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Racconti brevi

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Menage a Trois

Brandon non era un ragazzo bello: era ricco.
Frequentava una prestigiosa scuola universitaria in una famosa metropoli.
Non era attraente, ma in ogni caso riusciva a adescare molte ragazze attirate da una sicura posizione di prestigio all'interno della società.
Il potere o la prospettiva di esso è una caratteristica che spesso si sostituisce alla bellezza, al fascino o alla simpatia quando si parla di seduzione.
Brandon era consapevole di tutto questo. Oltre alla ricchezza aveva anche la dote dell'intelligenza. Aveva sviluppato una naturale predisposizione: riconosceva le sue prede al primo sguardo. Lui parcheggiava la sua spyder davanti alla facoltà, una Lotus Elise arancione dalla carrozzeria in vetroresina e telaio d'alluminio, e alcune ragazze abboccavano all'amo. Lanciavano sguardi eccitati verso quella macchina e lui coglieva quelle occhiate fugaci, ma significative, con precisione assoluta. Non era poi difficile per lui avvicinarle e invitarle fuori di conseguenza. Quelle uscite inevitabilmente si trasformavano in notti di sesso che si consumavano in un appartamento situato al ventesimo piano di un palazzo che si trovava in centro. Ovviamente non era l'appartamento dove abitava: era solo il luogo in cui dare sfogo ai suoi vizi e alle sue ossessioni.
In effetti, Brandon non provava niente. Una volta ottenuto quello che desiderava perdeva ogni interesse. Quelle ragazze per lui erano solo dei preservativi: si usavano una volta e poi si buttavano via.
Lui era ossessionato dalla possessione. La parola "no" non faceva parte delle espressioni a cui lui dava significato. L'abitudine ad avere qualsiasi cosa, la facilità con cui otteneva tutto quello che gli interessava gli aveva impedito di sviluppare la comprensione per il rifiuto.
In un giorno di visita ai genitori aveva stuprato la ragazza che faceva da cameriera nella casa. Era una polacca di venti anni. Lei aveva rifiutato le sue avance, ma lui aveva considerato quella negazione solo come un pre

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Fate la carità

Fate la carità


È una tiepida mattina primaverile di un anno imprecisato, in un passato non troppo remoto; in un modesto paese di campagna come tanti altri, un frate rubicondo e giulivo cammina sulla traccia battuta di un sentiero erboso, respirando a pieni polmoni la fragranza di fiori appena sbocciati che aleggia ovunque nell’aria.
Di tanto in tanto scuote allegramente il canestro che porta infilato al braccio sinistro, il manico trattenuto dall’attrito con la ruvida tela del saio, solo per il gusto di sentire il rumore tintinnante delle monete. “Ah, giorno stupendo” mormora cantilenante ”veramente stupendo!” È reduce dalla raccolta alle case del villaggio e ad esser sinceri non trova motivo di lamentarsi, per quanto la gente non sia più incline come un tempo a certe forme di generosità. Egli ben rammenta come uscissero dalle case a precipizio, nel vedere un frate che veniva alla cerca.
Quello stesso gesto, a lungo indice della devota sottomissione e del sacro timore divino dei semplici, viene ormai assolto in maniera sbrigativa e con una sorta di malcelata sufficienza, mista ad una punta di fastidio. Rimuginando questi ed altri pensieri, attraversa orti e campi pieni di poveri contadini bruciati dal sole, chini sulle magre coltivazioni o intenti a pascolare greggi malaticci e stanchi.
In tanta desolazione e povertà, è un piacere veder passare quel gaio fraticello che lancia intorno caritatevoli occhiate di esagerata commiserazione, stringendosi al petto il cesto della raccolta, sospettoso. Quei poveracci abbandonano un attimo le proprie occupazioni per rispondere con un vago cenno del capo al suo religioso saluto e maledirlo in cuor loro.
Arrivato al punto in cui il sentiero disegna un’ampia curva per poi proseguire in decisa salita, il frate si ferma per riprendere fiato. Sfila dalla manica un fazzoletto raggrinzito, sulla cui pulizia è lecito esprimere qualche perplessità, e lo passa energicamente su collo, barba e chieric

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   9 commenti     di: luisa lorenzoni


io e Stella

Non sò come definire questa storia che mi accingo a raccontarvi, una barzelletta, un racconto di animali o una storia di vita quotidiana.
Bah iniziamo.
In una domenica di novembre di alcuni anni fa, domenica fredda e uggiosa, dopo che erano finite le partite di calcio sono uscito con la mia Stella.. a proposito stella è il mio Border Collie, una cagnolina molto dolce, l'unica cosa che non sopporta sono le moto, a quel tempo aveva un paio di anni. ed era molto irrequieta.
Comunque passeggiando passeggiando si erano fatte le 8 di sera, capitammo davanti ad una pizzeria a taglio e dal di fuori vidi che era vuota c'era solo una ragazza che al banco proprio in quel momento sfornava una teglia di pizza con la mozzarella bella calda e fumante da appannare il vetro del bancone.
Wohoo stasera non cucino, lego la mia stella ad un palo della luce ed entro, mi faccio tagliare un bel pezzo che la banchista mette in quelle scatole di cartone quadrate che hanno ed esco, riprendo la mia cagnolina che mi comincia a saltare intorno perchè sente l'odore della pizza mà ci avviamo verso casa.
Arrivato la prima cosa che faccio accendo il televisore e apro la scatola per accertarmi che non si sia appiccicata la mozzarella al cartone come spesso succede, mi avvio in camera da letto per cambiarmi, mettermi in libertà e nel frattempo sento un movimento di sedia in camera da pranzo un movimento a cui non dò un peso eccessivo, passo in cucina mi prendo un piatto, coltello e forchetta, apro il frigorifero e mi prendo una birra e ritorno in camera da pranzo dove mi fermo proprio sulla soglia e vedo la mia Stella che salita sul tavolo si sta mangiando la mia pizza, con l'ultimo pezzo in bocca dato che mi a visto salta giù dal tavolo e si và a nascondere dietro il divano con gli occhi colpevoli e con l'ultimo pezzo di pizza che continua a masticare.
non proferisco neanche una parola con il mio piatto bicchiere da una parte e birra coltello e forchetta nell'altra mano chiu

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Rifiuti Cimiteriali

Dicono che quando stai per morire, tutta la tua vita ti scorre davanti. Miliardi di istantanee si stampano su i tuoi occhi, un riassunto iper-veloce della tua esistenza.
Credo che morirò nel giro di qualche minuto e vi assicuro che non c'è nessun cazzo di riepilogo dei miei giorni. L'unica cosa che vedo è questa porta bianca con la vernice che si scrosta. La maniglia è un po' arrugginita. Un enorme cazzo stilizzato disegnato con un pennarello nero. Sembra un'enorme pagina incompleta di un fumetto. La didascalia nell'angolo dice: Ingoio tutto e lo prendo in culo. Un numero di telefono, un nome: Marytrans.
Se mi avessero rovesciato un secchio pieno di vernice addosso probabilmente sarei ridotto nelle stesse condizioni. Sfortunatamente, per me, non è questo il motivo per cui sono imbrattato di una sostanza rossa e appiccicosa.
Ho ricevuto due coltellate al centro della schiena e una più sotto dove c'è il rene destro. Altre due sul davanti all'altezza dello stomaco. Il sangue sta uscendo copiosamente dal mio corpo. Se ci fosse una telecamera sopra il soffitto, una ripresa dall'alto di questo cesso e questa fosse la scena di un film, sicuramente sarebbe uno dei quei momenti che solitamente si definiscono macabri. Forse quando stai per morire, ti si amplificano i sensi. Lo penso perché non ho mai sentito l'odore di urina così forte. Mi penetra nelle narici e scava fino al mio cervello. Odore del mio piscio, quello che mi sono fatto nei pantaloni, mischiato a quello di altri uomini entrati prima di me. Anche il tatto sembra amplificato. Questo pavimento, pieno del mio sangue, che tocco con le dita della mia mano, sembra entrarmi dentro, come se stessimo per diventare una sola cosa. Sarebbe stato più divertente morire con le dita immerse in una figa bagnata, immagino sarebbe stata molto più gratificante questa sensazione di unione definitiva, ma questo lusso non mi è stato concesso, mi tocca morire su questo lurido pavimento, d'altronde cosa mi aspettavo?
Me

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La solitudine del silenzio

E poi sto lì, a cercare risposte che non arrivano, guardo le nuvole e vedo il sole che annega nei suoi pensieri.
Ho ucciso un bambino, mi guardava con gli occhi pieni di lacrime e chiedeva perdono per ciò che non aveva commesso.
Con linee sottili dipingeva i suoi sogni in bilico sul filo della morte, con lacrime d'ambra gridava il suo sorriso perduto, imprigionato dai suoi stessi desideri.
Ho tagliato le sue piccole dita con enorme lentezza, provocando un dolore che cresceva enormemente.
Bruciava in silenzio.
Un silenzio troppo grande per essere colmato da qualsiasi cosa.
E nel frattempo nelle orecchie una strana melodia vibrava con orrido piacere, e io non riuscivo a fermarla.

" Ma non c'erano parole a farmi compagnia,
Solo segni indecifrabili di un'inutile follia,
Era rimasto ben il vista il catetere del mondo
Ultimo paragrafo della sua finta apologia.

Ho chiuso in un cassetto unghia marce di paura
Proprio ora che la morte mi sembrava un'avventura
Pulendo gli sparvieri dal loro squallido fetore
Bruciavano di rabbia chiedendomi la cura"

E tutto iniziò a vorticare dentro e fuori me. Le tende si trasformavano in liquido nero, inondando la camera che si rovinava con estrema lentezza.
L'umidità gonfiava le pareti bruciando gli attimi di vuoto che riempivano la malinconia del mondo.
Volevo solo piangere, ma ormai era troppo tardi.
Non avevo più dolore dentro me, ormai neanche la mia stessa morte mi avrebbe potuto portare alla pace.

E sono vent'anni ormai che mi ritrovo sulle spalle le colpe altrui, in continuo paragone con il passato che si ripresenta alla porta spalancandola senza chiedere il permesso.
I miei sensi di colpa non ci sono più, non sono neanche sicura di aver ucciso quel bimbo quella notte di novembre. Me lo hanno fatto credere, sono sicura che non è stata colpa mia...

Chiudo gli occhi. Sono passati i bei tempi... ormai neanche il silenzio mi fa più compagnia...

   3 commenti     di: Ethel Vicard


Giorno dopo giorno

Ore 7:30. Il nonno è già sveglio da ore, probabilmente colpa del tempo balordo, ed è in procinto di scendere dal letto per iniziare una nuova entusiasmante giornata.
Dopo il cambio del pigiama e la scappatina al bagno, è pronto per scendere al piano terra, pian pianino, scalino dopo scalino, per non svegliare l'adorata moglie e la cara nipote.
La gatta lo sente, ma non da segno di volerlo raggiungere e si riacciambella sul letto della nipote, Helen, per continuare il pisolino.
Il nonno Frank, come prima cosa, sbircia fuori dalla porta per vedere che tempo fa, poi accende il fuoco della stufa e apre i due balconi della cucina. A questo punto tutto è già pronto per scaldarsi la tazza di caffelatte mangiando del pane vecchio o dei grissini, ottimi con la marmellata ai marroni.
Ore 8:00 circa. La nonna è pronta per la toilette del mattino e per scendere a far colazione, seguita dalla gatta.
La cucina è già calda e la tavola bandita per il pasto. Mentre l'acqua del tè della nonna è sul fuoco, anche Helen scende dal letto, sentendo già il peso di questa orrida giornata. Infatti, come tutte le volte, sente i due coniugi parlare dal pian terreno con voce a dir poco bassa. Helen apre la finestra, fa un piccolo pensierino se gettarsi di sotto o meno, scuote la testa e raccatta degli abiti da mettersi: immancabilmente neri.
Durante la discesa delle scale vive un momento fondamentale per i prossimi due minuti: il recupero delle energie per dare il buongiorno ai nonni. Dopo le imprecazioni degli ultimi gradini, arriva sulla soglia della cucina e:
"Ciao" dice con voce già disperata.
I due nonni ricambiano il saluto e la giovane donna va al bagno, freddo e umido e porcheggiando accende la stufetta elettrica per riscaldare l'ambiente mentre fa pipì.
Una rapida doccia calda le dà la forza di riaffrontare i due anziani.
Ore 8:30: l'arrivo in cucina di Helen.
Subito cerca con lo sguardo la gatta e prontamente va a darle un bacino di buongiorno sulla testolin

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   3 commenti     di: ele jack


Il professore

Una leggera fitta pioggia si lasciava cadere su strade e case e il giardino sembrava più verde e più vivo; il gatto andò a ripararsi sotto il grande abete centrale, ma non si sdraiò come era solito fare.
Lucrezia si era appena svegliata e, ravviandosi i capelli, guardava attraverso l'ampia vetrata il paesaggio terso sotto l'acqua.
E giacché il rumore della pioggia, quando era così delicato e sottile, la metteva di buonumore, o meglio più in armonia con se stessa, sentì che quella era una buona giornata.
Bevve lentamente il suo caffè, lanciando uno sguardo distratto sugli oggetti sempre uguali della stanza. Tra un poco avrebbe iniziato a provare per il prossimo concerto. Il violoncello, in un angolo, sembrava attendere soltanto di essere preso, come sempre, dalle mani lunghe e bianche della sua musa silenziosa.
Lucrezia amava infatti più ascoltare che parlare e tutto quanto le sembrava armonico era da lei ascoltato di più.
Apprezzava perciò non la sola musicalità che poteva prodursi con una strumentazione, nel caso del suo violoncello dall'incontro delle corde toccate dall'archetto, ma soprattutto quella certa musicalità che sa sprigionarsi, improvvisa, da taluni elementi naturali ben intonati tra loro e sollecitati da nessun evento esterno.
Questa vera, reale musicalità ella sapeva cogliere nella voce umana come in quella della forza dell'acqua di un fiume o del mare in certe ore, oppure, come in quella mattina, nella pioggia di primavera.
Talvolta riusciva a penetrare nella musicalità muta di un atteggiamento o di uno sguardo o di un'intesa o in quella corale di un insieme ben strutturato.
Non ci aveva mai pensato, ma forse faceva musica anche per cercare di riprodurre le sensazioni che a volte non riusciva a catturare negli eventi naturali o nell'animo stesso.
Necessità, voglia di armonie.
Aveva preparato lo spartito e faceva i primi accordi, quando alcuni squilli penetrarono nella stanza ancora non ben insonorizzata.
La telefonata ar

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Questa sezione contiene una serie di racconti brevi, di lunghezza limitata all'incirca ad una videata