Da quanto stiamo camminando? Non ricordo nemmeno il momento in cui ho aperto gli occhi e qualcosa mi stritola il cuore, un filo d'acciaio, un cavo elettrico.
Ogni tanto il buio si infila tra i nostri passi, quasi inciampiamo, e i lampioni si accendono quando ne hanno voglia.
Ci guardiamo poco e non parliamo, ciò che conta è camminare insieme, è farmi accompagnare in questa passeggiata che lentamente capisco dove mi porterà.
Siamo qui.
La metropolitana che si butta sottoterra, il piccolo parco con le panchine scarabocchiate, l'istituto, il semaforo col pulsante.
Nessuno.
Noi e l'aria che sa di salsedine che ti appiccica gli occhi.
E io non posso dirti che è stata dura, ma certamente non è stato facile, non è facile, non sarà mai facile. Sai, ognuno di noi è un piccolo cosmo, colmo di pianeti e stelle e nebulose e polvere che gravitano e ruotano dentro e intorno a noi. Siamo l'unico universo dove la fisica non esiste, ogni cosa si muove su regole proprie. Possiamo solo non tormentarci e accarezzare la nostra anima lattea, con le sue comete e le sue stelle cadenti. E tutto va avanti.
Fino a quando diventiamo più leggeri. Ci sentiamo sporchi, macchiati, infangati. Dentro si apre una piccola pozzanghera.
L'asfalto ti ha rubato un pianeta. La strada, coi suoi guardrail, il suo grigiore, ti ha portato via un amico.
E non hai più il difensore che ti può far male con un contrasto, non hai più il passaggio sicuro, non hai più la festa al parco, non hai più il suo sorriso, il suo pizzetto, non hai più la chiacchierata su donne e lavoro. Non hai più il suo abbraccio.
E pensi alle volte che lo hai preso in giro, alle volte che hai dubitato di lui, a quando lo avresti preso a sberle. Ma ti fermi. Sai che litigare fa parte del gioco, che non ha senso sentirsi in colpa.
Guardavo i telegiornali, leggevo i quotidiani, e solo tu sai quanto sentissi lontano da me gli incidenti in macchina, quei servizi e quegli articoli pieni di lamiere e sangue.
Passi. Cammino nella notte, solo il rumore dei miei passi ad accompagnare i pensieri. Fa freddo, sento il vuoto dentro. Sembra impossibile, fino a ieri c'eri tu e il fuoco sulla pelle ad ogni tua carezza e i tuoi baci... una lava bollente che risvegliava i miei sensi.
Tac tac, tac tac, cammino. Vado avanti, non sò dove. Continuo a camminare perchè non riesco a star ferma. Dormire non potrei, sento ancora le tue parole, taglienti come lame, più fredde e affilate di un pugnale. Eppure le hai dette come niente, dal tono avresti potuto tranquillamente dire una frase qualunque, come: " Scendo a comprare le sigarette" o "Vado al bar sull'angolo"
Le tue valigie davanti alla porta, il soprabito sul braccio e il tuo sorriso appena malinconico. Due parole, solo due, per chiudere una storia che è tutta la mia vita, buttate li, come l'osso a un cane che ti adora, che respira solo quando gli getti uno sguardo: " È finita"
Avrei voluto fingere indifferenza, salutarti con un sorriso, alzare una spalla e voltarmi dicendoti : "Chiudi la porta e lascia le chiavi in portineria!"
Invece ho sentito le mie labbra aprirsi e con un filo di voce dirti: "Non te ne andare... ti prego..."
Lacrime, come perle di dolore sono scese dai miei occhi e sono corsa da te, ti ho abbracciato, ti ho stretto forte, nella stupida illusione che il fuoco che sentivo ancora crescere in me ti incendiasse, come un tempo, ricordi? Dicevi che bastava un mio sguardo per risvegliare i tuoi sensi, come un vulcano addormentato che tornava a fare fiamme e lava nelle tue vene.
Ti prego, non andare via, stringimi ancora, dimenticherò ogni malinteso, tutte le cose passate che uccidono la nostra felicità svaniranno con te accanto. Mi aggrappo al tuo corpo che rimane freddo. Non una carezza, nè parole per me che piango e soffoco nella tua gelida indifferenza.
Continuo a ripetere come un mantra: "Non te ne andare... non te ne andare.." Eppure le parole mi affollano la mente, parole pazze che tu sai, parole che t
“Hai capito zia Caterina? Guarda dallo spioncino e se non conosci, non aprire. ”
“Proprio così signora, dobbiamo difenderci da questi delinquenti. Non dimentichi che con l’apertura delle frontiere è arrivata da noi solo la feccia. ”
“Sì zia, ci hanno mandato solo i delinquenti più ripugnanti. Rapinatori, violentatori…”
“Credo sia nel loro DNA. I romeni sono per natura violentatori e criminali. ”
La vecchia osservò i due giovanotti.
“Vi faccio un caffè? ”
“No, grazie signora. Allora, ha capito? ”
Caterina sorrise.
“Certo che ho capito. Non lo volete proprio un caffettino? ”
“Grazie zia, ma dobbiamo andare a fare il nostro dovere. Tanti sono gli anziani nel condominio. ”
Usciti che furono Caterina riprese in mano il libro che stava leggendo, ma dovette rialzarsi quasi subito perché bussarono alla porta.
“Chi è? ”
“Sono l’idraulico signora. ”
Caterina aprì facendolo accomodare.
Venga, il rubinetto che perde è di là. Lei è nuovo, come si chiama? ”
“Mio nome è Costel Gavriliu e vengo di Romania. ”
La donna lo osservò sorridendo.
“Bene Costel, le faccio un caffè? ”
Sono strade livide, cammini tormentati...
La vita di ognuno li percorre, ruffiana al desiderio di felicità.
Un passo, seguito da un altro, e poi un altro ancora, all'infinito, con la testa bassa
per il timore di capire quanto lontano sia lo scopo...
per la paura di sapere che potrebbe essere impossibile raggiungerlo.
Mi fermai...
Guardando la mandria che mi scorreva accanto, mi chiesi:
"Ma dove sto andando? Cosa stanno cercando tutti?"...
Una vecchia signora si fermò con me e mi accarezzò i capelli,
poi passò la sua mano sotto il mio mento e mi guardò negli occhi.
Non disse niente.
Aveva il viso scavato da profonde rughe, i capelli ormai completamente bianchi e al collo un ciondolo... un mezzo cuore.
Mi venne naturale porgerle il braccio per darle un appoggio.
Lei, afferrandolo, mi sorrise gentilmente e disse:
"Figliolo, dov'è mio marito?
È parito tanti anni fa... e da allora non l'ho più rivisto.
Guarda... guarda... questa è l'ultima lettera che mi ha scritto,
ma io non so leggere... e non ho più una figlia che possa farlo per me...
è scappata di casa con un uomo che non aveva più voglia di prendersi cura di questo mio corpo malato...
Saresti così cortese da..."...
Senza farle finire la frase, presi la lettera e la aprii...
La prima riga... poi la seconda... e la terza. Ma pronunciandole solo nella mia mente.
Guardai nuovamente quella vecchia signora...
era talmente ricurva su se stessa che sembrava stesse portando sulle spalle tutto il peso dell'indifferenza di questi nostri giorni.
Aveva l'espressione di una bambina che rimane a bocca aperta appoggiata al lavandino, osservando il suo papà mentre si rade,
impaziente che finisca per potergli baciare le liscie guance profumate di mentolo.
Aspettava in questo modo, la vecchia signora, che dalle mie labbra uscissero le parole di suo marito.
Una lacrima allora segnò il mio viso. Ma l'asciugai subito, prima che lei potesse accorgersene.
La lettera era una missiva del Ministero
Chi di noi non ha comprato, almeno una volta, un pesce rosso alla festa del paese? Chi non si è lasciato adescare da quell'iridescenza in stupido moto circolare nella sua boccia, da quel vocalizzo muto, precluso ai nostri orecchi, da quel blob! apatico e indifferente che s'avvicina al vetro come per spiarci e immediatamente se ne allontana come da cosa assolutamente insignificante?
Il pesce rosso, con le sue squamette iridescenti, il suo mutismo assoluto e la sua apparente stupidità, è l'unico animale che riesce a ficcarsi anche nella casa di chi non ama le bestie.
Magari anche solo finché madre natura non ne avrà abbastanza di acqua stagnante, molliche di pane e incauti sbatacchiamenti. Ce n'è che son finiti nel tubo di scarico tra gli urli disgustati di chi doveva solo cambiargli l'acqua, o a dimenarsi per terra sotto gli occhi attoniti di chi proprio non sa che pesci pigliare; ma i più finiscono per essere trovati placidamente a galla come chi fa il morto sull'acqua.
So di uno che ha creduto che dormisse e l'ha tenuto due giorni così, prima di darlo da mangiare al gatto.
Eppure il pesciolino rosso, nel suo sacchetto di plastica col quale lo portiamo a casa, nella sua palla di vetro magari abbellita del dono di un fiore di plastica o di un sassolino, è un essere vivente, né più né meno del cane, del gatto, del virus del catarro e anche di colui che lo ha comprato.
Quando è molto piccolo, il pesce rosso è trasparente, così che pare che in acqua siano cascate le lucciole. Ma questo è uno spettacolo riservato ai moderni cultori d'acquatiche creaturine, per i quali un acquario, con la sua ovattata trasparente bellezza è un pezzo d'arredamento da non sottovalutare, se si vuol conciliarsi gli amici animalisti, i figli che vorrebbero un cucciolo, e continuare tranquillamente a non amar troppo le bestie.
In questi acquari, che sembrano veri e propri oceani in miniatura, fluttuano creature evanescenti, curiose, coloratissime, alcune dalle strane form
Fu una mattina di metà maggio, quando l'aria cominciava a riscaldarsi e lo scioglimento delle nevi creava dei piccoli ruscelli sui fianchi delle montagne. A Self pride erano spariti quasi tutti. Il paesino era molto piccolo e se ne stava ai margini della foresta. Al termine dell'inverno l'unica cosa che distingueva quel paesino da una città fantasma era il suono continuo e tagliente della segheria. La notte potevi sentire il canto di qualche operaio ubriaco ma quel suono sprofondava nel silenzio che la foresta lasciava cadere sul paese.
Fu in quella mattina, sotto l'incessante suono che la segheria spargeva nell'aria. Fu quella mattina e lo ripeterò perché un fatto come questo va ricordato. Fu quella mattina che qualcuno busso alla mia porta. Un vecchio come me, che aveva visto l'intero secolo davanti ai suoi stanchi occhi verdi. Chi mai avrebbe potuto cercarmi?
Impiegai diversi minuti a sollevarmi dalla mia sedia e ad avviarmi verso la porta. La persona dall'altro lato sembrava avere molta fretta e bussava sempre più forte chiamandomi a gran voce.
Dopo aver aperto la porta, la voce della signorina Sarah mi colpì violentemente. Quella dannatissima voce, così squillante e preoccupata per qualcosa che non era in grado di spiegare.
<La prego signor Gard, mi segua, la prego.> Non compresi subito la gravità del caso, i suoi occhiali spessi nascondevano magnificamente le lacrime e un vecchio come me di certo non faceva caso ai suoi capelli neri, sporchi e in disordine.
<Sarah si calmi, cosa sta succedendo?> La ragazza mi guardò disperata, una lacrima sfuggì allo schermo dei suoi occhiali e fui in grado di vedere la sua disperazione.
<Signor Gard, mio padre, da due giorni rifiuta di muoversi.> La guardai stupito.
<Rifiuta di muoversi?>
<Sì, io non dormo da giorni perché la notte urla terrorizzato e il giorno resta immobile nel suo letto. Dice in continuazione di non potersi muovere ma in verità lo fa.> La guardai, le sue parole erano rotte dalle lacr
"Facciamo piano, non fare rumore"
Una vecchia soffitta, piena di roba accatastata qua e là, respirava da una piccola finestra che era rimasta semi aperta da tanto tempo. Affacciandosi si scorgeva un cortile piuttosto trascurato con un po' d'erba e due alberelli. La soffitta faceva parte di un grande appartamento: lassù andava a finire tutto quello che non veniva utilizzato in casa. Vecchi mobili, giocattoli di bambini ormai cresciuti, vestiti protetti da sacchi di plastica, una culla di legno e ogni oggetto che sembrava di troppo ma da cui allo stesso tempo era difficile separarsi. Vi si accedeva salendo una lunga scala stretta, dai gradini alti. Una porta all'inizio della rampa rendeva l'accesso più misterioso." Bambini non andate in soffitta: potreste farvi male; c'è polvere e forse anche qualche topolino". Una frase che sortiva l'effetto contrario! Come due banditi, entravamo in azione approfittando del pisolino pomeridiano.
Una volta aperta la porta dopo aver fatto scorrere il chiavistello, facendo attenzione a non farsi sentire, ci si trovava davanti ai primi gradini che erano sempre parzialmente occupati da oggetti che rendevano difficoltosa la salita. Un sacco pieno di chissà cosa e un'enorme pompa meccanica per liberare gli scarichi otturati. Uno spruzzatore di DDT con un sistema a stantuffo era posizionato in modo da non poter essere raggiunto da mani inesperte. La luce della scala si accendeva girando un interruttore in ceramica posizionato piuttosto in alto per le braccia di un bambino. Appese ai muri trecce d'aglio e cipolle nelle retine contribuivano a ridurre lo spazio. Tutto questo, inutile dirlo, rendeva l'impresa più interessante e la conquista della soffitta uno dei passatempi più allettanti. Ogni gradino superato, allontanava dal mondo reale, dalla sicurezza, proiettando verso sensazioni legate al passato. La scala non era ancora finita ma, già voltandosi indietro e guardando in basso, la porta sembrava lontana.
"Non avere paura,
Questa sezione contiene una serie di racconti brevi, di lunghezza limitata all'incirca ad una videata