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Racconti brevi

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Friendzone

Oggigiorno chiunque si dichiari ha paura di sentirsi rispondere con sei terribili parole. Parole che farebbero tremare le ginocchia a qualsiasi individuo fornito di articolazioni. Se sei un invertebrato mi dispiace per te ma non rientri nella categoria. "Ti vedo solo come un amico".
Tutti a criticare i cosiddetti "friendzonatori" vedendo i "Friendzonati" come martiri o eroi di guerra. Ebbene, capovolgiamo il punto di vista.
Era una bellissima giornata. Ti sei svegliato stranamente di buon umore con il pensiero "nulla potrà rovinare questo giorno". Oppure era solo un grigio lunedì di scuola. Fatto sta che ti sei svegliato e hai trascinato il tuo corpo fuori casa, con malavoglia o meno poco importa. Passeggi senza meta e incontri un tuo/a amico/a. Ti sbracci per farti vedere. Le passeggiate sono sempre più divertenti in compagnia. Come ogni altra cosa del resto. Comunque, iniziate a parlare. Lui/lei sembra strano/a. Magari si torce le dita in modo nervoso, o sposta lo sguardo su qualsiasi altra cosa che non sia tu. Alcuni temerari provano con la domanda "Tutto bene?". Altri invece cercano di ignorare la sensazione di disagio che si fa largo nella loro testolina. Cosa sarebbe meglio? Ma sì, buttiamoci.
<Tutto bene?>
L'amico/a si fa ancora più nervoso. Forse hai usato le parole sbagliate.
<Ti devo dire una cosa>
Ecco, forse queste parole hanno lo stesso peso delle sei scritte in precedenza. Nella tua testa si ammucchiano un sacco di strani pensieri. "Cosa mi vorrà dire? "Oddio, e se poi mi dice che gli piaccio?" "Ma porca di quella... non si può iniziare una frase così!". Sei un mix di emozioni in poche parole. Mentre tutti questi pensieri rimbombano nella tua testolina, cerchi di pensare ad un modo carino per scaricarlo. Anche se sono più che sicura che il modo carino non ci sia. Non se si ha un cuore, almeno.
<Sai, è da molto che volevo dirtelo ma non ho mai trovato il coraggio di farlo. Voglio essere più di un/a semplice amico/a per te>
Ecco, l'

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   0 commenti     di: Micole


Damian

L'attesa si prolunga. Anche questa volta non è servito a nulla arrivare in anticipo e per primo, la dottoressa è come al solito in ritardo. Intorno altra gente; a mala pena un saluto e qualche sguardo.
Damian si guarda attorno con una gran voglia di rompere il ghiaccio, ma dagli altri nessun segno di interesse ad attaccare discorso... dunque silenzio, silenzio e pensieri.
Anche la ragazza magrissima e quasi rasata, in coda per il prelievo; Damian ricorda di averla conosciuta in reparto, quando tutti e due erano anche più malconci...
Cosa fare? Farsi riconoscere, far finta di niente?
Seduto di fianco un tipo interessante, non foss'altro per la sua apparente normalità in quest'ambiente di tipi strani, ma nessun segno di interesse nemmeno da parte sua... Tutti chiusi nei propri pensieri, nei propri problemi, nella consapevolezza della croce che tutti siamo andati a cercarci ed ora dobbiamo portare... Anche quel bel ragazzo brizzolato che si siede davanti... ; Damian ricorda di averlo incontrato da qualche parte, forse in qualche locale... Ed ora anche lui è qui! È la punizione divina?
Ma ad un tratto i suoi occhi si incontrano con quelli di un tipo appena arrivato. Se ne sta in piedi vicino alla porta, anche lui espressione in qualche modo triste e preoccupata, ma comunque un'aria dolce e rassegnata, ma non per questo abbattuta... E quegli occhi ricambiano lo sguardo, poi vagano altrove, poi cercandosi si incontrano di nuovo e così ancora una, due, cento volte. Damian accenna un sorriso, ma non vuole sia troppo evidente... si chiede "come sarà la mia espressione? Capirà che è un sorriso rivolto a lui o lo interpreterà come una smorfia?"... E così pensando, praticamente senza accorgersene, si trova quasi a toccarsi, ad accarezzarsi, sempre con gli occhi ormai quasi fissi dentro agli occhi dell'altro, che continua a ricambiare lo sguardo...
Sembra impossibile, ma anche qui si sogna... Damian infatti sta sognando... "wow, ma c'è ancora qualcuno che mi

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   5 commenti     di: eurofederico


Venite con me?

È l' ultimo giorno che risiedo qui a Lourdes, e già si crea un po' di dolore. Sento tutto ciò che mi è stato insegnato in questi giorni, tutto quello che ho visto, sentito, provato. Lega a te, queste mie emozioni, lettore. Assapora anche questo ultimo giorno. Ecco, uscendo dall' albergo Eliseo, ci avviamo per le strade del paese, affollate e ricche di negozi, le felci crescono sui muri, i gerani parigini decorano parte della via. Giungiamo dinanzi alla Porta di San Giuseppe, ed ammiriamo i rumori della natura, che in questo viale ci offre: cinguettii costanti, sussurri del vento, lo scorrere delle acque.
La piazza dinanzi la basilica è stracolma di persone, intente a scrutare le immense bellezze di questo luogo. Saliamo la rampa destra e ci addentriamo dentro la basilica superiore, ove il fresco emanato dalla pietra è un lusso in confronto al caldo di fuori. Questo silenzio ci aiuta a scrivere, riflettere, a distendere i nervi. Perchè l' impulso dello scrivere è venuto in fretta qui, il modo di comunicarvi lo stesso. Le colonne sono ornate da foglie e fiori, gli angeli campeggiano in ogni capitello, le figure della Madonna appaiono ovunque, e le panchine sono finemente decorate.
Sentite i rumori dello sbattere mio sulla pietra, sto scendendo per le scale di fretta, non voglio mancare niente. I pensieri ci sono sempre, qui, perché non pensare poi? Quanta sofferenza in questo mondo, e quanto dolore si prova. Neanche qui una piccola tregua, persino per me, ma non importa, perché io qui ci sono venuto con le mie intenzioni, e non per seguire una persona! Un rumore rompe l' infinito silenzio, è una bottiglia di plastica che cade dalle mani di una ragazza indiana. Spaventata ella la raccoglie, scomparendo subito sotto lo sguardo di decine di persone, che sembrano umiliarla.
Sento dei melodiosi canti.. vi va di venire con me?
Ecco, assistiamo ora ad una messa in francese, il solo parlare questa lingua mette i brividi, persino i canti sono emozionanti.

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   6 commenti     di: Giuseppe Tiloca


Note grasse per uomini affamati

Quel giorno in cui Silvana chiese a me e a Marco di accompagnarla al centro commerciale, non sapevo dell'orrenda situazione in cui mi sarei ritrovato. Nè tanto meno ero a conoscenza dell'orda di cani e gatti affamati che m'avrebbe costretto a rinchiudermi nel bagno d'un pub. Non avrei mai creduto che lo stesso lardo che ingurgita ogni giorno la popolazione umana avrebbe ridotto in poltiglia le mie budella, le mie ossa e la mia speranza di esistere ancora per un po''.

Non sapevo nemmeno che quel giorno fossero iniziati i saldi: inseguivo Silvana affiancando le vetrine dei negozi, districandomi tra la folla di quel giorno. Le file interminabili erano costante di ogni negozio ed il calore della ressa era asfissiante. Navigavo in quella fiumana con le braccia come remi in un mare di corpi, pacchi e passeggini. A volte la gente era così concentrata da formare un blocco invalicabile. Mi ritrovavo solo a lottare con la fretta degli acquisti, alzando di tanto in tanto la testa per non perdere di vista Silvana. Con la testa piena di idee passava in rassegna tutti i negozi, guardando questa o quella gonna, vestito, paio di scarpe. Io con passo svelto cercavo di tener testa alle sue fughe repentine, mentre il mio umore vacillava tra la noia e l'inquietudine di dover passare altri minuti in sua compagnia.
Fortuna volle che la furia si fermò, sedendosi su una panchina difronte ad un addobbatissimo negozio di borse. Lì incominciò a blaterare su quanto desiderasse una borsa di quelle. Anche'io la desideravo, ma solo per il nobile motivo di lanciargliela addosso. Nervosamente muovevo la gamba. La sua gamba sinistra seguiva il mio ritmo.

<<Finiscila!>> strillò Silvana.
<<Sono due ore che ti corro dietro. Lasciami essere nervoso in pace>>
<<Perchè non hai seguito Marco?>>
<<Da quando una piccola, dolce donzella indifesa può essere lasciata da sola in un grosso centro commerciale come questo?>>
<<Grazie, mio principe!>> Le regalai uno schiaffo sulla coscia.

Il te

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Hic sunt limones

Nessuno di noi era mai andato oltre il muro a secco, dove si vedeva solo cielo e piante di limoni. Ci avevano detto di non allontanarci dal paese. Si giocava a pallone nel campo a ridosso della chiesa, o alla guerra fra le case diroccate, ma ogni tanto guardavamo il muro e i limoni, immaginando quello che poteva esserci al di là. Passò l’estate. Da tempo si parlava della nuova provinciale che correva giù a valle, dopo i campi di limoni. “La si prende facile con la strada bianca che trovi dopo casa di Pino”, disse Adelmo a papà indicando a lungo con il braccio. La macchina correva alzando nuvole bianche, come fa la nave con le onde. Da una parte e dall’altra, il verde brillava di puntini gialli. Con la mia Oklaoma in pugno guardavo attento quel mare che si apriva. In fondo alla strada bianca, dopo i campi di limoni, c’erano le donne sedute con i vecchi fuori dalle case. Tutti ci guardavano, e anche i bambini corsero a vedere: uno, sorridendo, mi salutò a due mani. Appoggiata l’Oklaoma sul sedile, ricambiai, appena prima che papà si immettesse sulla nuova provinciale.

   8 commenti     di: marco moresco


Niente di più bello

Caddi sfinito sul divano ancora incellofanato, mi sfilai le scarpe e rimasi a fissare il soffitto. Odiavo traslocare e come quasi tutti gli esseri umani normali, non volevo saperne di pacchi pacchetti e pile di libri da riordinare. Non che avessi molto la mia vita, tutta la mia vita, entrava in una Volvo Polar, futuro compreso.
L'esistenza di Max Ferro, perito assicurativo, si era spostata in periferia, in un monolocale arredato fornito di una imitazione di giardinetto pavimentato alla buona e con vista dal basso sul palazzone successivo. Niente sole ma in compenso la presenza rassicurante di una umanita' vociante fatta di lenzuola stese, rumori di cucina ed i soliti televisori urlanti.
Erano i suoni del mondo vivo e vero e quelle facce che vedevo erano i volti di cui avevo bisogno per ancorare un posto e un pezzo della mia vita a qualcosa, e non farli scivolare via dimenticati.

Cosi ogni giorno dal mio tavolino di plastica, tra un sorso di caffè ed una sigaretta, iniziai l'osservazione del fantastico spettacolo della gente. Il tempo era un lusso che potevo ancora permettermi. L'ultimo.
Mi ci volle un po' prima il mio sguardo si alzasse sulla destra, verso il balcone piu ordinato e pieno di piante. Pensai a quanta dedizione occorresse per tenere a bada una cosa del genere : fiori viola, rossi, bianchi e tutto quel verde che scendeva dalla ringhiera e si aggrappava tenace alle pareti del palazzo.
E lei era li, ed era davvero una gran donna, di quelle che la natura regala raramente. Gambe forti su un corpo morbido, pelle chiarissima e i capelli color rame sempre raccolti sulla nuca. Salutava le vicine educatamente e, piegandosi tutta presa dal suo lavoro sui mille vasi, teneva a bada il vestitino tenendolo fermo con una mano.
Ben presto dimenticai tutto il resto presi l'abitudine di aspettare che lei apparisse per prendersi cura del suo piccolo eden.

Io so essere paziente quando serve. Ho imparato a mie spese che le donne odiano gli uomini p

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Fiat 128

Immobile, in piedi in fondo al vialetto, le scarpe infangate. Il vento trasportava aghi di pino che ricamavano l'aria, con vortici e picchiate leggere. All'inizio vidi solo una grossa nuvola di polvere, poi cominciai a scorgere un'auto. Si avvicinava lenta, la strada irregolare la faceva sobbalzare con forza, lo scatarrare della marmitta fece abbaiare i cani. Ancora pochi metri e lo avrei rivisto, avrei rivisto il suo sguardo, sempre uguale, uno sguardo da inquisitore. Ancora pochi metri e avrei risentito quell'odore nauseante di crema da barba alla menta. Anche l'auto era sempre la stessa, FIAT 128 verde, da quarant'anni sempre uguale. Non credo ci sia molto da dire su mio padre: è figlio del suo tempo, ed è stato un uomo che ha creduto in ideali sbagliati. Ci sono due possibili strade da prendere quando si ha un padre così: imitarlo o esorcizzarlo. Io ho scelto la seconda. Andai via di casa appena diciottenne, lui non mi venne nemmeno a cercare, perché gli avevo mancato di rispetto, si preoccupò più di quello che la gente avrebbe pensato e detto, piuttosto di chiedersi perché me ne fossi andato. I primi tempi abitai con un mio amico, Giovanni, in una casa appena fuori città. Una di quelle case che ha molti proprietari che non si mettono d'accordo sulla suddivisione e restano disabitate, e alcuni nemmeno sanno di esserlo. Abitammo lì senza acqua e luce, solo letti di fortuna e mobili costruiti con i materiali che trovavamo in giro, oltre qualcosa che era già lì. Ci restammo quattro mesi, giusto il tempo di trovare lavoro e mettere da parte qualcosa per un affitto e una sistemazione meno "abusiva".
Mentre l'auto rumorosamente si avvicinava, ogni buca mi ricordava una cinghiata, ogni cigolio mi ricordava uno schiaffo. Pensai a quella volta in cucina quando gli afferrai il braccio, che stava per colpire mia madre, lo spinsi per terra, si quel giorno me lo ricordo, fu il giorno che giurai che me ne sarei andato. Chiesi a mia madre di venire con me, ma l

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   2 commenti     di: Davide Picone



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Questa sezione contiene una serie di racconti brevi, di lunghezza limitata all'incirca ad una videata