Ho ucciso mio padre. In realtà non è così, perlomeno non del tutto. Se c'è qualcuno che ha vissuto - quindi sofferto - la faccenda sono soltanto io. Ebbene sì, il sottoscritto è a rigore vittima e carnefice di tutto questo. La mia estrema lucidità in quest'attimo ne è riprova: pecco di coscienza, sono troppo cosciente, sono morbosamente, intollerabilmente cosciente. Questo demone - la lucidità - è stato mio unico costante compagno per i miei 12 anni di troppo. Ora ne ho 20, di anni. Ho commesso il mio assassinio perché la vita è insignificante, nel significante. Quale altra sarebbe potuta essere la causa se non un risarcimento estetico alla bruttezza della paternità, quella di mio padre per l'appunto?
Ovviamente io non ho ucciso nessuno. Meno che me stesso, sia chiaro. Ma ciò è una questione pre-natale. Un nato morto, insomma. Almeno così desidererei. In realtà sono estremamente vivo: così vivo da percepire intollerabilmente tutti i miei respiri, destinati a rimanere impuniti. Sono un conato. Definizione calzante, ne parlerò ancora spero.
Dunque la morte. Non del padre, sia chiaro. Perlomeno non ora. Che dire, quindi? Non saprei, non saprei veramente. In cuor mio non credo ci sia mai stato nulla da dire: le parole sono uscite così, vomitate lungo il corso della storia unicamente per arricchire la già numerosa schiera dell'a che pro. E dire che sarebbe stato così vantaggioso fermarsi alla luce. Un universo assolutamente bianco, pallido, morto. Se dio esiste, esso non può che essere un folle: l'unico demiurgo accettabile è un Dioniso ebbro, in balia di eccessi di crudeltà, destinatario a priori delle nostre maledizioni.
Che terribile banalità. Com'è possibile vivere sentendo dentro di sé una tempesta di lacrime? Il mio petto potrebbe esplodere da un momento all'altro: non lo fa per crudeltà, ne sono certo. La realtà è che sono troppo stanco anche per alzarmi da questa sedia e trascinarmi verso il letto, e anche se ci riuscissi il cervello non diserterebbe di certo, quel bastardo. Resterei ancorato all'incubo della veglia ancora per chissà quante ore.
Il mio è un assassinio mancato: oh, quanto desidererei vivere quegli attimi di febbrile pienezza, smarrirmi nell'estasi perversa della più turpe barbarie, dell'oscenità fatta delitto!
Invece il vuoto, il baratro. Riesco a immaginare le mie gocce di sangue gettarsi a capofitto nell'abisso delle arterie, pronte a schiantarsi contro qualsiasi organo, afferrate invece dal cuore e consegnate in balia delle vene, crudeli salvatrici della mia chimica, di questi suicidi mancati.