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Racconti brevi

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In un bar deserto alle 3 e 18 del pomeriggio

il locale era deserto.
ferdinando celinio aveva una faccia del colore del carbone quando è stato sbraciato. scura la pelle, splendente il cuore, si persuadeva lui.
non tirava a indovinare, ferdinando celinio, aveva una visione precisa su molte cose. le donne erano importanti ma portavano grane. il sesso era uno stratagemma animale. creare era importante. creare ti innalzava dalla miseria. ti portava nelle alture riservate ai Titani e ti fortificava. era l'unico senso possibile. l'unica salvezza. ma lui non aveva figli, scriveva semplicemente poesie.
prese il bicchiere e lo sollevò, straniante-opaca sensazione di onnipotenza. c'era anche questo, tra tutto, in fondo.
alla televisione sfilavano ragazzi e ragazze con delle rose in mano. si baciavano, sorridevano, tamburellavano parole con l'urgenza di un bisogno fisiologico. erano contenti. amavano la vita, si vedeva.
erano le 3 e 18 di un pomeriggio invernale.
il Natale come un mal di denti ritornava a vestire le strade. si mangiava tutto, il Natale. era un tritacarne. le lucine intermittenti rosse e verdi coprivano una parete del locale.
c'era un alberello spruzzato di bianco con delle palle azzurro-rosa. c'era anche il Cristo sul muro, in una cornice color oro. c'era la sofferenza del mondo su quella parete mattonellata. la sofferenza era ovunque, ferdinando celinio lo sapeva.
Carmelo Rinciari, il titolare de l'orgoglio nascosto bar, era un devoto di Cristo. anche ferdinando simpatizzava per Lui. si erano trovati spesso a discutere sul senso spirituale dell'esistenza. ferdinando aveva una visione laica, ma non si poneva limiti nell'ascolto.
la vita era una cosa in continuo mutamento. era difficile vivere e capire. le opinioni si ribaltavano e spesso tornavano al punto di partenza. il senso era fermo negli stomaci delle pietre.
invidiava chi non tornava indietro nelle proprie idee. invidiava dell'ignoranza la logica atta a semplificare le cose. gli uomini erano palloni gonfiati, soprattutto gli uomini, e l

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   0 commenti     di: Ferdinando


Remember me

Flash. Il red carpet. Il vestito disegnato e cucito da Dior. Sorrisi e sguardi da infarto.
Al microfono ti perdi in emozioni e imbarazzi, rendendoti dolce agli occhi del mondo. Una nuova stella ha varcato la soglia di Hollywood.
Il tuo primo film.
Anni di gavetta, comparsate fugaci in fiction da quattro soldi, pubblicità di cellulari, un paio di ruoli da non protagonista in film di produzione italiana e poi il grande salto.

Abbiamo fatto l'amore. In quell'albergo alla periferia della capitale tedesca durante l'Oktober Fest. Nel parco dei ciliegi che si affaccia sulla Città Eterna, Roma. Sul treno che ci stava portando nella città di Cezanne.
Eravamo a New York quando cominciò la terza guerra mondiale, quel maledetto ed echeggiante 11 settembre. Era la nostra vacanza, la nostra piccola fuga. Vedemmo Manhattan collassare come neve al sole sotto i colpi di un odio che mai potremo contemplare e controllare. Piangemmo abbracciati.
Rimanemmo bloccati nella Grande Mela straziata per una settimana, impolverati e sporchi, concedendoci un unico momento di passione, dovuto alla disperazione, alla voglia matta di cercarci e darci aiuto.
Quando tornammo nulla fu come prima.
Tutto sfugge.
Tutto vola.
Tutto si schianta.
Tutto crolla.
Avevamo assistito all'apocalisse rimanendone travolti. Ne fummo squartati.
Perchè? Perchè? Perchè?
I nostri baci, i nostri abbracci, il nostro sesso, i nostri sentimenti, i nostri regali, i nostri sacrifici, i nostri sogni, i nostri desideri. Tutto violentato.
Ma quel viaggio fece esplodere una bomba che era già stata innescata da noi stessi.
Vittime del nostro stesso crimine.
Il tempo divenne fragile e sfuggevole. Senza controllo. Senza contemplazione. La memoria cadde sotto i nostri pugni come un castello di sabbia in balia dei quattro venti. Onde su onde di distruzione.
Amore e odio.
Odio e amore.
Un viaggio dopo altri viaggi. Noi due e soltanto noi due.
L'incubo di un sogno.
Il sogno di un incubo.
Vero

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   11 commenti     di: Guido Ingenito


Il praticello dietro casa

Volle tagliare l’erba del suo praticello; così mise in moto la tagliaerba. Il praticello era dietro la casa. Vicino, c’erano la piscina con le sdraio e gli ombrelloni, un tavolino e qualche sedia.
“Ma è possibile che devi sempre tagliare l’erba di sabato?” urlò la moglie dal bordo della piscina.
“E quando vuoi che lo faccia?” gridò il marito.
“Il mercoledì per Dio. Ci sei solo tu a casa il mercoledì sera.”
“Pioveva mercoledì.”
“Ma se non piove da dieci giorni!”
“Beh, qui in giardino pioveva.”
“Cazzo, ma cos’è questo rumore!” urlò il figlio dalla finestra della casa.
“Un motore a scoppio ragazzo mio.”
“Ci farai diventare tutti matti!” gridò la figlia uscendo dalla veranda stropicciandosi gli occhi.
“Martin, smettila. L’erba può aspettare fino a mercoledì!”
“E se dovesse piovere di nuovo?”
“Maaartin!”
“Bastaaa!”
“Ma cristo!”
“Non ne posso più!”
“E spegni quel motore!”
“?”
“Ma siete tutti impazziti?” Martin aveva spento la tagliaerba.
“Quell’aggeggio ci fa saltare i nervi. È terribile!” disse la figlia e si adagiò su una sdraio.
Martin lasciò la tagliaerba sul praticello. Avanzò di qualche passo verso la veranda, si fermò, guardò la figlia ora sdraiata sulla sdraio e guardò la moglie mentre si asciugava le gambe, si girò, alzò gli occhi verso la finestra e chiamò:
“Sergio!”
“Che c’è ancora?” Sergio si affacciò di nuovo alla finestra.
“Vieni giù!”
“Un attimo... sì, arrivo.”
Martin guardò la tagliaerba in mezzo al praticello. Decise di lasciarla lì. Poi andò alla piscina e si sedette su una sdraio. Si coprì con le mani la faccia finché la moglie finì di asciugarsi le gambe.
“Si può sapere che cosa ti succede?” chiese la moglie.
“Ho qualcosa nel cuore. Devo parlarvi. A tutti. Aspettiamo Sergio,” disse Martin e si tolse le mani dalla faccia.
Afferrò un pacchetto di sigarette dal taschino della camic

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Cosa mai era stato?

I bimbi erano alti solo una cinquantina di centimetri, instabili sopra i loro bravi piedi, e con i loro vestiti pieni di colori. Erano in trentasei. Si tenevano per mano a due a due, e formavano un piccolo corteo rumoroso e bello.
Hans stava lì, con la bottiglia di vino dentro la tasca scucita del cappotto. Strizzò gli occhi e guardò quella singolare fila sgambettare sul marciapiede venirgli incontro.
Fece un molle passo indietro e si tenne contro il muro, e sotto il suo svanito faccione quelli sfilarono come tanti piccoli omini allegri.
“Buongiorno,” disse una bimba con voce tenera e schietta, così leggera e tranquilla.
Hans arrossì e chiuse gli occhi. Cosa era stato?



Il Finale

Nella mia mente si ricrea sempre la stessa scena:la fine di quella storia raccontatami sino alla nausea.
Ero andato a lavorare tre anni fa lontano da casa col sogno di ricominciare la mia vita tutta dall'inizio. Avevo deciso che la mia vecchia vita sarebbe morta per davvero:dopo aver comprato una scheda nuova per il mio cellulare decisi che avrei salvato nella mia rubrica solo i numeri di telefono delle persone incontrate da quel momento in poi e così fu.
Mi chiamo Paolo, lavoravo a Rapallo, un paese in provincia di Genova, nell'ufficio postale del paese.
Erano i primi di febbraio quando cominciò la mia nuova vita.
Il primo giorno di lavoro filò tutto liscio come l'olio, nell'accogliermi i miei colleghi furono gentilissimi, cercai di essere più cordiale possibile con tutti nonostante la mia timidezza, sapevo già come funzionava dato che non era la prima esperienza in un ufficio del genere.
La prima domanda che i miei colleghi usavano per approcciare con me era "Sei del sud?" oppure "Non sei di qui? Dal tuo accento sembri napoletano". Quasi mi fecero stancare di ripetere sempre la solita risposta: "Sono di San Vito Lo Capo, un piccolo paese in provincia di Trapani". I miei colleghi sembravano abbastanza istruiti, mi pareva che sapessero dove si trovasse Trapani perché nessuno faceva domande riguardo alla posizione geografica del mio paese.
Qualche giorno dopo andai in un centro Tim per comprare la nuova scheda di cui ho già parlato, la maggior parte dei commessi di tutti i negozi in centro erano sempre gentili e disponibili.
Passata la prima estate tra quelle splendide spiagge m'iscrissi in piscina all'inizio dei corsi perché avevo sempre desiderato farlo e adesso che ero solo con la mia nuova vita lo stavo facendo, mi sentivo libero di fare quello che volevo, di parlare come volevo, era cominciata per me una vera e propria nuova vita. Della mia vecchia vita era rimasto solo un piccolo elemento:era un Valknut cucito sul mio zaino.
Non ho ma

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   1 commenti     di: Ettore Smith


A seguito del suicidio di Ada F. ( quarta ed ultima parte)

Ada aveva scritto le tre lettere in momenti diversi, di giorni diversi. Non tutte le serate o le notti erano adatte a concentrarsi sul foglio e a pensare all'uomo cui scrivere. A volte i pensieri le rimanevano intrappolati nelle sensazioni vivide dei ricordi, e ne provava commozione; a volte erano i rumori... ... la sera avanzata e la notte portavano rumori e ciò la distraeva. Dal bar sottostante la sua casa, spesso salivano le voci dei clienti che sostavano ai tavolini. Oppure i suoi dirimpettai litigavano, vociando. In questi casi doveva attendere che avanzasse il silenzio. Quello interrotto appena dal ticchettio dell'orologio. Ada, allora, nella sua vestaglia allacciata, si sedeva al tavolo della cucina, raccoglieva i capelli in un fermaglio d'osso, e iniziava a vergare un foglio via l'altro, scriveva, rifletteva, buttava il foglio e ricominciava. Per queste lettere aveva acquistato appositamente una risma di bella carta spessa, adatta al pennino della sua penna stilografica.
Quanto al contenuto delle lettere, Ada non voleva essere patetica, con nessuno dei tre uomini. Voleva solo essere se stessa in quel saluto. Né le importava se costoro avrebbero sofferto, leggendo. Soffrissero pure. Per lei era stato inevitabile e poi non ci sarebbe stata a verificare i loro stati d'animo.
" Non devo pensare come se potessi esserci - si diceva - sono parole definitive, le mie...".
Le capitava di riporre le lettere in un cassetto, convinta di quanto aveva scritto. Ma una volta nel suo letto, al buio, ci ripensava... forse una frase, alla tal riga, era troppo accorata, troppo vendicativa? Allora si rialzava, accendeva la luce, rileggeva i fogli, verificava, correggeva. La stesura di queste lettere fu un vero tormento.

Luciano entrò nella piccola cucina del suo appartamento di uomo ritornato scapolo, ora vedovo, ad essere precisi. Egli buttò il mazzo di chiavi sul tavolo che vi cadde c

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Il dottor Manero

Studiare i bidoni dell'immondizia, entrare in ogni anfratto per capire le persone. Questo è il lavoro di Renzo Manero, psicologo del pattume.
Riesce a carpire ogni informazione utile sui suoi pazienti tramite un lavoro certosino, fatto di ricerca, logica e decodifica. Una volta aveva capito che un uomo soffriva di una forma latente di isteria. Tutto grazie ad un barattolo di fagioli aperto malamente.
Me l'aveva consigliato un mio amico, ipocondriaco da sempre. Grazie a lui era riuscito a venirne fuori. Di solito non credo a questi santoni, ma la curiosità - e una buona dose di stress - mi impongono di fare un tentativo.

Sono le 16. 30, come da accordi mi presento nel suo studio. Il pavimento è appiccicaticcio, quasi voglia trattenerti dal fuggire. Le pareti di tonalità accesa, per far urlare di pietà le pupille. Il resto è caos: libri, cartacce, lattine, piatti. Sembra la scena di un furto.
In mezzo alla stanza una specie di scrivania, quasi sommersa dal lerciume. Scorgo la sagoma di una donna, ha indosso una felpa di due taglie più grandi e mastica una gomma come Braccio di Ferro. Mi faccio largo tra il disordine e mi avvicino a lei.
- Salve.
Mi guarda con sospetto, alzando gli occhi per visionarmi. Spero di non avere qualcosa tra i denti.
- Prego.
- Sì, sono qui per vedere il dottor Manero, ho un appuntam...
Mi ferma con la mano.
- Ha il sacco.
Piccolo particolare, dato che è uno psicologo del pattume, sei obbligato a portarti dietro un sacco contenente la tua spazzatura della sera prima.
- Sì, eccolo.
Lo sollevo. Pesa. Spero non si sfasci mentre lo tengo in questa posizione.
- Benissimo, può entrare.
Mi indica una piccola porticina alla sua destra e torna a ruminare la sua gomma.

Lo studio vero è proprio è un cubicolo col tetto. Piccolo, quasi asfissiante. Anche perché il tanfo dei rifiuti è enfatizzato da un'unica finestra chiusa su cui batte il sole.
- Salve sono il dottor Manero.
Mi allunga la mano un tipetto che non supera

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