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Racconti brevi

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La Parola

Il ronzio degli studenti distratti cessò rapidamente ad un segnale ormai codificato; il professore riordinò i suoi due pesanti volumi l'un sull'altro lungo un lato della cattedra, e allo schiocco delle rigide copertine venute a contatto la lezione era ufficialmente cominciata.
A procedere come al solito, il professore aprì la cartella con il programma per il giorno e ne vagliò silenziosamente i relativi appunti, diligentemente assorto per almeno un paio di minuti.
A parte qualche colpo di tosse sommessa e un discreto fruscio di piedi nell'incrociar le caviglie, la classe intera taceva per rito e si confermava al normale svolgimento.
Il professor Bianco era un tipo taciturno, sì, e spesso non si capiva che aria tirasse, con il suo piglio austero e distaccatamente disgustato, ma operava come un orologio svizzero e i suoi metodi erano tanto prevedibili quanto i Giovedì sul calendario. A lasciargli spazio, senza disturbare le sue procedure monastine, si guadagnava in interrogazioni preparate di concerto e niente fuori programma inconvenienti.
Era la penultima settimana di corso e l'Estate già si sprimacciava melliflua, allungando dita di luce accecante tra le lame grigie delle persiane, ma la disciplina per quest'ora della mattina si manteneva straordinariamente autunnale.
Il professore corrugò la fronte, prese un lento e profondo respiro e continuò a scorrere lo sguardo tra righe apparentemente interminabili, poi come di norma si rivolse a Doviti con un distinto ed educato borbottio, senza levar gli occhi dalla cartella, ripetendo la formula "Tutti presenti, oggi?", alla quale lo studente in fondo all'aula rispose prontamente, da bravo caporale: "Sì, professore. Manca solo Shaki, che ha cambiato corso dalla settimana scorsa."
"... Dalla settimana scorsa," mormorò all'unisono il professore, confermando l'aggiornamento sull'appello. Non si sapeva come Doviti si fosse beccato il compito di far la conta dei presenti per Bianco, ma così fu deciso da qu

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Cose della vita

Entro nella stanza e un brivido mi percorre. Mi sento come investito da un improvviso soffio di vento freddo, ma è solo una mia sensazione. I parenti alzano gli occhi, mi guardano. Aspettano che li saluti, che gli dia il mio cenno di solidarietà. Aspettano di piangere per un nuovo spettatore. Condividere il dolore piace. Il dolore, anche quello sincero, vero, sentito, sofferto, ha necessità di essere comunicato. Non posso salutare tutti, dovrebbero alzarsi e poi io dovrei baciarli sulle guance. Tanti prima di me lo hanno già fatto: giovani, belle donne, uomini, vecchi. Mi fa un po' schifo sentire il loro odore.
Mi faccio il segno della croce, ma è solo un'abitudine. Osservo i fiori sul letto, manifestazioni di vanità che dovrebbero farci riflettere. Fratelli, figli, nipoti, amici, tutti a piangere il caro estinto, e scriverlo sui manifesti rende meglio l'idea. Di caro c'è solo il costo dei fiori.
L'estinto è nel letto, aspetta qualcuno che lo porti via. Da morti si diventa sempre più piccoli. In quel letto quasi scompare la fisicità. Forse si diventa solo anima, e quel corpo è come se si dissolvesse nell'aria.
Per ognuno di questi incontri riemergono emozioni. Quando è morto mio nonno l'ho osservato a lungo nel letto. La mia adolescenza non mi ha tenuto lontano dalla morte, ma non sono stato neanche capace di comprenderla. Mi hanno detto di salutarlo per l'ultima volta, un bacio sulla fronte. Lo ricordo ancora. Quando l'ho baciato mi è sembrato di sentire quell'odore stomachevole di carne marcia. Mi è sembrato. Cazzo se lo ricordo. Dopo qualche giorno sono andato a dormire in quella stanza, in quel letto. Non ho chiuso occhio. Aspettavo che apparisse mio nonno per portarmi con lui. Non l'ha fatto, mi ha sempre voluto bene.

La gente entra ed esce dalla stanza in un composto silenzio. Osservano. Anche in queste occasioni l'occhio condivide la bellezza. Non puoi scindere le emozioni della vita. A certi stimoli non puoi essere insensibile. Condiv

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   0 commenti     di: Pietro Damiano


Un racconto

La corriera procedeva con tranquillità sospetta lungo la strada statale. Nessuno che ci precedesse o che ci stesse seguendo. Il traffico era concentrato tutto nell'altra corsia, in direzione opposta. Strano, quella strada con il tempo era divenuta d'importanza secondaria, e non ricordavo di avervi mai contato tanti mezzi come quel giorno. Sembrava di vedere una riedizione delle domeniche al mare sulle strade degli anni sessanta. Sembrava a metà, però. Come già detto, nella nostra via c'eravamo solo noi.
Quello che più m'inquietava, però, era il comportamento delle poche persone che si potevano scorgere a terra, lungo la strada, davanti alle loro case, nei campi. Avevano tutte una gran fretta. Di andarsene. Tutte verso la medesima meta. Lontano da dove ci stavamo dirigendo noi. La mia preoccupazione poi stava raggiungendo livelli parossistici nella constatazione di un'ambiguità di fondo che all'inizio non avevo notato, ma che ora era in totale evidenza. Gli altri passeggeri, impegnati ognuno nelle diverse occupazioni d'uso durante un viaggio, chi a leggere, chi a guardare il paesaggio, chi a confabulare con il vicino, erano tutti, nessuno escluso, tranquilli. Sembrava che quello che stava succedendo fuori non fosse cosa per loro, come se non appartenessero a quella realtà. Forse era vero, forse ero io ad esagerare, forse non riuscivo ad interpretare bene le immagini che stavo vedendo. Forse è così che si presenta la follia.
La poltrona al mio fianco era vuota, così anche quelle della stessa fila sull'altro lato della corriera. In quelle davanti c'erano un uomo e una donna di giovane età, forse una coppia di fidanzati a giudicare da alcune frasi che ogni tanto giungevano alle mie orecchie. Probabilmente non si erano accorti di niente. Come tutti gli altri, chiosai. Decisi comunque di lasciarli stare, e visto che anche i posti dietro erano vuoti, mi alzai in piedi e con studiata lentezza esplorai l'interno della corriera come se stessi cercando un

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La verità

"Le restano sei, otto mesi di vita al massimo. Perdoni la franchezza ma credo che non si debba mentire mai, soprattutto in questi casi."
Il tono della voce non rivelava nessuna apparente emozione, nulla che comunque avesse a che fare con la propria coscienza.
Probabilmente era convinto che la sua condizione di medico lo ponesse al di sopra di certe convenienze, dei scontati sotterfugi usati dalla gente comune per evitare l'imbarazzo di dover comunicare certe notizie.
Probabilmente era altrettanto convinto di meritare la riconoscenza dei destinatari.
In effetti indossava l'aura di chi si sentiva intermediario tra coloro che debbono morire e l'entità superiore che governa i destini del mondo.
Come sempre era solito fare dopo aver emesso le sue sentenze, anche questa volta si stava allontanando in silenzio per consentire al condannato di turno di assimilare la notizia, e soprattutto per evitare d'essere coinvolto emotivamente.
Un messaggero di morte non può, e non deve, provare pietà.
" Perché lo fa?"
La domanda lo colse mentre stava per afferrare la maniglia della porta. Rimase bloccato in quella posizione, con la mano protesa in avanti, per alcuni istanti.
La stessa inesorabile questione che occupava per intero le sue notti, privandolo del ristoro del sonno. Non esistevano risposte per quella domanda, e nella solitudine della notte la disperazione era la sola compagna.
La piccola crepa che aveva iniziato a ledere l'integrità delle sue certezze si richiuse rapidamente.
"Crede che avrei dovuto dispensarle una verità di comodo con la quale drogare la sua coscienza, magari alimentare delle false speranze costringendola a sottoporsi ad inutili, costose e dolorose cure, privandola quindi del poco tempo rimasto che invece dovrebbe dedicare ai suoi affetti, ai suoi cari?"
"Lei sostiene di avere l'obbligo di rivelare la verità. Ma si è mai chiesto che cos'è la verità, se non un aspetto della questione, un modo di vedere, una convenzione? Lei sa ch

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Samurai

La cantina era uno stanzone pieno di vecchie cose ammucchiate qua e là, nell’aria sentori di muffa, umidità e un particolare odore dolciastro.
-Avrei voluto darti qualche mela… ma vedo che sono quasi tutte marce, vediamo di rimediare-
Ne scelse alcune, le dispose in fila su di un tavolino distanziate l’una dall’altra, poi staccò dal muro una lunga spada, si pose davanti alle mele, saggiò la distanza con la lama, emise un suono gutturale e menò un ampio fendente tagliando di netto la parte marcia della mela. Ripetè l’operazione con gli altri frutti, riappese la spada e consegnandomi le mele chirurgicamente risanate disse:
- Sono stato addetto militare in Giappone per dieci anni, ho imparato da un vecchio samurai a maneggiare queste spade e mi tengo in esercizio affettando zucche, mele e cocomeri… ogni tanto capita qualche ratto…allora sì che c’è soddisfazione….-
Mentre risalivo assieme a lui la ripida scala non riuscivo a ricordare se prima dell’operazione avesse pulito la lama della spada, proprio non lo ricordavo.

   4 commenti     di: Sergio Celetti


Se non trovi le parole

Spalancai il portone d'ingresso della piccola palazzina in cui abitavo. In contemporanea Laura aprì
la porta del suo appartamento che stava sullo stesso pianerottolo, così mi trovai faccia a faccia con lei. Stavo per sorriderle, augurandole il più dolce dei buongiorno, ma mi accorsi che aveva gli occhi lucidi e il viso spento di chi sta attraversando un momento di sofferenza.
Mi uscì solo un timido " ciao ", a cui rispose con un mesto sorriso. La porta della sua casa si richiuse velocemente. Rimasi scosso dal vedere Laura così mal messa. Arrivai alle scale e per abitudine salii fino al piano dove abitavo, anche se la mia mente continuava a pensare all'incontro con Laura. Vedere che stava male mi faceva soffrire.
Amavo Laura, da sempre, da quando i miei occhi la videro, da quando la sua voce mi ammaliò, da quando non riuscivo a immaginarmi un volto più bello e chiaro del suo.

Entrai in casa, salutai mia madre, poi le chiesi se anche lei avesse visto Laura quella mattina.
" Più che vista l'ho sentita "rispose e aggiunse " È tutta la mattina che litiga col fidanzato "
Ma certo Fausto, il solito maledetto Fausto. Un giorno si presentò a casa di Laura con una bottiglia di vino e un sorriso furbo e da quel giorno non uscì più dalla sua vita. A volte li vedevo rientrare mano nella mano, pieni di sorrisi e d'amore. La cosa mi faceva stare parecchio male. E poi lui così arrogante e sicuro di se. Quando ci parlai la prima volta mi accorsi subito di che razza di persona era, ero sicuro che avrebbe fatto soffrire Laura. La sua aria da playboy, il suo portamento cosi snob. Certo non potevo negarlo: era un bell'uomo, alto e brillante. "E allora", pensai, "solo perché sei bello vorresti portarmi via Laura? "
Eppure Laura lo amava e le piaceva farsi baciare e coccolare da lui. In fondo però io lo sapevo che la colpa non era di Fausto, la colpa era solo mia. Il mio odio per lui derivava dal fatto che lui aveva trovato il coraggio di farsi avanti con lei, di

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   0 commenti     di: luigi granito


Un pomeriggio banale

Gemma aveva 35 anni, due occhi neri come la pece, dei capelli castani lunghi e lisci che a maggior parte del tempo teneva sul volto in maniera che nessuno potesse scorgere quello sguardo così intenso, in maniera che nessuno potesse scorgere un solo segno del tempo e degli eventi che l'avevano portata a non lasciarsi trovare vulnerabile al cospetto delle creature pensanti che si incontrano quotidianamente.
Seduta sulla panchina del parco con la gamba a cavalcioni, fumava una sigaretta e guardava l'orologio come se aspettasse qualcuno, era angosciata proprio come lo è chi attende qualcuno che arrivi ma ha come l'impressione che non abbia capito bene il luogo dell'appuntamento... Finita la sigaretta da un'altra occhiata all'orologio. Alzandosi in piedi, si aggiusta la maglia, raccoglie la borsa e con aria indifferente va via, attraversando la strada, fermandosi davanti alla vetrina di un negozio di ciambelle. Pensò: ma come cazzo si fa a sbarcare il lunario vendendo ciambelle? Ma come si fa a puzzare di olio fritto per tutta una vita? Ma come si fa a fare una ciambella? Sono tutte così perfette sembra quasi che siano fatte a stampo, il buco al centro ha la stessa circonferenza divisa nei vari formati... non è da tutti fare delle ciambelle così, non è da tutti inventarsi delle ricette diverse nel sapore, gusto e colore. Forse è per questo che la tizia che le vende è felice. Perché sa che nessuno mai sarà capace di fare delle ciambelle come le sue, ce ne possono essere di migliori o di peggiori ma non uguali alle sue. Allora si mise a riflettere e capì, lei lo ha capito facendo ciambelle, io invece cerco ancora la strada. Forse dovrei specializzarmi nel fare caciotte di formaggio oppure nel coltivare fave di cacao. Ma non faceva per lei. Voltò le spalle ed andò via perplessa, passo dopo passo le venivano in mente i tanti perché l'avevano portata a soffermarsi davanti a quella vetrina ed a fare una riflessione così spicciola, spontanea e banale, tremendam

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   8 commenti     di: Teresa Tripodi



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Questa sezione contiene una serie di racconti brevi, di lunghezza limitata all'incirca ad una videata