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Racconti su problemi sociali

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IL VIAGGIO DI HENVER

Un forte vento scompigliava la cima della casa alimentando un flusso ininterrotto di foglie che si andavano a posare sul giardino.
Henver guardava incuriosito pensando che un vento così l’aveva osservato quando suo padre scendeva dalla montagna e si recava in città a salutare il fratello.
Baci, abbracci e salamelecchi.

Lui ne approfittava:nonostante il sonno accettava di alzarsi alle quattro di mattina.
Dopo una colazione a base di formaggio s’infilava nel carretto e continuava a dormire aggrappato ad una esile coperta. Nel dormiveglia pensava e non capiva perché il padre fosse così parsimonioso con i figli e invece magnanimo con i parenti.
Lui, ad esempio, sgobbava nei campi, da mane a sera, ma si doveva accontentare di una misera scodella di fagioli.
La luce dell’alba aveva poi il potere di sciogliere queste immagini contorte.
Si svegliava e conversava a monosillabi con il padre.

Poi un giorno era sopraggiunto un uomo, a cavallo di una vecchia Mercedes.
Si faceva chiamare Pasquale. Aveva preso alloggio in una locanda.
Spesso si spingeva oltre, visitando alture e paesi circostanti.
Gli abitanti apprezzavano i suoi vestiti e si avvicinavano a lui solo quando li intratteneva con racconti estemporanei sull’Italia.
Henver non prestava ascolto a quello che diceva, ciononostante aumentava la sua insofferenza verso il lavoro quotidiano.
Una mattina, incontrò Pasquale su una ripida scalinata.
Era una via di accesso alle montagne. I giovani desistevano ma qualche uomo maturo si spingeva ancora oltre, cimentandosi con la durezza che quel cammino comportava.
Pasquale masticava erbe, era rilassato ma il suo viso cedeva ad una improvvisa rassegnazione.
- Cosa fai qui? Torno a casa.
- Ma quale, quella vecchia stamberga?
- Non ho altro!
- Potresti non accontentarti. Replicò.
- Tu parli ma non sai cosa dici.
- Fidati ogni tanto.
- Sei comodo, ti muovi... e poi crei scompiglio.
- Credi?
- La ge

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   1 commenti     di: Roberto Estavio


Economico ma pur sempre buono

Spense la sveglia e si alzò. James ricordava piccoli frammenti della sera precedente, solo che era andato a casa di Frank. E che bevvero una bottiglia di whisky molto economico. Si era ubriacato, pensò. Ma erano le 8, le otto di un nuovo giorno, la mattina di una nuova possibilità e... sì, aveva una terribile emicrania. Prima di far colazione decise di andarsi a fare una doccia in modo da riuscire ad arrivare preparato agli incontri che lo aspettavano quel giorno. Mentre si stava sbottonando i pantaloni ci pensò un attimo. Nulla, la sua mente era totalmente annebbiata. Come camminare nel buio, scommettere 1000 euro al casinò di Monaco. Ne sapeva qualcosa James, era proprio questo uno dei motivi per cui beveva. L'acqua calda iniziò a bagnarli la pelle e lentamente, una dopo l'altra, stava riattivando le sue cellule. Focalizzò il suo sguardo su una goccia. Seguendo il suo moto iniziarono a riaffiorare i ricordi, come se fossero conservati dentro ad una palla di vetro che aveva bisogno soltanto di spannarsi per rivelare il passato. Era stato Frank a invitarlo a casa sua e offrirgli del whisky. Economico ma pur sempre buono. Ci doveva essere un motivo, ci dovrà essere stato un motivo pensò.
James e Frank erano stati buoni amici al tempo delle superiori, ottimi compagni di banco, poi le loro strade si erano divise: James si iscrisse alla facoltà di filosofia mentre Frank ad economia. Il giorno prima le circostanze li avevano riavvicinati. Il primo disoccupato, l'altro in veste di banchiere. Si erano seduti al tavolo della cucina e avevano riempito i bicchieri, e... James ebbe un brivido, un brivido come quelli che ti assalgono quando sbadatamente frantumi una bottiglia di Jack Daniel's. Un frammento della sera precedente lo aveva praticamente lacerato.
E quindi adesso pensi di restare senza lavoro? - mi chiese Frank.
Ma no, sono alla ricerca di un lavoretto. Ma per adesso non ne ho bisogno più di tanto, i miei genitori non mi fanno mancare nulla.
Ma c

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   1 commenti     di: vasily biserov


D. O. C. 2 (Con gli occhi di Mara)

Mi sono sforzata, ho provato, ma anche oggi non sono riuscita a trovare i tempi giusti, il rapporto corretto col mondo normale.
È come se - riemergendo dal solito sonno di superficie, l’unico che riesco a raggiungere - dopo un’altra notte trascorsa dapprima a sistemare decine e decine di volte i flaconi dei vari prodotti per l’igiene personale fino a quando la loro disposizione non soddisfa i miei rigorosi criteri; poi insaponandomi metodicamente fino a quando la schiuma non nasconde il mio corpo almeno in parte alla mia vista, ed infine cercando una disposizione inappuntabile delle lenzuola e delle coperte, in maniera che mi ricoprano con sublime precisione, non lasciando fuori nulla di me, nulla della mia persona che possa restare esposto a ciò che di notte aleggia sulla mia mente, il tempo speso in questa febbricitante attività mi abbia mandato fuori sincrono rispetto agli altri, come un film in cui le immagini scorrono con tempi diversi rispetto al sonoro, e mi concede solo due o tre ore di riposo malsano.
Per fortuna Gianni ha il sonno molto pesante, ma in queste condizioni riposare realmente è quasi impossibile, anche perché, per soddisfare le mie necessità, devo anche lasciare la luce accesa, e questo non contribuisce affatto a farlo realmente dormire.
Anche adesso, mentre sono qui in bagno ed ho già ricominciato ad eseguire quella sfilza di gesti obbligati e nocivi dai quali non riesco ad affrancarmi e che anzi, continuano ad aumentare in numero e difficoltà esecutiva, mentre non riesco a smettere di lavarmi, e lavarmi, e lavarmi, e lavarmi ancora le mani, so che di là Gianni stà camminando sul vetro, nervoso ed irritato per il ritardo che sta già accumulandosi sul suo ruolino di marcia giornaliero, e sta pensando alle frecciatine idiote di Terenzi e dei colleghi, alle battutine furbe su quella moglie dalle braccia pallide, eppure non riesco a smettere, non riesco a vincere, non riesco, non riesco……ed il rimorso per la vita a

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IL DENARO

Il denaro
può comprare una casa
ma non un focolare;

può comprare un letto
ma non il sonno;

può comprare un orologio
ma non il tempo;

può comprare un libro
ma non la conoscenza;

può comprare una posizione
ma non il rispetto;

può pagare il dottore
ma non la salute;

può comprare l'anima
ma non la vita;

può comprare il sesso
ma non l'amore.

   5 commenti     di: ian romanto


La bambina dalle scarpette celesti

Che il sogno dei bambini abbandonati diventi realtà.

Nel cortile, il vocio dei bambini, che allegramente giocavano, il baccano scomposto, tutto era saturo della dolcezza dell'infanzia. E una bambina, in disparte, sotto l'albero dei sogni. Così lo chiamava, ogni volta che voleva sognare si rifugiava sotto di lui.
Mentre osservava l'andirivieni delle nuvole nell'azzurro del cielo, immaginava come sarebbe stato bello uscire a passeggio, la domenica, con delle scarpette celesti y un vestitino di tulle e perle. Una donna la portava per mano e il suo sguardo amoroso seguiva il soave ricciolo dei neri capelli della bambina, mosso dal vento pomeridiano. La bambina portava in mano, un delizioso gelato multicolore e nelle sue labbra aveva stampato il sorriso della felicità. Era la sua mamma, la mamma che la aveva scelta, un pomeriggio d'inverno, in un gelido orfanotrofio. Il suo sguardo pieno d'entusiasmo, che rispecchiava la sua speranza di essere adottata, arrivò dritto al cuore di quella nobile donna, cui la vita aveva negato figli propri. L'amore materno, fiorì all'istante, di fronte a quella dolce bambina e da quel momento i loro cuori sarebbero stati uniti per sempre.

Il suono del fischietto che portava la maestra, svegliò la bambina dal suo mondo di sogni. La tristezza s'impadronì della sua anima e una lacrima scivolò soave nella tenera guancia. Era stato un sogno... solamente un sogno. E la realtà la avvolse col suo manto grigio, era ancora rinchiusa in quel gelido orfanotrofio, dove un giorno sua madre, bussò alla porta per lasciarla... affinché qualcuno di buon cuore e di nobile anima, gli offrisse una vita migliore.



D. O. C.

Deve esserci stato, sinistramente nero come un frammento appuntito di ossidiana, un singolo istante, un infinitesimale attimo, un insignificante nanosecondo, in cui è accaduto che Mara abbia abbassato la guardia, allentato la tensione, ed abbia consentito ad un immateriale anelito di malignità di penetrare in lei.
Questo deve dapprima essere rimasto un po’ sorpreso dal trovare quella breccia, forse ha esitato sorvolandola in ammalianti spirali apparentemente disinteressate alla sua condizione, ma una volta appurato che la via era davvero aperta, deve essersi incuneato gelido e velocissimo in lei, conficcandosi con artigli uncinati in un angolo riparato dell’edificio della sua coscienza, e lì, abbia cominciato il suo perverso lavoro.
Forse se riuscissi davvero ad isolare quel momento potrei realmente fare qualcosa, potrei davvero aiutarla, ma non ci riesco, non riesco a ricordare come è accaduto, e probabilmente questa è un'altra immonda prerogativa dell’entità che è in lei.
Quella, cioè, di poter fare in modo che tutto quello che può ricondurre ad una razionalizzazione della situazione, ad una presa di coscienza oggettiva, resti sfumato nei contorni, dissonante rispetto alla colonna sonora dei gesti quotidiani, scanditi invece dai suoi ordini indecenti, schiavizzanti.
Mara è in bagno, si è alzata da parecchio, ma, come sempre, sta ancora eseguendo i comandi che le vengono imposti.
Ha lavato cinque volte, (non una di più, non una di meno), il lavabo, ed ora sta insaponandosi le braccia con movimenti ossessivi e violenti.
In breve, date le proprietà altamente schiumogene del sapone liquido, le si forma fino all’altezza dei gomiti una densa e soffice nuvola bianca, talmente spessa che è impossibile vedere al di sotto, ma tanto non ne ho bisogno, sò perfettamente che la pelle di Mara, violentata dalle decine di ripetizioni quotidiane del rito, ha completamento perso il suo strato superficiale ed ha ormai assunto un aspetto cadaverico, bi

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Cari mamma e papà

Toc toc, toc toc…Il rumore della pioggia che cade fuori mi tormenta… È un rumore implacabile, senza fine, come quel tarlo che ormai alberga nel mio cervello, quella voce che non tace mai, che inesorabilmente continua a parlarmi… Alcuni la chiamano coscienza… Io non so darle un nome, non so cosa sia, so solo che mi rende impossibile vivere questa vita… Continua a ripetermi che quello che faccio è sbagliato, che causa solo sofferenza, in me e nelle persone che mi stanno attorno, che mi amano, o che almeno credono di amarmi, nei miei genitori… Riesco quasi ad immaginarmi i loro sguardi attoniti, colpevoli se sapessero tutto, se sapessero come la loro amata figlioletta passa le giornate… Se solo sapessero come la loro innocente figlia irretisce gli uomini, solo per guadagnare quegli sporchi soldi che poi le servono per procurarsi un’altra dose di veleno, da spararsi nelle vene senza pietà, senza alcuna remore, con l’unico desiderio di dimenticare tutto, di non pensare più, di cancellare dalla propria mente quel tormento, quella tristezza… E funziona, sì funziona, almeno fino alla prima crisi di astinenza…
E quindi ho deciso… Eh sì cari genitori, per la prima volta nella propria vita la vostra cara figlioletta ha preso una decisione... Siete fieri di lei?
Ho deciso, questa volta farò quello che occorre fare, quello che è giusto…
Questa sarà l’ultima volta che mi farò, che mi inquinerò con quella porcheria… Ho preparato tutto con cura… Ho comperato la dose, e mi sono rifugiata nella mia cameretta, consapevole di essere da sola in questa casa, almeno per le prossime due tre ore… Attorno a me oggetti di un’infanzia lontana, che mi sembra di non aver mai vissuto… In una mano una siringa, che vaga sul braccio alla ricerca della vena, di quel collegamento fra me e la morte… Lentamente il liquido va giù, sento come una scarica di adrenalina, all’ennesima potenza, come risvegliarsi all’improvviso da un terribile incubo

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   2 commenti     di: arianna nuvola



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