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Racconti brevi

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Un sottile, labile confine

Seduto su una panchina del parco, sembrava uno dei tanti desiderosi di un po' di frescura, all'ombra degli alberi. Ogni tanto, però, si alzava e battendo i piedi a terra percorreva strane traiettorie, come se seguisse una traccia sul terreno. La storia si ripeteva ormai da più di un'ora e non mancò di attirare l'attenzione di altre persone, che comunque liquidarono la questione frettolosamente con l'idea che il tizio fosse strano ma inoffensivo.
Sembra opinione comune che la pericolosità intrinseca di una persona si manifesti con gesti di eclatante efferatezza oltreché di subitanea comprensione, rifiutando a priori il concetto di labilità del confine esistente tra sanità e malattia di mente nello stesso individuo.
L'uomo che calpestava con forza la terra poteva pertanto proseguire indisturbato nella sua azione.
Nessuno si preoccupò quando dei bambini si raggrupparono intorno per meglio osservare ciò che stava facendo quell'uomo.
Tutti si allarmarono invece, accorrendo come degli invasati, quando dal gruppo dei ragazzini si levò un pianto. Mani febbrili strinsero quei piccoli corpi, altre si levarono per additare il mostro, altre infine raccolsero pietre da terra per lanciarle. Ma quell'uomo non faceva altro che ripetere lo stesso gesto di sempre, nulla se non battere con forza i piedi a terra, sollevando nuvole di polvere. L'eccitazione si era impadronita dell'animo di quelle persone, e solo il manifestarsi di un'uniforme in lontananza riuscì a calmare gli esaltati.
L'agente di polizia dopo aver verificato la sostanziale inesistenza di alcun tipo di reato disperse la piccola folla che intanto si era ingrossata alimentata dai curiosi. Rimasti soli il poliziotto fece segno all'uomo di sedersi, guardando bene ogni suo gesto, anche il più insignificante. Dopo un paio di minuti di reciproca osservazione, l'agente porse una domanda.
"Si sta bene qui. Viene spesso?"
"No."
"Infatti ho visto che abita lontano. Che lavoro fa?"
"Nessuno. Disoccupat

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Cervello in bikini

Sospeso.
Un racconto potrebbe trasformarsi in una manciata di minuti, o nel migliore dei casi, di ore in cui si decide di entrare in un mondo a parte, con la sua natura, le sue storie e i suoi meccanismi. Lo scrittore però si ritrova in un continuo dejavù e pensa "Ma qui ci sono già stato!". Questo perché, per quanto ci sforziamo di inventare una storia, tendiamo sempre a raccontare di noi. Anche se noi siamo atei ed il personaggio è cattolico, ci sarà sempre qualche blasfemia pronta dietro l'angolo a rovinare il tutto e depistare il lettore. Perché siamo così, un po' egocentrici, un po' altruisti.
E lo ammetto, il mio sangue è pieno d'alcol, perché è il cibo preferito della mia creatività. Non è un tentativo da poeta maledetto, ma una fottuta necessità. Come schiacciata da un macigno, la mia mente resta lì immobile, finita, limitata. Ma una buona birra, o del vino, o dei buoni cicchetti di Jägermeister rendono la creatività una donna libera.

Forse questa introduzione è solo una giustificazione: "Bevo per una giusta causa: l'arte". Ma no! È solo un modo per dirvi che sono ubriaco, e domani mattina risistemerò la sintassi assurda e la semantica pazza di certe frasi che scriverò.

Ed è così che lo scrittore è ispirato e la storia comincia(ma non prima di fare pipì):

È ora di danzare

Sono seduto all'aria aperta nel balcone di casa Magellano. In realtà non conosco alcun Magellano, ma quel cognome esce dalla bocca di tutti. Lo accetto. Sigaretta tra l'indice ed il medio della mano destra, birra nell'altra mano. Il panorama è terribile: ci sono case popolari di color grigio con spruzzi di colore qua e là, proprio dove il bucato è lasciato ad asciugare sulle terrazze. Da qualche finestra si vede gente seduta a mangiare, altri con il telefono in mano, altri ancora indaffarati nelle pulizie. Nulla di interessante, se non le forme che assume il fumo biancastro mentre fugge dalla mia bocca. Una mano si appoggia sulla spalla:

"Ch

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Il più piccolo ladro del mondo

Questa è la storia del più piccolo ladro del mondo e la più favolosa rapina del millennio.

Paolo aveva spento la luce; anche quella giornata era stata una giornata buttata via e non rimaneva altro che cercare di prendere sonno, altro da fare non c'era. Poco dopo si svegliò, sorpreso di aver dormito. Guardò l'orologio; erano le due... uscì dal letto, e decise che quella notte sarebbe stata la sua notte fortunata; era un po' di tempo che ci pensava.
Dieci minuti più tardi Paolo si trovava sulla strada e camminava veloce.
Arrivato davanti la banca si fermò e alzò il colletto del cappotto per proteggersi dal vento freddo:
"Io adesso svaligio questa banca," pronunciò queste parole come se fossero una sorta di formula magica.
"E io sto qui a guardare se arriva qualcuno, neh?"
Paolo sentì una fitta al cuore, si girò di scatto,
"Chi sei?"
Dal buio uscì un omino non più alto di un lavandino, aveva una testa perfettamente rotonda senza collo (cosi sembrava), e calzava due scarpe di color giallo fosforescenti.
"Non abbia paura," disse, "se lei è arrivato fin qui questa notte e con questo freddo... so benissimo che le gira male uomo."
"Già," rispose Paolo.
"Senta. Voglio aiutarla."
"Paolo."
"Paolo, piacere uomo, sono Cristo."
"Cristo, piacere."
"Allora, qual è il tuo piano?" chiese Cristo.
"Nessun piano. È solo una cosa che non riesco a togliermi dalla testa." "Fai fatica a dormire vero?"
"Già,"
"Ci vuole un piano," protestò Cristo, "come fai a svaligiare una banca senza un piano?," e Cristo si spostò sotto il portone della banca.
Era buffo vederlo avanzare.
"Un piano, un piano, mi aiuti sì o no?"
"Coraggio uomo, ti ho messo alla prova, non c'è alcun bisogno..."
"Lo sapevo," disse sollevato Paolo.
"Allora ci diamo una mossa?"
Tutto poi accadde di fretta. L'omino tirò fuori un mazzo di chiavi dalla tasca del pantalone, lo consegnò a Paolo e indicò con l'indice la serratura della porta sopra di lui.



Antica rabbia di un'antica arrabbiata - Parte III

Dopo il bagno serale, Elettra decise di dedicarsi al ricamo: doveva in qualche modo trovare un'occupazione per cercare di liberare la mente. Riprese il mantello che tempo prima cominciò a lavorare per il padre, ma non riuscì a concentrarsi nonostante i numerosi tentativi: la recente scoperta le aveva procurato troppa tensione.
Qualche giorno prima si trovava infatti in compagnia del suo precettore e, tra la lettura di un testo e l' altro, le era venuta sete: la giornata era molto calda e a furia di recitare versi la gola seccava velocemente. Così Elettra si reco' verso la fontana poco lontana in giardino e, passando davanti al magazzino della corte, r ascolto' la discussione tra la madre e il cugino.
 <<Stiamo imboccando una strada molto impervia, Clitemestra: voglio che sia assolutamente certa di ciò che dovremo fare.>>. Egisto posò sulla bella regina un profondo sguardo indagatore. Quella stava con gli occhi puntati verso la piccola finestra che dava sul cortile: la pelle chiarissima era illuminata lievemente dalla poca luce che riusciva ad entrare ma che mostrava il pallore dell' indecisione.  
<<Sono consapevole di questo e non provo alcuna pietà per quell'uomo che non è più mio marito. Tuttavia temo di poter così facendo perdere l'affetto dei miei figli: loro adorano Agamennone e potrebbero soffrirne>>. Clitemestra si sedette dando le spalle ad Elettra che stava corrucciata dietro la grande porta socchiusa: era sconvolta da ciò che stava sentendo, ma furono le successive parole di Egisto a darle il colpo di grazia.
 Il possente ragazzo, avvicinatosi a Clitemestra, la cinse tra le braccia dicendo:<<Questo spargimento di sangue e' necessario per legittimare il nostro amore e per risollevare Micene: l'inutile guerra a Troia dura ormai da anni ed economicamente ci troviamo in gravi difficoltà. Se non interveniamo Agamennone potrebbe decidere di bandire una nuova campagna militare: sappiamo tutti quanto sia smisurata la sua superbia e che

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   1 commenti     di: Debora Dipietro


sottile disegno complicato

La vecchia signora Lodigiani appartenente a una famiglia nobile ormai decaduta, avvolta in un elegante cappotto foderato di pesante broccato che era stato un tempo proprietà di una delle donne della sua famiglia molti anni addietro, osservava stancamente il bel viso ovale della nipote che le parlava emozionata. Trasferendosi in uno dei migliori appartamenti del centro di Milano non avrebbe rischiato di morire da sola nella sua isolata villa di campagna; la ragazza non le aveva neanche risparmiato una raccapricciante descrizione di lei stessa accartocciata, accasciata su uno dei suoi tappeti in lana ponderosa riccamente decorati, sfiancata da un improvviso attacco di cuore, con in mano ancora un orecchino di lapislazzuli che stava per infilare al lobo destro. La signora Lodigiani era troppo vecchia per ribattere, quindi aveva deciso infine di accondiscendere alle moine della nipote, anche se al momento in cui il suo Signore avrebbe deciso di portarsela via lei l’avrebbe seguito volentieri, ripudiando l’idea di varcare la porta di uno di quei tremendi ospedali moderni per poter rimanere in vita attaccata ad un macchinario.
La ragazza era stata alquanto insistente, organizzando personalmente tutte le piatte faccende burocratiche e occupandosi del trasloco. In un mattino particolarmente gelido e trasparente le due donne osservavano dall’ampia via alberata i ricchi mobili ottocenteschi volteggiare nell’aria fredda, diretti verso la finestra del suddetto appartamento. Tutto procedeva come previsto, ma la signora Lodigiani sentiva una morsa ferrea che le stringeva il cuore, anche se non seppe perché. Accanto a lei sua nipote le stringeva il braccio emozionata, osservando di tanto in tanto affascinata i bagliori cremisi che la luce bianca produceva sul collo dell’anziana donna passando attraverso il rubino quasi nero che pendeva dal lobo rugoso.
La vecchia osservava ora la lenta ascesa di un vecchio pianoforte in mogano, a coda, che riportava all’interno s

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   3 commenti     di: ale marlene


La linea rossa

La sottile linea rossa. Togliere sottile. Sean Penn e Nick Nolte. Togliere Sean e Nick. Il cast reale -invece- è un po' quello di sempre: passeggeri, utenti, clienti, vittime e carnefici. Ambientazione metropolitana. Piu' precisamente un capolinea della linea. Curiosamente, al nord, porta il nome di una citta' del sud. Milano incontra Bisceglie. Ma è solo un gioco di parole. Qualcuno non sa giocare, qualcun'altro non puo' giocare.

Dentro alla stazione, se fossi fermo osserverei, se osservassi forse capirei. Ma non sono fermo, non osservo veramente, non capisco fino in fondo. Sono solo un passeggero. Innocente. Vergine.

Loro li incontro spesso, nelle vicinanze della porta di entrata, che per loro non è un'entrata, porta che non porta a nulla, ma forse lontano da qualcosa. Da quella che noi, ingenuamente, chiamiamo casa.
Lui suona un violino, lei bada al (loro) bambino nella carrozzina. Sguardi assoluti, speranze sopite, irrequietezza rassegnata. Le coppie crescono, i bimbi rimangono sempre gli stessi, sempre piccoli, disperati, soli.
Nelle carrozzine improvvisate scoprono il destino, che ad esse li ha assegnati, lentamente aprono quegli occhi pieni di freddo e di lacrime.

Tante volte mi sono chiesto perchè proprio loro, perchè proprio io in quell'altra carrozzina, di quella marca dal suono cacofonicamente infantile, soffice ed accogliente, dove al minimo sussulto compariva un'amorevole sorriso materno, in luogo dell'indifferenza, della fretta dei viaggiatori senza nome.

"Te ne stai andando anche tu, come gli altri, tra gli altri, senza nemmeno un sorriso, neppure un cenno, neanche un secondo del tuo tempo, cosi' prezioso. Con la tua ventiquattrore sfrecci, ventiquattrore chiuso nel tuo silenzio, geloso di ogni parola, attento al minimo spreco di attenzione. Domani, invece, ne sono sicuro, allungherai a mia madre -forse- una moneta, ne pretenderai un sorriso, tu cosi' avaro, quasi fossi un suo cliente. Ne risulterai perfino sollevato: un

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Cenere

Sono oggetti strani i nomi. Te ne appioppano uno e te lo devi portare addosso per tutta la vita. Non c'è bisogno che tu sia d'accordo o meno. Ti tocca come a tutti e per quanto sia ingombrante e fastidioso sta a te e solo a te portarne il peso. Così pensavo. Puoi passare tutta la vita a farti un nome, lo puoi svendere, lo puoi svilire, puoi addirittura stampartelo sulle camicie o sulle mutande; in semplici iniziali puoi portare sulla stoffa il tuo passato e le tue origini ma un nome, avrei scoperto, non è una torre invalicabile, è piuttosto una fragile bandiera che puoi perdere per sempre quando meno te l'aspetti. Puoi ritrovarti ad essere qualcosa alla fine di un dito che ti indica. Puoi diventare una storiella che si racconta in un bar o una filastrocca per bambini ed allora a nessuno importa più quale fosse il tuo nome. Non sei più un qualcuno, sei diventato un oggetto di arredo urbano come una panchina o una fioriera, soltanto meno utile e meno bella. Una volta ce l'avevo un nome. Se mi sforzo abbastanza sono sicuro di riuscire a ricordarlo ma non credo abbia più importanza come ad un cieco non importa di che colore sia il cielo; blu, rosso o viola a pallini bianchi non ha importanza perché oramai non ti appartiene più. Diventa superfluo, inutile come la paccottiglia nelle case dei ricchi. Un nome è una speranza, quello che magari i tuoi vecchi desideravano per te ed ora sai che non sei più quello che eri in passato. Per voi, per la gente che passando mi lancia un'occhiata fuggiasca e cammina dritto, per le leggende che si raccontano nel quartiere ed anche per me, io sono solo Cenere!

"Se sei in un palazzo in fiamme e ti trovi davanti ad una porta chiusa e ti accorgi che la maniglia scotta cosa fai?" Era l'ultima domanda al test di ammissione nel corpo dei vigili del fuoco. Avevo studiato per settimane intere senza darmi tregua. Avrei potuto spegnere un incendio in un grattacielo con la sola forza del pensiero ormai e quella domanda buttata li mi s

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   6 commenti     di: Angelo Senatore



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Questa sezione contiene una serie di racconti brevi, di lunghezza limitata all'incirca ad una videata