscio e gli fornii uno specchio.
Sogni incredibili, musiche soavi, pensieri meravigliosi.
Nel magnifico caos, il riferimento nitido di una voce di femmina divenne un centro rivelatore di un ordine prima invisibile.
Costruii mondi, ne compresi il senso e tutto era bellezza.
Nello stordimento, di cui ero preda, mi resi conto che la barca si era messa in movimento spinta da un vento costante; il viaggio durò una decina di ore, o almeno cosi mi parve.
Fu con un frastuono, un rovinar di ferri che la "nordizia" convolò all'ultimo atto del suo destino.
L'urto nella barriera corallina fu fatale e cosi violento da scaraventarmi fuori dall'amaca.
Mi svegliai con dolori ovunque per il corpo, maledissi la cattiva sorte, ma subito mutai l'umore, ciò che vidi mi riempi il cuore.
Da quello che oramai era un relitto, godevo della visione di un giorno meraviglioso, il mare placido e turchese, il color ciano della laguna, la sabbia bianca di puro quarzo, una piccola jungla con alte palme e nell'aria gabbiani, albatri e versi di pappagalli dalle fronde.
Era l'isola più bella mai vista da occhio mortale.
Un dubbio mi sollecitò a fare il punto nautico, dunque divenni pazzo di gioia:
"Vecchio manigoldo spagnolo mi hai portato qui... al fine"
Le coordinate mi dissero che ero giunto a destinazione.
Pensandomi come un novello Robinson Crusoe organizzai il mio naufragio saccheggiando di cose utili lo scafo lacero color della ruggine.
Resa confortevole la mia permanenza mi misi ad esplorare quella fettina di paradiso.
L'isola misurava circa tre kilometri per uno, era circondata da una barriera corallina che verso ovest includeva una estesa laguna.
Oltre ad un bordo di sabbia bianchissima si sviluppava una fitta vegetazione da cui emergevano le palme da cocco gravide di noci.
La selva era composta da essenze arboree di varie specie, alcune producevano frutti commestibili, le fronde erano abitate da innumerevoli pappagalli dai colori sgargianti, l'ombroso sotto bosco offriva rifugio a innumerevoli pecari, ad una specie di pernici e varie tartarughe; un particolare tipo di liane rampicanti garantivano acqua potabile.
Nel tempo di una settimana avevo preso piacevolmente confidenza con quel luogo di sogno,
mi ero scoperto pescatore, cacciatore, raccoglitore, contadino non che costruttore.
Venne finalmente il momento di cercare il luogo della lapide con la "M" incisa da Don Ferdinando Martinez.
Mi sorpresi di come tutto si facesse silenzioso dal momento in cui decidevo di cercare la pietra di pulsante smeraldo: "El coracon verte".
L'isola bisbigliava.
Mi sentivo "pensato".
Col procedere la ricerca nella macchia ero abitato dall'impressione che il paesaggio si mutasse al mio punto di vista adeguando gradevolmente nella posa i fiori le piante e i colori.
Durante le mie ricerche accadde che, messo il piede su un cespuglio che occultava un avvallo, avevo perso l'equilibrio ed ero finito paro con il viso su un nido colmo d'uova d'uccello, non fui ferito se non nell'orgoglio e, ne sono certo, un brivido simile all'onda di una risata di donna mi aveva attraversato.
Avevo riso anch'io!
I pappagalli, via via, si erano fatti più ciarlieri generando un vocio di fondo che divenne col tempo ossessivo, migliaia di gorgheggi e vocalizzi nasali, insopportabili.
Mi convinsi che più mi avvicinavo al sacello del "prezioso" tanto più ero preda di una ebrezza bacchica.
Inesorabile e spietato, come un predatore, il "prodigio" era in agguato.
Spostando un nerboruto groviglio di cespuglio intravidi una pietra grigia siglata.
La "M" era nitida e inequivocabile.
L'emozione generò in me un vortice che esaltò il suono dell'isola e ad un tratto, come se avessi trovato una chiave di un codice criptico, il vociare degli uccelli, forte del rumore della risacca e del vento, mutò in una voce, una limpida e calda voce di donna.
L'isola parlò con me!
"Ora mi senti?"
Svenni.
Tutto quello che ho descritto è avvenuto e fa di me l'uomo d'oggi, di adesso, in questo istante.
È vero! So bene di chi è la voce suadente che parla a me e mi scalda il cuore.
È la Dea Terra, è Cere, è Kalì, è Alaghom Naom, è colei che è feconda, è colei che promette, è colei che dona, è colei che si accontenta solo d'amore e dedizione, in cambio da VITA e per giusto contra-passo accoglie la MORTE.
È una fine intellettuale, è saggia e poetica, pur essendo concreta.
Sa ascoltare, sa capire!
Sono affascinato dall'idea dell'eterno, al contempo però ne provo terrore.
"Tocca il mio cuore adesso"
Mi dice ad un tratto.
Mi alzo dal giaciglio, che pare un abbraccio, e raggiungo il luogo dove insiste la pietra a sigillo.
Con trepidazione rimuovo a forza la lapide corallina e un onda calda di luce verde vi investe pulsando.
Sono stupefatto.
Una grossa pietra di smeraldo pulsa ritmicamente... quasi musicale, allungo le mani con inquietudine e quando le mie dita vanno a contatto con il gigantesco smeraldo un calore intenso sale alla mia mente trasformandosi in immagini ed emozioni, tante quanto solo l'eternità può comprendere.
Lei inizia un racconto che mi comprende come un bozzolo, protettivo.
Man mano che i giorni trascorrono condivido piaceri e fascino, ma questa condizione è stancante, esaurisce la mia capacità di pensare, anche nel sonno non cesso di partecipare alle sue parole e attenzioni.
Un nuovo bisogno si fa strada nella mia ebra coscienza ed è la fuga.
Lei se ne accorge, d'altronde è inevitabile, e un velo di malinconia colora le sue parole.
Mi sento uno stronzo!
Il mio cuore anarchico batte con più entusiasmo ogni volta che pavento la tolda di una nave e la spuma delle onde sotto la chiglia.
Lei gioca sporco, manifestando un egoismo inatteso, ubriaca ulteriormente la mia mente.
Amante infaticabile, consuma la mia energia profonda.
Sono passati innumerevoli lassi di tempo e il giorno di oggi mi vede esausto e stordito supino sulla sabbia di quarzo, ma non tanto da non sobbalzare alla vista di una macchia incastellata di vele bianche sul smeraldo del mare, poco oltre la barriera corallina.
"Ehi! Dell'isola, serve aiuto?"
" Hey! Usted necesita ayuda?"
"Hey! You need help?"
Le voci mi arrivano nitide all'orecchio ingordo.
Non mi concedo il tempo di riflettere, di slancio, dando fondo a tutte le mie energie, mi getto in mare e nuoto come un forsennato sordo ad ogni suono.
Superato il confine della laguna mi vedo prossimo ad un'elegante scafo di un tre alberi bianco.
Ora lo sento l'urlo disperato.
Mi chiede perché la sto lasciando ed io sono vile, mi sento assolto grazie al fatto che il suo cuore di smeraldo lo lascio all'isola e in ciò recupero un poco di nobiltà.
Non le rispondo e salgo a bordo del "Carrugio" aiutato da mani italiane.
Lo yacht è di proprietà dell'industriale Ridolfi, genovese e in vacanza.
Sono oggetto di ogni attenzione e il fatto che io sia italiano entusiasma i miei salvatori.
Improvvisamente un alto grido si propaga dall'isola e una immane nuvola di vocianti pappagalli si leva alta nel cielo al di sopra delle palme.
Lei piange!
Tutte le espressioni, a bordo del "Carrugio", sono allibite meno la mia che è grigia di colpa.
A piene vele la candida macchina a vento solca le onde blu e all'orizzonte si allontana, sempre più diafana, l'isola triste.
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