Provate a immaginare un mondo a rovescio: così per gioco.
Un mondo a esempio dove i bambini che studiano si suicidano, e quelli che spingono al suicidio questi, passano tutto il tempo a tirare calci a un pallone, perché (assurdo) chi calcia bene un pallone, sposa le più belle della classe.
Oppure, un mondo in cui sei miliardi di formichine lavorano alacremente tutti i giorni, per tagliare il ramo su cui stanno sedute, inquinando l’atmosfera e rovinando l’habitat per puro divertimento.
O ancora un mondo in cui la fede in Dio serve da pretesto per uccidere altri simili anziché insegnare l’amore e la tolleranza.
O sentite questa, un mondo in cui fare politica non è servire la società e aiutarla a evolvere, ma più semplicemente un pretesto per conquistare posizioni sociali vantaggiose, a dispetto di qualunque principio.
E questa: un mondo in cui essere diversi, non stimola la curiosità ma il sospetto.
E questa qui… un mondo in cui, una piccola parte di ricchi sfrutta più della metà delle risorse disponibili… e dove magari gli altri, spinti dalla disperazione e dalla fame, sfidano il mare su improbabili carrette, con la certezza che molti di loro moriranno, solo per essere trattati da criminali in altri luoghi; come se avere fame e disperazione fosse in sé un reato.
Un mondo in cui le donne, coloro che perpetuano la specie e che sono l’incarnazione della bellezza; coloro che hanno ispirato poeti, musicisti, pittori… vengono trattate come schiave, picchiate, stuprate… così: perché gli uomini possono farlo, punto e basta.
Un mondo in cui… vi sto annoiando?
Avete ragione che razza di mondo idiota sarebbe mai questo. Forse è meglio dormire. Metto la sveglia e domani ritorno in un altro mondo.
Sempre più spesso si parla delle situazioni di disagio e di malessere che vivono molti ragazzi oggi…
Spesso sono portata a riflettere sul ruolo che deve avere un genitore e spesso mi confronto con tanti genitori che come me hanno l’abitudine di mettersi in discussione per cercare di migliorare…anche se poi risulta sempre molto difficile trovare la strada giusta.
Sono convinta che fare il genitore sia in assoluto il compito più difficile. Non esistono ricette, istruzioni per l’uso, manuali validi.
Ogni figlio poi è diverso dall’altro e, quanto è facile sbagliare!
Spesso gli errori non sono fatti con consapevolezza;spesso li commettiamo per il troppo amore e per il desiderio di dare loro quello che a noi è stato negato.
Purtroppo così facendo subentrano una serie di problemi, e, quando ce ne rendiamo conto, talvolta è tardi.
Perché?
Spesso tendiamo ad accontentare i nostri figli (grandi o piccoli che siano) nei loro richieste(oserei dire talvolta capricci…);spesso è proprio la stanchezza che ci porta ad assecondarli…È più facile dire di sì…
Purtroppo però non prendiamo nella dovuta considerazione le conseguenze del nostro frequente accondiscendere a tutte le loro richieste…..
Assecondandoli in tutto e per tutto non li aiutiamo a crescere perché avere tutto e subito significa non fargli capire ed apprezzare il valore di ogni singola cosa….
1) Quante volte i nostri bambini non riescono a giocare con i giocattoli per più di pochi minuti e poi si annoiano?
2) Perché tante volte capita che loro stessi non sanno più esprimere un desiderio?( hanno tutto, troppo, non sanno più che cosa chiedere..)
3) Perché sono spesso insoddisfatti ed annoiati e talvolta aggressivi?
4) Perché hanno difficoltà a relazionarsi con i loro coetanei?
5) Perché i nostri figli, in particolare gli adolescenti, sono spesso in crisi e sono particolarmente fragili emotivamente?
Queste sono solo alcune delle do
Un forte vento scompigliava la cima della casa alimentando un flusso ininterrotto di foglie che si andavano a posare sul giardino.
Henver guardava incuriosito pensando che un vento così l’aveva osservato quando suo padre scendeva dalla montagna e si recava in città a salutare il fratello.
Baci, abbracci e salamelecchi.
Lui ne approfittava:nonostante il sonno accettava di alzarsi alle quattro di mattina.
Dopo una colazione a base di formaggio s’infilava nel carretto e continuava a dormire aggrappato ad una esile coperta. Nel dormiveglia pensava e non capiva perché il padre fosse così parsimonioso con i figli e invece magnanimo con i parenti.
Lui, ad esempio, sgobbava nei campi, da mane a sera, ma si doveva accontentare di una misera scodella di fagioli.
La luce dell’alba aveva poi il potere di sciogliere queste immagini contorte.
Si svegliava e conversava a monosillabi con il padre.
Poi un giorno era sopraggiunto un uomo, a cavallo di una vecchia Mercedes.
Si faceva chiamare Pasquale. Aveva preso alloggio in una locanda.
Spesso si spingeva oltre, visitando alture e paesi circostanti.
Gli abitanti apprezzavano i suoi vestiti e si avvicinavano a lui solo quando li intratteneva con racconti estemporanei sull’Italia.
Henver non prestava ascolto a quello che diceva, ciononostante aumentava la sua insofferenza verso il lavoro quotidiano.
Una mattina, incontrò Pasquale su una ripida scalinata.
Era una via di accesso alle montagne. I giovani desistevano ma qualche uomo maturo si spingeva ancora oltre, cimentandosi con la durezza che quel cammino comportava.
Pasquale masticava erbe, era rilassato ma il suo viso cedeva ad una improvvisa rassegnazione.
- Cosa fai qui? Torno a casa.
- Ma quale, quella vecchia stamberga?
- Non ho altro!
- Potresti non accontentarti. Replicò.
- Tu parli ma non sai cosa dici.
- Fidati ogni tanto.
- Sei comodo, ti muovi... e poi crei scompiglio.
- Credi?
- La ge
A fatica aprivo gli occhi, intorno a me la solita merda, un cumulo di cose di ogni genere sparse in ogni parte senza alcun senso. Faceva freddo ed era buio, filtravano dalla finestra sbarrata pungoli di luce, qua e la, dipingendo, forse realmente, o solamente nella mia mente, giochi di luce e ombre lugubri, demoni straziati dal dolore, dipinti da lacrime di sangue, ombre riflesse del mio essere, frutto di un'insensata razionalità, parte costante della mia persona. Libri buttati dappertutto, vestiti in terra, ogni sorta di lerciume avvinghiato alle pareti, ai pavimenti, ai vestiti. Il puzzo trasaliva da ogni parte della stanza, una fogna circondata da quattro mura di cemento spesso, rifugio di anime dannate, una latrina ripugnante, esempio del mio modo di essere, senza limite ne vergogna. Mi tirai su, ovviamente mi ero addormentato a terra, avevo ancora al braccio il laccio emostatico improvvisato, una cintura di cuoio, di quelle belle, alla moda, esempio di una vecchia vita, che quasi non ricordo più. La siringa, sporca di sangue rappreso appoggiata sulla bustina vuota di quella sostanza che tanto odiavo ma indispensabile come l'acqua e il cibo. "Grazie a Dio prima di partire, ero riuscito a togliermela dal braccio, chi sa che cosa sarebbe successo se l'avessi lasciata infilata nella vena, si sarebbe potuto spezzare l'ago, e si sarebbe squarciata la vena, forse sarebbe stato meglio così". Ed ecco che si fece sentire, quel morso gelido alla bocca dello stomaco, quel terrore insensato che attanagliava ogni pensiero, avevo bisogno di quel bacio gelido; avevo bisogno della mia carceriera, della mia salvatrice, avevo bisogno dell'eroina. Niente viveva più in me, solo il desiderio indomabile della ricerca di quel primo viaggio di due anni prima. Già, due anni fa... Era molto diversa la vita due anni fa. Maledetto quel giorno di due anni fa, maledetto! Pensavo che forse avrei dovuto farla finita li, avrei dovuto fare un ultimo viaggio, quello più intenso e senza rito
[continua a leggere...]L'anziano Ugo, quel giorno era in ritardo. Come ogni venerdì, aveva un appuntamento dal suo medico per dei problemi di salute che, una certa età, spesso porta con sé e regala. Non erano, però , soltanto le troppe primavere vissute a causargli una serie di fastidi, più o meno gravi: era stato anche il suo vissuto, che da qualche anno, lo aveva messo con le spalle al muro. Erano troppe le cicatrici e le ferite ancora aperte che portava sul suo corpo. La vita era sempre stata dura con lui, ma, di recente, il dolore era diventato un pasto quotidiano.
Aveva anche smesso di andare a Messa. All'inizio, quando iniziarono i problemi, la fede divenne il suo unico rifugio e, così, cominciò a partecipare alle celebrazioni non soltanto la domenica e festivi, ma tutti i giorni, sperando che prima o poi, arrivasse un aiuto dall'alto. Aiuto che, però, non giunse mai. Così, il nostro uomo, deluso giorno dopo giorno sempre di più, lentamente smise di andare in chiesa. E non solo. Buttò anche via il piccolo crocefisso a cui era molto legato, e che teneva stretto tra le mani nei momenti più difficili delle sua vita. Non sia mai, poi, che qualcuno gli parlasse di Dio: andava su tutte le furie. "Dove è Dio quando lo invoco?" rispondeva. "Che senso ha avuto la sua morte in croce?" si domandava, "a cosa è servita la sua morte, se il mondo continua a girare all'incontrario?". La domanda che però avrebbe voluto rivolgere direttamente all'Onnipotente, non senza una certa dose di superbia, era: " Perché invece di farti appendere ad un legno, non ti sei eretto dall'alto del tuo potere, annientando con la tua divina forza il male? Avresti visto," pensava "come tutti allora ti avrebbero dato ascolto!".
Quel giorno era davvero in ritardo. Scese le scale del suo palazzo in fretta, o meglio, quanto più veloce poteva col suo fisico. Fuori faceva freddo, ed il cielo era cupo.
Arrivato nell'androne, notò dietro ad un pilastro un'ombra che lo aspettava. Er
FERRO E LEGNO
La discesa si apre all’improvviso all’incrocio di un lungo vialone che prosegue rettilineo per parecchi kilometri, uno dei tanti che delineano l’assetto stretto e lungo della città, non ho bisogno di chiedere informazioni, so benissimo dove andare, ed anche se non lo sapessi, ci arriverei lo stesso seguendo la processione dei camion.
Non c’è modo di sbagliarsi, sono a soli tre a quattro silometri dalla Piazza principale della città, ma sembra, svoltando l’angolo, di passare dalla normale realtà di una normale cittadina aquella di una disastrata periferia terzomondista, che potrebbe appartenere ad una qualsiasi metropoli Africana, o Sud Americana, ed invece appartiene alla parte più a Sud dell’Europa, quella che per molti è Nord Africa, e chissà…. forse è così.
Mi avvicino al gabbiotto all’entrata, c’è un vecchio dalla pelle di cartone dentro:
“Scusi, sono nuovo, dove devo andare per i tre mesi”?
“Avanti, segui u canaluni”
U canaluni non è altro che un fiumiciattolo immondo, di colore indefinito, costituito di liquami vari, sicuramente da grasso di motore e residui di gasolio, misto a chissà che altro.
A sinistra lo spiazzo dell’autorimessa con l’officina annessa, tanti camion in fila, la maggior parte palesemente fuori uso, alcuni meccanici che si aggirano tra di essi senza degnarli di attenzione, alcuni mezzi leggeri ai lati del vialetto che sto percorrendo, ed un paio di gabbiani tisici che mi volano sopra, c’è puzza di decadenza.
All’improvviso, misto al fetore, mi giunge in una piccola parte della narice un profumo agonizzante, familiare, destabilizzante, è iodio, allora realizzo che a non più di trenta metri da dove mi trovo c’è il mare, e che mia suocera mi raccontava che dopo la guerra, in questo stesso punto e per molti kilometri a seguire, si veniva a fare il bagno, e c’erano persino alcuni lidi, la gente usciva di casa e dopo cinque minuti era in spiaggia a guardare
Erano tutti vuoti quei posti e le sue gambe non reggevano più. Ma la volontà era più forte... non doveva sedersi! Non poteva sedersi! Quelli erano posti riservati: RISERVATI AI BIANCHI!
Lei aveva un bel colore nocciola, grandi occhi scuri, capelli neri lucenti e lunghe gambe ambrate. Da bambina aveva sognato di vivere in città. Lei era nata e vissuta in campagna fino a quando aveva deciso di abbandonarla. Abitava in una fattoria dell'Alabama con la madre e una sorella e conduceva una vita umile ma serena. Aveva conosciuto solo gente di colore, aveva avuto molti amici, di quelli buoni, fedeli per la vita. Quando partì per cercare lavoro in città, in una torrida mattina del 26 giugno 1954, fu un giorno triste per tutti, ma non per lei. Sua madre aveva le lacrime agli occhi e i suoi amici non osavano parlare per via di quel groppo alla gola che ti prende in queste circostanze e non ti lascia libero fino a quando in solitudine sfoghi tutta la tua angoscia. Lei non era triste, solo un po' malinconica per il fatto di doversi allontanare dai suoi affetti. Aveva tante aspettative e la gioia di vivere che appartiene a una quindicenne che non ha ancora conosciuto la delusione o ancora peggio la disillusione. La città era grande, ci sarebbe stato posto anche per lei e presto l'avrebbero raggiunta sua madre e sua sorella. Contrariamente alla maggior parte dei figli di contadini lei era andata a scuola, una piccolissima scuola di campagna dove aveva imparato le principali nozioni. Adorava leggere e il suo sogno era diventare giornalista. Sapeva che la città l'avrebbe aiutata a realizzare il suo sogno, credeva che la città l'avrebbe accolta, con le sue grandi strade, i negozi illuminati, i ristoranti, i bar, i teatri e le biblioteche. Sognava ad occhi aperti di perdersi tra gli scaffali pieni di libri delle biblioteche, lei non ne aveva mai posseduto uno, la sua insegnante gliene prestava di tanto in tanto e lei li accettava con gratitudine ed emozione e leggeva vor
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