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Saggi

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La questione del signoraggio, cerchiamo una soluzione

Questo articolo, non vuole essere un saggio d'economia, le regole dell'emissione e il signoraggio sono spiegati con completezza in quasi tutti i libri di economia politica e monetaria.
La descrizione tecnica sarà breve e sintetica, così da essere comprensibile, anche per chi non ha la volontà, o la possibilità di addentrarsi nello studio delle norme e della prassi bancaria.
Rimanendo nel generico sappiamo che le banche centrali emettono banconote, queste banconote vengono sottoscritte dalle varie banche e prestate agli investitori, sotto la forma principale di titoli di stato. Gli investitori (cioè) i cittadini pagano un'interesse sul denaro ricevuto a prestito.
Il signoraggio può essere definito come la differenza tra i profitti generati dagli interessi sui titoli sottoscritti e il costo di emissione della moneta. L'interesse è percepito equivale al tasso di sconto, fissato, nel caso europeo dalla Bce.
Vi segnalo adesso, che quasi tutte le banche centrali sono indipendenti dai Governi, vi sono buone ragioni a riguardo, che generalmente una parte rilevante delle loro azioni è posseduta da altri istituti bancari (che così accedono agli utili e hanno possibilità di influenzare le politiche monetarie) e che le altre banche riscuotono interessi anche attraverso il meccanismo della sottoscrizione precedentemente descritto.
Questa prassi nasce convertibilità con l'oro della moneta, in tempi passati le banche emettevano moneta e allo stesso tempo garantivano la possibilità di convertirla, interesse era giustificato della presenza dell'oro nei forzieri delle banche e conseguentemente dalle suo costo d'opportunità.
Il problema è che la convertibilità della moneta non è più garantita, gli istituti privati ottengano enormi profitti dagli interessi percepiti prestando soldi di cui non sono proprietari, perchè appena emessi.
Rendetevi conto, anche senza proporre statistiche, che i profitti del signoraggio sono giganteschi, superiori a quelli di qu

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Il proposito

Ricordo d'aver iniziato a fumare in età molto giovane e dietro insistenza di una mia compagna, la quale non voleva rassegnarsi a fumare le sue sigarette da sola, specie dopo il pasto di mezzogiorno che consumavamo insieme, alla mensa dell'azienda dove lavoravamo.

"Prendi, almeno prova...!" Mi diceva sconsideratamente la mia collega.

Riuscii a dirle di no per un paio d'anni sebbene molte volte mi fu messa in mano la sigaretta con l'accendino già acceso, pronto a farmi fare la prima "tiratina" ed ogni volta gliela restituivo senza sforzo ma anzi con un certo disappunto per la sua caparbietà.

Rifiutavo ogni giorno e con decisione ma poi, lentamente, riuscì a persuadermi che la cosa era piacevole ed a farmi provare. Accettai di assaggiare quell'unica sigaretta dopo il pasto che m'avrebbe aiutata a digerire ed avrebbe reso più gradevoli quei minuti di pausa tra la mattinata ed il pomeriggio di lavoro.

Mi girò subito il capo ed ebbi un senso di nausea che non mi spaventò, soltanto perché la sprovveduta mi aveva avvisato sugli effetti del fumo all'inizio dell'esperienza.

Chiacchieravamo volentieri insieme e fumavamo voluttuosamente quella sigaretta che avevo finalmente imparato a gustare. Prima una, poi trovammo il tempo di fumarne anche una seconda e, se avessimo avuto cinque minuti di intervallo in più, ne avremmo fumato anche una terza.

La lasciai perché mi sposai ma non abbandonai più le sigarette.

Anche mio marito fumava ed io, senza il bisogno che mi venissero offerte, prendevo il pacchetto direttamente dalla stecca che egli teneva sempre di scorta, in casa, andando a procurarsele durante il fine settimana, nella vicina Svizzera dove il costo era conveniente.

Andai avanti a fumare regolarmente, sebbene avessi gravi e validi motivi per non farlo.

Non seppi approfittare neppure del periodo di maternità che mi diede una nausea costante e nella quale vi era anche la totale repulsione verso il fumo di sigaretta.

Quando mio

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   4 commenti     di: Verbena


Spiegare ad un bambino il concetto di infinito

Come spiegare ad un bambino cos'è l'infinito? Un concetto troppo difficile, troppo grande. Ero bambino e mi chiedevo come potesse qualcosa essere infinito. Pensavo, in particolar modo, all'universo. "L'universo è infinito", questo mi dicevano. Non lo capivo, ma nemmeno lo discutevo. Aspettavo in macchina un giorno d'inverno, il vetro era appannato. Pensando all'universo cercai di disegnarlo, volevo vedere l'infinito coi miei occhi. Disegnai un cerchio piccolo, la Terra; intorno, feci un cerchio più grande, il sistema solare. L'universo è infinito... ma se non lo fosse? Provai allora a confutare l'assioma. Facciamo finta che l'universo sia finito. Ecco, dunque, un altro cerchio. Ma se l'universo ha un confine, cosa ci sarà dopo? Il nulla? La non-esistenza? Se fosse stato così, mi resi conto che il nulla sarebbe stato infinito. Ipotizzai, allora, che ai confini del nostro universo, potesse cominciarne uno nuovo. Aggiunsi un altro cerchio. Ma, finito anche quell'universo, cosa poteva esserci? Un altro universo oppure il nulla infinito? Capii, in quel momento, che avrei potuto andare avanti a disegnare cerchi, racchiusi in altri altri cerchi. Oppure rassegnarmi all'idea del nulla infinito. Capii, insomma, che l'infinito non era una scelta, un opinione. Era inevitabile. Che fosse il nulla, o un'infinità di universi, c'era qualcosa di necessariamente infinito. Quel giorno capii l'infinito.

Anni dopo capii di non aver capito fino in fondo.
L'infinito non esiste, la penso così.

Nemmeno i numeri sono infiniti. In teoria si potrebbe andare avanti "all'infinito" aggiungendo una cifra dopo l'altra. In teoria... ma ciò non è realmente possibile. Ad aggiungere una cifra dopo l'altra, prima o poi si finisce l'inchiostro, prima o poi finisce lo spazio sul foglio, prima o poi si esaurisce l'intera scorta mondiale di carta, prima o poi si finisce il foglio di excel, si finisce la memoria del computer, si finiscono i centimetri di terra su

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   9 commenti     di: Tim Adrian Reed


Le Iliadi dell'Odissea

Intitoliamo così i numerosi passi dell'Odissea che rievocano le vicende del conflitto troiano. Generalmente è Ulisse che le racconta ai suoi interlocutori, ma per lo più egli tiene nascosta all'interlocutore la sua vera identità e il suo racconto appare naturalmente non del tutto veritiero se non proprio inventato. Ma anche i bellissimi Apologhi ad Alcinoo, con le fantastiche storie di Circe, Polifemo, Tiresia non si sottraggono a questa valutazione: direi che Omero ha scelto di proposito di porli sulla bocca stessa del suo eroe, quasi a sottrarsi all'accusa di inverisimiglianza.

Iniziamo con il racconto che il vecchio Nestore fa a Telemaco, giunto a Pilo in cerca di notizie sul padre, ricordando che una tradizione ripresa dagli autori medievali Benoît de Sainte-Maure e Guido delle Colonne fa di lui giovane un argonauta che con Giasone, Eracle e Peleo avrebbe partecipato alla prima distruzione di Troia, contro Laomedonte, il padre di Priamo. Il racconto di Nestore prosegue con la storia di Oreste, che sarà poi argomento della tragedia attica.

III 96-417 (γ 69-312)

γ 69 "Interrogare or gli ospiti si addice,
Che il cibo ha confortato: O forestieri,
Chi siete, onde venite e qual vi spinse 95
Bisogno a traversar l'equoree vie?
Od ite a caso per lo mar raminghi
Come pirati che la vita a rischio
Pongon per depredar l'estranee genti?"
γ 75 Di sé fatto sicuro, gli rispose 100
Il prudente garzon, ché nuovo ardire
Posto gli ebbe nell'animo Minerva,
Acciò del padre assente al Re dimandi
Ed a sé gloria appo le genti acquisti:
γ 79 "O Nèstore Nelide! inclito vanto 105
Degli Argivi, ti piacque interrogarne
Chi siamo ed ecco a dìrloti son presto.
D'Ìtaca che del Nèio siede alle falde
Or qua giungiam; parlar d'una faccenda
Privata, non già pubblica, ti deggio. 110
Vengo, se aver poss'io qualche contezza,
L'ampia del padre mio fama seguendo,
Del magnanimo Ulisse che già teco
Combattendo, com'è pubblico grido,
L'Ìlie mura atterrò.

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Femminilità venexiana

Già nel 1500, Pietro Aretino, che morì infatti a Venezia nel 1556, ebbe a dire una frase emblematica: "I veneziani vuole robbe sode e non petrarchescherìe", come a dire che i Veneziani vogliono donne vivaci e di sostanza, alludendo forse, di contrasto, alla immagine irreale e mitizzata della donna, cantata da poeti suoi corregionali. In effetti la donna veneziana era molto presente nella vita sociale, di cui quella famigliare era solo un aspetto. Mi riferisco certamente alle donne del patriziato, le quali accedevano spesso ad alti livelli di cultura. Elena Lucrezia Cornaro Piscopia è stata la prima donna al mondo a laurearsi, in filosofia, nel 1600, presso l'illustre università di Padova; un'insegna in pietra, tutt'oggi affissa in prossimità del Palazzo Comunale, ne ricorda l'evento.
Sempre nel secolo precedente, spicca quale unica figura di rilievo, la cortigiana detta "honesta" Veronica Franco, letterata, che ha lasciato una bella collezione di sonetti e che viene tramandata come donna colta, molto ricercata anche per la sua intelligenza. Oltre che per prestazioni costosissime.
Ma anche alle donne appartenenenti a quella che potremmo definire oggi "la borghesia", ossia alle mogli dei mercanti e dei " banchieri" era attribuito un ruolo sociale rilevante soprattutto nell'organizzare incontri e feste (c'era l'usanza diffusa nel '700 di organizzare serate di gioco da tavolo e salotti di conversazione, nelle abitazioni private) durante le quali uomini e donne scambiavano liberamente e con pari considerazione, le proprie opinioni. Le commedie goldoniane sono un esempio di questo vivere sociale di scambio ( che culminava nel periodo di Carnevale con l'apertura di tutti i teatri della città) e di contrapposizione tra uomini e donne, anche se il Goldoni parteggia apertamente per l'acume e il senso di ironia delle donne della sua città. Non a caso egli scriverà la commedia "Le morbinose", ossia le briose, le donne di buon umore.
Ri

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Una strategia vincente

Il termine Auto - Aiuto indica un insieme di strategie idonee a rafforzare le capacità di ogni individuo ad applicare le tattiche adatte per superare una problematica personale o familiare.
I gruppi di Auto - Aiuto sono formati da persone che si trovano assieme per superare disagi comuni attraverso il reciproco sostegno emotivo. Le persone che vi partecipano si impegnano per il loro cambiamento attivandosi in prima persona per affrontare le loro difficoltà; partecipando alla vita di questi gruppi si ha la possibilità di dare ascolto ai propri corpi, alle proprie menti, ai propri comportamenti e si possono aiutare gli altri a fare la stessa cosa.
La persona acquisisce una propria consapevolezza, stabilisce nuovi legami, comunica e si confronta con gli altri. La discussione del gruppo favorisce le relazioni dirette (faccia a faccia) e promuove l'assunzione di responsabilità da parte del singolo.
Le persone vivono nel gruppo un medesimo problema, condividono la loro storia e le loro esperienze attraverso la partecipazione e l'impegno personale. Il confronto tra le diverse situazioni, sono gli strumenti indispensabili per superare il problema comune. Ogni persona che partecipa al gruppo ascoltando e comunicando ne aiuta un'altra in difficoltà e, proprio per questo, ciascun membro aumenta il senso di autostima, di autoefficacia delle proprie capacità e potenzialità positive.
Quando mi capita di trovarmi a dover testimoniare del perché io credo nella pratica dell'auto-mutuo aiuto in quelle occasioni con tante facce che silenziose attendono qualcosa, semplicemente racconto alcuni episodi della mia vita che, come spesso accade, non è poi così semplice da affrontare.

La consapevolezza è l'elemento indispensabile per vivere serenamente la propria esistenza. È inutile negare i disagi perché esistono a prescindere, meglio farli propri e non potranno più coglierci di sorpresa.

Mi piace vederla un po' così, i malesseri, il disagio, i br

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Non è mai troppo tardi

Iniziai a dipingere molti anni fa, durante un lungo periodo di convalescenza, per riempire il tempo e timidamente imparare a scarabocchiare qualcosa nell'ABC di una delle cose che già amavo di più: la pittura.

Ed iniziò così la mia avventura di pittrice, senza aiuti, senza quell'apprendimento sistematico e didattico necessario per una qualunque adeguata introduzione al lavoro, di qualsiasi genere si tratti.

Continuai a scarabocchiare a lungo soltanto per il gusto di fare quella cosa che tanto mi affascinava nelle gallerie e da cui io mi sentivo lontana anni luce.

Con lunghe pause di anni, durante i quali mi applicai totalmente alla mia attività di madre, non cessai mai di ricorrere ai pennelli, specialmente nelle occasioni in cui avevo bisogno di astrarre dalla realtà che mi gravava sulle spalle, talvolta in modo eccessivo.

Ora dipingo con regolarità e di recente il mio lavoro si è fatto apprezzare da persone che se ne intendono e che mi hanno qualificata "pittrice".

Mi diletto nelle varie forme: dipingo paesaggi, figure umane, animali, frutta, fiori ed oggetti vari.

Ho capito che il dipinto deve essere piacevole, intendo dire che deve essere un gradimento per gli occhi, e per il colore che si è dato, e per il significato di ciò che si è voluto esprimere.

In qualunque modo l'artista si esprima, è importante che la sua opera piaccia, anche se non a tutti e nonostante che del proprio lavoro, difficilmente il pittore sia soddisfatto.

Una voce antica, che nell'ambiente degli artisti è conosciuta, dice che quando un pittore è appagato da ciò che ha fatto, finisce di progredire.

Io posso soltanto dire che non è mai troppo tardi per incominciare.

Ho conosciuto persone che hanno iniziato a dipingere dopo i quarant'anni, altri dopo i sessanta, usufruendo del tempo libero dopo il pensionamento ed ho potuto constatare di persona che vi sono alcuni che già sono entrati a far parte della categoria dei pittori a pieno titolo.

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   6 commenti     di: Verbena



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