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Racconti su problemi sociali

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Economico ma pur sempre buono

Spense la sveglia e si alzò. James ricordava piccoli frammenti della sera precedente, solo che era andato a casa di Frank. E che bevvero una bottiglia di whisky molto economico. Si era ubriacato, pensò. Ma erano le 8, le otto di un nuovo giorno, la mattina di una nuova possibilità e... sì, aveva una terribile emicrania. Prima di far colazione decise di andarsi a fare una doccia in modo da riuscire ad arrivare preparato agli incontri che lo aspettavano quel giorno. Mentre si stava sbottonando i pantaloni ci pensò un attimo. Nulla, la sua mente era totalmente annebbiata. Come camminare nel buio, scommettere 1000 euro al casinò di Monaco. Ne sapeva qualcosa James, era proprio questo uno dei motivi per cui beveva. L'acqua calda iniziò a bagnarli la pelle e lentamente, una dopo l'altra, stava riattivando le sue cellule. Focalizzò il suo sguardo su una goccia. Seguendo il suo moto iniziarono a riaffiorare i ricordi, come se fossero conservati dentro ad una palla di vetro che aveva bisogno soltanto di spannarsi per rivelare il passato. Era stato Frank a invitarlo a casa sua e offrirgli del whisky. Economico ma pur sempre buono. Ci doveva essere un motivo, ci dovrà essere stato un motivo pensò.
James e Frank erano stati buoni amici al tempo delle superiori, ottimi compagni di banco, poi le loro strade si erano divise: James si iscrisse alla facoltà di filosofia mentre Frank ad economia. Il giorno prima le circostanze li avevano riavvicinati. Il primo disoccupato, l'altro in veste di banchiere. Si erano seduti al tavolo della cucina e avevano riempito i bicchieri, e... James ebbe un brivido, un brivido come quelli che ti assalgono quando sbadatamente frantumi una bottiglia di Jack Daniel's. Un frammento della sera precedente lo aveva praticamente lacerato.
E quindi adesso pensi di restare senza lavoro? - mi chiese Frank.
Ma no, sono alla ricerca di un lavoretto. Ma per adesso non ne ho bisogno più di tanto, i miei genitori non mi fanno mancare nulla.
Ma c

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   1 commenti     di: vasily biserov


Una grigia bugia

Quella che sto per raccontarvi è la storia di una ragazza di non molte pretese. Avrei desiderato semplicemente una vita normale fatta di comuni banalità come avere l'acqua calda con cui fare un bagno o dormire su di un materasso che non puzzi di umido.
Vivo a Boston, in periferia, in un quartiere dove mancano i colori, ogni cosa appare grigia, come il carbone che ogni giorno siamo costretti ad estrarre dalle miniere.
La mia casa è uguale alle altre: una lugubre costuzione dalle tristi finestre che non sorridono. Alle volte, ritornandoci, mi capita di "rientrare" dai miei vicini perchè le loro abitazione è identica alla mia. Perfino le tendine si somigliano: mostrano, crude, l'emblema della povertà, non un riccetto, un merletto, che denotano il lusso di una vanità di che non possiamo permetterci. Mio padre è un intelletuale costretto al lavoro di miniera per mantenere me e i miei quattro fratelli. Le sue idee scintillano di libertà e ugualianza fra le classi sociali, così, dopo gli sfruttamenti della della classe dirigente nei confronti degli operai, si è messo in sciopero ad oltranza insieme ad un gruppo di colleghi disperati, per le condizioni disumane in cui si lavora.
Infatti il lavoro in miniera è il più brutto al mondo, il cunicolo è stretto, buio, non si respira e si rischia di cadere perchè è molto ripido e ci si arrampica un po' avunque, alle viscere di quella terra umida e viscida, che ci castiga, ci umilia; nel profondo di quegli abissi ci sentiamo abbandonati dal mondo intero.
A questo punto vi chiederete perchè parlo al plurale mentre descrivo la miniera, è perchè anch'io ci lavoro, di nascosto a mio padre mi intrufolo nella folla degli operai che non partecipano allo sciopero e contro i quali il mio papà lancia grida di insulti come "venduti!". MI fa male la voce di mio padre che libero come un gabbiano che vola su un mare in tempesta urla a quella folla grigia e triste senza sapere che proprio li, ci sono anch'io, ch

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   5 commenti     di: Stella Spina


Sempre più torbide

Se è un problema mio che poi potrebbe ricadere quasi tutto su di me non pensi che sarebbe giusto che fossi io ad avere l'ultima parola? hai detto di averti fraintesa ma guarda che non mi sembra. Poi il tempo di ascoltare bene non ce l'hai e vuoi però lo stesso affrontare i discorsi e pure delicati. Mi domando e dico: come si può collaborare con te che fai perdere la concentrazione? è giusto lasciarti tranquilla, quello che io cerco di fare, ma tu dopo mi chiami cercando di smontare quello che mi riguarda, correndo il rischio di impazzire. Benedetta per favore ora stai esagerando. A tutto c'è un limite. Non vuoi curarti non ascolti nessuno dando problemi a chiunque. Forse, a questo punto dovresti decidere di farti vedere da qualcuno perlomeno parlare di cosa ti fa stare davvero male. Benedetta: ascoltami Alessandra, rivolgendosi a lei con ansia e paura da persona molto suscettibile, la devi smettere, tu non sai quello che dici. Io ho ragione a dire che vai avanti senza prima finire di ascoltare. Alessandra: sappi che in ogni situazione soprattutto se è difficilisima è fondamentale non perdere la calma quando poi, c'è qualcuno che richiede tanta pazienza e attenzione soltanto per lui che pretende di essere ascoltato, volendo risposte giuste e in realtà, essere ripreso. Se siamo precipitose che agiamo d'impulso succederà, che non ne verremmo a capo, con il risultato che sempre più torbide le acque, diventeranno

Prima parte



Etilomachia

Esco, mi infilo una sigaretta in bocca, apro la macchina, giro la chiave e pigio l’accendisigari. Aspetto che le candelette si siano scaldate, la luce sul cruscotto si spegne, metto in moto. Prendo l’accendisigari dopo aver messo la retro, mi accendo la sigaretta mentre, a memoria, percorro il vialetto di casa. La volta che una macchina sarà parcheggiata fuori posto, sarà da ridere. Soffio fuori il fumo che si contorce in spastiche volute contro il parabrezza, pigio il bottone del finestrino, do un’occhiata allo specchietto. Metto la macchina sulla via. Prima. Via: un altro sabato sera, o venerdì, tanto è uguale.
Non bevo mai a pasto, non bevo mai da solo, passo intere giornate, più raramente intere settimane senza sentire il bisogno di un goccio di alcool. Non un bicchiere di vino, non una grappetta, non una correzione al caffè. Poi, arriva sabato sera, o venerdì, tanto è uguale, e mi ubriaco, più o meno, a seconda della compagnia, dello stomaco che non è più quello di una volta, dell’aria che si respira, della posizione degli astri. Inevitabilmente, ogni sabato, o venerdì (che tanto è uguale), bevo abbastanza per essere legalmente ubriaco, molto spesso bevo abbastanza per sentirmi discretamente ubriaco, raramente, quasi mai per la verità, bevo abbastanza per non sentirmi più niente.
Da dove vengo io non siamo in pochi, quelli che fanno come me intendo, una buona percentuale del totale. Quale potrebbe essere una percentuale preoccupante? Il trenta? Il quaranta? Non so. So che i bar sono pieni, e poi sono piene le discoteche anche se ormai non vanno più, i disco pub, i disco bar e i wine bar, che ancora oggi da noi si chiamano osterie, e gli american bar, e i bar dei paesi vicini, e via discorrendo.
Intanto sono arrivato al semaforo, lampeggia di giallo, sono le nove e mezza, giro a sinistra attento alle precedenze. Cinquanta metri e poi a destra, poi tutto il viale, in fondo al viale è gia centro, io sto in periferia. Nel bar della pia

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   3 commenti     di: Umberto Briacco


Un pianeta chiamato Zen

Il 19 sbarrato ha il capolinea proprio nel cuore dello Zen. La Zona di Espansione Nord gode fama dubbia tra i cittadini palermitani, appena scesi dalla vettura, al capolinea, allo sguardo del viaggiatore si presenta uno spettacolo assurdo ed inquietante. La piazza è grande, immensa, lercia di rifiuti di ogni genere. Su questa superficie sono stati realizzati alla meglio da volenterosi del posto un paio di campetti di calcio e qualche pista di bocce, spalando alla meglio e spianando il terreno. Ai margini dello spiazzo, quasi a segnare il confine, vi sono dei massi, vecchi blocchi usati per le costruzioni dove con il bel tempo, vengono a sedersi gli uomini per fare qualche partita a carte. Le donne invece si vedono raramente in giro, solitamente si possono vedere al capolinea dell'Amat in attesa del mezzo pubblico che li porta al centro della città dove per qualche ora potranno inebriarsi dalle luci delle vetrine dei negozi, scrollandosi la paura di dosso, il grigiore delle proprie esistenze, quel marchio indelebile come solo può esserlo quello che proviene dall'emarginazione di chi vive allo Zen.
Nella stessa piazza dello Zen può capitare di vederci pascolare delle vacche, non si sà chi sia il proprietario di quegli animali, certo è che nessuno osa allontanarli. Sul lato aperto in direzione di Mondello, si notano alcune collinette di rifiuti, oltre quelle circondato, c'è lo Zen 2. Ci si arriva attraverso un varco aperto tra i cumoli di rifiuti; se è piovuto da poco il passaggio diventa un fossato pieno d'acqua ed allora diventa quasi impossibile attraversarlo, le strade sono in terra battuta e coperte letteralmente di cocci di bottiglie e mentre ti avvicini al corpo delle case, senti nelle ossa il freddo di tanti occhi che ti osservano, giri lo sguardo attorno eppure non riesci a scorgerli subito. La maggior parte di loro continua a rimanere nascosta. Gruppi di bambini smettono di giocare per osservare l'intruso e fare una prima valutazione sommaria: -"Sa

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Un generoso aiuto umanitario

Nella sede centrale londinese della Other World S. p. A., colosso con interessi nella chimica, nei prodotti alimentari e nelle materie plastiche e con filiali sparse tra Europa e terzo mondo, era in corso una riunione piuttosto accesa.
"Come sapete la popolazione terrestre si moltiplica in maniera incontrollata, ha raggiunto i sette miliardi di abitanti e col ritmo attuale non tarderà a toccare i dieci." - spiegava, in buon inglese ma gesticolando infervorato, Gian Enrico Fabris Di Bartolo, unico italiano presente nel consiglio d'amministrazione e responsabile per il sud Europa. - "La sovrappopolazione causa la morte per fame di milioni di persone all'anno, danni ambientali e il progressivo, inesorabile, esaurimento delle risorse. Non possiamo più rimanere indifferenti di fronte a tale sfacelo. Dobbiamo intervenire a casa loro. Non possiamo continuare a condurre affari nel terzo mondo e fingere di non vedere la miseria e la disperazione dei suoi abitanti, perché sono destinate ad allargarsi a macchia d'olio fino a..."
"E cosa ci possiamo fare? I salari li paghiamo, no? Non siamo benefattori. Scopo della nostra attività è ricavare profitti, non elargire manna." L'interruppe seccato uno dei presenti.
"Il consigliere Kurtz è brusco ma non del tutto in torto, Fabris. È nostra tradizionale politica evitare sfruttamenti eccessivi, ma l'attuale crisi economica è seria. Sono le filiali nel terzo mondo a renderci competitivi tagliando i costi del lavoro." Precisò, serafico, l'amministratore delegato.
"Ne sono pienamente conscio, Sir Wicked. Credo tuttavia che nell'attuale congiuntura, il ritorno d'immagine di un nostro generoso aiuto per sfamare quelle popolazioni ci procurerebbe benefici..."
"Bene, mettiamo allora ai voti la proposta del consigliere Fabris Di Bartolo." - Stabilì l'A. D. Sir Reginald James Wicked, al termine della discussione. - "Io do voto favorevole."

Gian Enrico Fabris Di Bartolo si recava all'aeroporto a bordo della limousine dell'A. D

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   5 commenti     di: Massimo Bianco


Una civetta che vede alla luce del sole

Non voleva saperne niente di quegli urli…vedeva ombre dappertutto e questo le bastava. Ombre nere, piccole, fugaci che la circondavano, l’atterrivano;simili a piccole bestioline malefiche…Poteva gridare quanto voleva;lei non avrebbe scostato la tenda per lasciarsi ferire gli occhi dal sole ormai alto, non avrebbe spalancato la finestra per far tacere quella voce violenta, diabolica, che congela il sangue…lo avrebbe lasciato ammazzare sua moglie, a chi importava d’altronde? Nessuno la credeva quando gridava dalla sua soffitta che quell’umo era un ubriacone, scansafatiche, pazzo…Già pazzo, detto da lei che vedeva le ombre;che non apriva mai le finestre, che usciva solo di notte come le civette…E civetta era il suo soprannome nel paese, e come quel animale dal canto lugubre anche lei era riconosciuta come una portatrice di sventure:sarebbe bastato un suo sguardo, dicevano, per avere un biglietto di sola andata per l’inferno…Era una medusa dell’era moderna;una donna che vedeva le ombre, cioè il diavolo, quindi da tenere alle dovute distanze, da non guardare mai negli occhi e se questo accadeva bisognava subito scappare verso la prima chiesa confessarsi e farsi benedire…Un sistema utile per far placare quelle urla, il suono delle botte sul volto di quella donna, che si era dimenticata da tempo di essere umana ed assumeva sempre più le sembianze di una pietra da scalfire, violentare, gettare da una rupe e dimenticare…
Ma oggi non ne aveva voglia;non voleva vedere gli occhini quella donna che guardavano verso la sua finestra come quando si guarda il sole dopo la tempesta…chiedeva pietà.. ma un pazzo può provare pietà? Non trovava risposte in quella stanza buia, piena solo delle foto dei suoi due amati genitori, illuminate da candele funeree;no, non poteva provare pietà, perché per provare pietà bisognava soffrire e della sofferenza lei, nell’arco dei suoi trentacinque ani non ne aveva mai visto l’ombra…
Il mondo fuori soffriva;il sole che faceva invecchiare

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