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Il segno di Zorro

Le suore bianche erano molto più che bianche. Erano eteree. E tutto quello che le circondava era dolcemente rarefatto, a iniziare dal portone in strada, di un nocciola morbido, quasi liquido, che si stemperava in muri docili e chiari. Entravo nell'androne e ai miei occhi si apriva un mondo tenue e impalpabile, una nuvola bianca di soavissime graniglie e marmi candidi. La luce dei vetri smerigliati rendeva delicata ogni ombra e i pochi scalini portavano là dove tutto era buono. Delle suore bianche non ricordo alcun viso e alcun nome, forse perché non avevano né l'uno né l'altro. E non ricordo altri bambini all'infuori di me. Tutto era protetto da un velo di carta velina: solo i chiodini di plastica, che infilavo eccitato in una griglia bianchissima, esplodevano di colori, tinte forti e accese, come punture di vita inebriante.
Vennero poi le suore nere. E fu tutto diverso. L'asilo non sfumava nel cielo tra le foglie: era grigio e scuro, dai contorni marcati e spigolosi, circondato da una cancellata che era quasi un monito, un avvertimento. Per entrare non bastavano pochi gradini, si salivano scale estenuanti e si veniva consegnati alla suora di turno, anch'essa scura e spigolosa, dai contorni netti e definiti. E di ogni suora nera riconoscevo la faccia e ricordavo il nome, sapendo che non erano tutte uguali: una comandava ed era quella di cui avere più paura. Ci perquisiva per scoprire giochi abusivi, lanciava occhiate severe e riprendeva aspramente chi non sapeva le preghiere a memoria. Qui ricordo gli altri bambini. E sopra tutti ricordo Diego. Diego il più bravo. Diego il più bello. Diego che attirava ogni attenzione, con quel suo vestito da Zorro. Ricordare le preghiere a memoria e avere quel vestito da Zorro. Le suore bianche erano state un inganno: fuori da casa mancava sempre qualcosa per essere contento.

 

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