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Riflessioni

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Rifrazioni

Quando ero molto più giovane, e parlo di addirittura quattro anni fa, avrei voluto essere in grado di spegnere il cervello, e di poterlo fare ogni volta che mi coricavo, cosicché potessi finalmente addormentarmi subito, anziché essere costretto a fare i conti con i resti dei miei sogni, con le mie angosce, e con quel senso di costrizione che mi assaliva ogni volta che il giorno andava a morire.
Ora lo vorrei tenere sveglio, mentre guardo le decalcomanie sulla finestra che cominciano a scollarsi.
Domani ne compererò di nuove, sperando che a "Scarabocchio" vada ancora di attaccarle.
Eh... si. Sta crescendo... e, ad ogni giorno che passa, ho nuovi timori che possa perdere un qualcosa della sua anima di bimbo.

Le vite che si possono avere, fondamentalmente, sono tutte uguali.
Sono fatte di grigio e di luce, ed è solo una questione di illuminazione, quella che ne determina la qualità.
Già... tutto dipende da quanta luce filtra dalla tua finestra sul mondo, o, forse, da quante decalcomanie colorate gli hanno appiccicato sopra.
Però non rammento se la mia finestra di prima ne avesse oppure no... può darsi ne avesse... fatto sta che io non le ho guardate mai.
Allora, se non è una questione di decalcomanie, non può dipendere da altro che non sia la luce che filtra dai vetri grigi.
La vecchiaia... si... la vecchiaia può centrare.
Certo, col trascorrere del tempo, il grigio può incresparsi, e la luce approfittare dei piccoli cedimenti dell'età per riuscire a raggiungere gli occhi... ma non può essere solo quello.
Ora c'è molta più luce colorata, troppa perché dipenda solo dalle mie rughe.
E poi... la mia finestra sul mondo è ancora grigia, più o meno quanto lo era tempo fa.
Che la luce nuova non venga da fuori?

Ho una donna.
Piccola, bella, fragile come un cristallo... spesso mi si spezza tra le dita.
Io passo parte della mia vita a raccoglierne i frammenti e a rincollarli... dentro la mia stanza dai vetri grigi con le decalcomanie appi

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   5 commenti     di: Tinelli Tiziano


Il quadro completo

Luca aveva ventisette anni. Aveva anche un bel lavoro, Luca, almeno secondo l'opinione comune dei suoi amici e familiari. Impiegato dello stato, sentiva però l'intero peso del mondo gravare sulle spalle, quando varcava la soglia dell'ufficio.
Quella mattina si trovava sul palco. Suo il compito di fare il preambolo introduttivo al discorso del direttore generale. Di fronte un centinaio di facce con un'espressione incerta tra la rabbia per l'invidia ed il sussiego per il dirigente, che si trovava subito dietro di lui.
Cominciò con i saluti di rito, e mentre stava per iniziare il suo brevissimo intervento guardò un istante fuori della finestra, così, tanto per restituire un po' di profondità al suo sguardo.
Non c'era niente di particolare da vedere, se non le case, le strade, la gente, le auto.
Rimase interdetto. Guardò di nuovo fuori. Un brusio attraversò la platea, mentre un lieve sorriso di scherno cominciava a delinearsi sul viso di qualcuno.
Non c'era niente di particolare da vedere. Lo sapeva ma continuava a guardare fuori. Non era attirato da quello che vedeva, ma da quello che non vedeva.
Il direttore schiarì la voce, mentre un moto impercettibile cominciava a manifestarsi sulla palpebra del suo occhio sinistro.
Luca continuava a guardare fuori. Il brusio aumentava, alimentato dalle esclamazioni di falso sussiego e da quelle di pura cattiveria.
Cos'e che mancava da quanto stava vedendo di fuori? Eppure era ciò che vedeva tutti i giorni. Non si era mai accorto di quella dissonanza, fino a quel momento.
Continuava a guardare fuori. Poi, all'improvviso, capì. Lo sapeva da sempre, ma finora aveva fatto finta di ignorarlo. Ogni volta che aveva guardato fuori, negli ultimi due anni, tanto era il tempo che lavorava in quell'istituto, lo aveva capito. Salvo poi relegare quella consapevolezza in un recondito angolo della sua coscienza, fino a dimenticarsene.
Smise di guardare di fuori, prestò attenzione alla sala, e lentamente iniziò a par

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Il noto altruismo della fantasia

La nostra fantasia è come un secondo cervello, libero da qualsivoglia inibizione; un'essenza pensante e autonoma che fa parte di noi ma si dimostra talmente ovattata e indecifrabile da vanificare ogni tentativo di totale controllo del suo funzionamento. Ogni tanto ci capita di perdere la bussola: le angosce si sommano alle fatiche, ci sentiamo esauriti e a corto di ossigeno, vorremmo per un attimo espellere tutto il veleno e riempirci di luoghi ed eventi che sappiamo inutili, se non impossibili, ma necessari a donarci ristoro... è allora che lei, la fantasia, decide di prendere il sopravvento, aprofittando del nostro totale rilassamento, indotto dalla stanchezza. Forse essa è come un vaso che si riempie fino all'orlo e, come noi, necessita inevitabilmente di sfogarsi, inondarci di visioni costruite nell'ombra e troppo a lungo represse, o è invece desiderosa di consolarci. Intenzionalmente o no, questo invisibile pilota automatico si dimostra altruista. Si potrebbe materialmente immaginarla come un ponte quieto e infinito all'interno della nostra mente schizofrenica, in grado di superare ogni confine e trasportarci lontano. Costruisce per noi situazioni estatiche e mondi plasmati secondo il nostro ideale di sommo piacere e pace assoluta, dove vorremmo trascorrere fisicamente anche solo una manciata di secondi. Queste dimensioni, dalla bellezza indescrivibile, vengono create prendendo in prestito, si direbbe casualmente, alcuni ricordi accumulati dalle misere e fin troppo terrene percezioni che adoperiamo giornalmente per non perderci. Se infatti viviamo dibattendoci in un intrico di metallo e cemento, è pur vero che in mezzo a tutto questo caos siamo talvolta in grado di trovare piccoli tesori, sensazioni e profumi che, messi accuratamente da parte, costituiranno in seguito i mattoni del nostro rifugio spirituale, dove nulla è fuori posto e riusciamo ad accettare definitivamente noi stessi.

   4 commenti     di: Alessandro


Il pipistrello

Su pilgioni e notti essidi a de notti essidi a merì curri curri e corcadì..""Il pipistrello esce di notte, esce di sera.. per te è ora di andare a dormire"Gigino aveva volato come un pazzo da un palo elettrico all'altro, rincorso da una lunga canna che, noi bambine del vicinato, tenevamo a turno tra le mani. Il povero pipistrello stava mal volentieri al nostro gioco, senza capire perché, tutte le volte che s'appollaiava sui pali del cortile, qualcuno lo cacciava ridendo. Lo aspettavamo tutte le sere anche se, in fondo, ci faceva paura sentirne anche solo il nome. Ci venivano i brividi a vedere quella palla nera che, con le ali spiegate ad ombrello, volava attorcigliandosi sui fili, con la testa all'ingiù. Sembrava un vampiro... ma inconsciamente ci riportava al buio fitto, alla morte, all'ignoto. Quando ci stancavamo di questo gioco, poiché era troppo buio per giocare a "perduscas", (pietruzze) c'infilavamo sopra la terrazza sovrastante il forno, a s'omu e s'olia, (un rione del paese) ed in mezzo ai gerani e sulle fave messe ad essiccare raccontavamo storie di "morti". Alcune ragazze dicevano: "Questa è vera, è capitata proprio a mia zia!". Altre del gruppo, invece, riferivano di averle sentite, ma tramandate, dai nonni. Storie di persone che, prima di morire, avevano avuto chiari segni premonitori di morte, oppure avevano dialogato con la morte che si presentava loro sotto mentite spoglie, ora come un cane o gatto nero, ma anche come gufo o come vecchi che poi sparivano all'improvviso, lasciando i poveretti in preda all'angoscia più nera. Tutte queste persone poi, prima di morire, avevano sentito campane a morto o preghiere recitate con voce solenne da processioni invisibili, che passava nei pressi delle loro case. Le storie erano tante e così ricche di particolari che ci tenevano con il fiato sospeso e, mano a mano che i racconti andavano avanti, anche il cerchio in cui eravamo disposte si restringeva perché, inconsciamente, ci si avvicinava l'una all'a

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   3 commenti     di: antonina


Dio

Mi dileguo. In un attimo sono la neve sui tetti e la rugiada nei campi. E la cenere sporca, liberata in orge di spiriti. Io, funambolo. Io, cattivo fratello. Io, brutale peccatore. - Miscela di villici e codardi passanti. La gente non riflette mai troppo poco; e genera il vuoto, e l'odio, la storpia idiozia. Si contrae in espressioni fetide, al di là di ogni morale, come un morbo asfissiante se ne nutre.
Quando guardo negli occhi, mi si stende uno stuolo di marcio rachitico: e crack. Il silenzio. E crack! La miseria. E crack... I miserabili! Sono sonnambulo, dicono. Ma io mi sveglio tardissimo, perchè il sole che sorge mi tormenta e mi provoca adorazione. Come un Dio enorme. Ho paura di crollare, di stemperarmi i pensieri. Disgiungere lamenti e boati. Al tramonto, sino all'ultimo sprazzo di fuoco, riemergono logorii di marce dalle potenti grida. Sono i selvaggi. Le lingue del diavolo. Gli antichi stendardi. Danno fuoco alle mie budella, come in un rito di salvezza. E vorrei tornare ad essere neve, sui tetti. Rugiada, sui campi. Cenere sporca. È questo, il terrificante destino?
Non so' piegarmi. Le mie ginocchia se fremono, non sanno inginocchiarsi sotto i colpi di frusta, per quanto violenti e maligni. I tamburi, il loro fragore riempie le sale di sporcizia. Credo di esserci, credo. - Mi abbevero un'ultima volta, dalle tazze sporche di piscio della Regola, e poi in una fontana dorata, li atterro tutti con la loro stessa terribile arma. È ora tarda, e io, indelebile, striscio.
Ormai perduto. Ormai, fuggo.



Pelle

Stesi sulla moquette di basalto delle piazze - di un milione di strade scese da pullman con le marmitte bucate e una tosse fin troppo roca di olio motore bruciato. Illuminati dalla poesia alogena Euronics, sostituto stracolmo eppur -xxx- inadeguato alla luce ai vapori di mercurio di una vecchia taverna.
Intarsiando tubature nell'anima in lega leggera firmata Pininfarina di una fuoriserie al guinzaglio di un Rockerduck in borghese, che scivola in una notte liquida di nitrometano e additivi cancerogeni.
Un condizionatore che intona il suo canto gelido sulla mia schiena graffiata di povero clochard cosmopolita, cittadino di (n)ovunque che vaga con un vecchio bastonepennabic più che claudicante. Brandelli strappati del mio passepartout per il mare di Lcl, dove essere finalmente Uno e dimenticare notti impossibili da ricordare, pozzanghere oceaniche di vecchi tagli e intonaco cadente lanciate a centottanta all'ora verso la ruggine dei supermercati.
Un sospiro e l'eiaculazione-acido-idrico del sistema antincendio che strappa i mullet e decolora le creste, disegna tatuaggi di scontrini e lava via la vecchia rabbia in vinile. Riempie i solchi di antico dolore blues, a volte sussurrato, a volte gridato in chiave minore e crociera sincopata. Momentanea indecisione di nicotina assente e crollo strutturale da routine ipotricotiche e dall'arroganza sottile dileggiata da difetti di pronuncia - sottofondo rap scadente per fantasie omosuicide e tautologie sintattiche.
Non mi interessa affatto quello che dici. Vagheggio società idilliache di borse cortesi e loquacità bionde che possano coprire il frastuono dei posti occupati e degli esercizi di tecnica.
Sento nitidamente l'urlo delle braccia che si spezzano sotto il peso di macigni tachionici, mille rimasti giovani e mille invecchiati nello stesso anno. Moderno Atlante, costantemente teso verso l'ormai-non-più e mai definitivamente separato da un futuro che tarda a morire. Randagio upperclass o sovrano in eskimo e

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Tutte le cose

... mi sembra di amare tutti. Sì, tutte le persone, tutte le bestie, tutte le piante... tutte le pietre. Tutte le cose che esistono, tutte le cose che non esistono.. tutte le cose che potrebbero esistere. Tutte le cose che tutti hanno visto, tutte le cose che nessuno ha visto...
Mi sembra di amare tutti, proprio, ma sembra molto faticoso, perchè l'amore spacca il cuore.. questo lo sanno tutti.




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