I nostri demoni erano nuovamente lì con noi.
Il mio se ne stava appoggiato con le spalle al bancone del bar, rivolto alle entrate con il volto chiaramente insoddisfatto e le braccia incrociate sul petto imponente.
Faticava quasi a prendere il respiro, tanto mancava l'aria in quel luogo a cui mi ero arresa.
Il suo demone invece lo seguiva a distanza, a passi lunghi, tenendo gli arti distesi presso i fianchi e le mani impegnate a rigirarsi due monetine nelle tasche della giacca a quadri.
C'erano istanti in cui si facevano troppo ravvicinati nella presenza, tanto da risentirsene entrambi e il ragazzetto raggelato si voltava di scatto con il volto oscurato dalla coscienza di ciò che stava accadendo; dischiudevano le fauci, ghignando, con lo sguardo fermo, nostante il vuoto; occhi negli occhi, iniettati di sange.
Era accaduto diverse volte dalla sua entrata in scena.
Il mio demonio aveva una vocina sottile e fastidiosa, un sibilare distinto da tutto il sottofondo costante, imprecava, dissentiva, e mutava nelle forme, plasmando il suo starsene li come una stoffa sacra che si fonde e diventa carne chimica adosso ad altri. Quando si stancava di marcare, il mio demonio, lo faceva soltanto per lasciarmi più tempo in compagnia del mio errore; al suo ritorno la caduta sarebbe stata tremendamente più dolorosa e bruciante.
Non erano pericolosi poichè erano demoni del passaggio, i demoni del dinamico salto da vita a vita, quelli che seguivano solo coloro che avrebbero potuto sopportare, al termine dell'esistenza terrena che stava accadendo loro, un cambiamento importante per la prossima rinascita.
La pensavo a quel modo.
Non avevo mai osato chiamarlo demonio fino a quando non conobbi lui.
O lui riconobbe me, sarebbe più accorto dire.
Ci siamo ritrovati a parlare di noi, nudi nella notte. Con i corpi vestiti, di confessioni buie, ce ne stavamo lì, a due passi dal bar, come estranei alle nostre stesse vite.
Mi sale al pensiero un vecchio libro, e
Il corpo è il fantasma della materia
(Il grigiore del cogito, esistenza passiva!)
Lo spirito è il fantasma del corpo
(Lo splendore della ragione)
L'anima è il fantasma dello spirito
(Il bagliore dell'intelletto)
La luce è il fantasma dell'anima
(Il fulgore della sapienza)
La verità è il fantasma della luce
(L'immacolato candore della contemplazione)
Uno dei temi più discussi e dibattuti di questi tempi è quello delle "parolacce" che vanno sempre più diffondendosi, dopo aver rotto i muri dell'ambito confidenziale, familiare, amicale. Non vi sono distinzioni ne di età ne di luogo, così l'epiteto volgare, l'insulto, l'ingiuria, vengono espressi sia in pubblico che in privato senza ritegno, in ogni rapporto, ad ogni livello e, cosa più dolorosa, persino tra genitori e figli.
Ho sempre ritenuto che la parolaccia fosse un modo indegno di scaricare le proprie tensioni, un piccolo retaggio di inciviltà che l'uomo si è trascinato dietro nel corso dei secoli, senza riuscire mai a liberarsene, nonostante gli altissimi livelli di conoscenza e di civiltà raggiunti.
Ha imparato a mettere il freno alla propria istintività, con l'aiuto dell'esercizio educativo che viene impartito fin dalla tenera età; tuttavia non v'è chi non si accorga che pur mettendo tappi ben saldi sulla bocca, a tempi e luoghi alterni, la parolaccia riaffiora.
Ora io non voglio mettere a fuoco il cammino che l'uomo ha compiuto per raggiungere l'attuale grado di civiltà; mi pare eccessivo e non pertinente; però non è difficile capire che essere civili è faticoso, comporta un impegno costante di apprendimento e di controllo su di sè che richiede uno sforzo senza tregua, a partire dalla nascita e durante tutto il percorso esistenziale.
Rapportarsi civilmente, evolversi comporta una costante attenzione per la ricerca della giustizia, controllando la propria intolleranza, cercando sempre di mantenere il dialogo chiarificante a proprio favore, senza annientare l'altro come a volerlo cancellare con una sola parola perché l'insulto uccide la dignità ed ottenebra l'onore della persona, anche se per un breve istante.
La parolaccia è una sintesi, un concentrato d'accusa e di calunnia, espressi senza pudore e senza misurarne la portata.
Con vari eufemismi l'espressione "figlio di..." l'ho sempre sentito dire, anche da
Già nel 1500, Pietro Aretino, che morì infatti a Venezia nel 1556, ebbe a dire una frase emblematica: "I veneziani vuole robbe sode e non petrarchescherìe", come a dire che i Veneziani vogliono donne vivaci e di sostanza, alludendo forse, di contrasto, alla immagine irreale e mitizzata della donna, cantata da poeti suoi corregionali. In effetti la donna veneziana era molto presente nella vita sociale, di cui quella famigliare era solo un aspetto. Mi riferisco certamente alle donne del patriziato, le quali accedevano spesso ad alti livelli di cultura. Elena Lucrezia Cornaro Piscopia è stata la prima donna al mondo a laurearsi, in filosofia, nel 1600, presso l'illustre università di Padova; un'insegna in pietra, tutt'oggi affissa in prossimità del Palazzo Comunale, ne ricorda l'evento.
Sempre nel secolo precedente, spicca quale unica figura di rilievo, la cortigiana detta "honesta" Veronica Franco, letterata, che ha lasciato una bella collezione di sonetti e che viene tramandata come donna colta, molto ricercata anche per la sua intelligenza. Oltre che per prestazioni costosissime.
Ma anche alle donne appartenenenti a quella che potremmo definire oggi "la borghesia", ossia alle mogli dei mercanti e dei " banchieri" era attribuito un ruolo sociale rilevante soprattutto nell'organizzare incontri e feste (c'era l'usanza diffusa nel '700 di organizzare serate di gioco da tavolo e salotti di conversazione, nelle abitazioni private) durante le quali uomini e donne scambiavano liberamente e con pari considerazione, le proprie opinioni. Le commedie goldoniane sono un esempio di questo vivere sociale di scambio ( che culminava nel periodo di Carnevale con l'apertura di tutti i teatri della città) e di contrapposizione tra uomini e donne, anche se il Goldoni parteggia apertamente per l'acume e il senso di ironia delle donne della sua città. Non a caso egli scriverà la commedia "Le morbinose", ossia le briose, le donne di buon umore.
Ri
Scrivo queste notarelle un po'divertenti sul nostro Carlo Goldoni, grande commediografo veneziano del 1700, analitico e spietato ironico della borghesia mercantile e della aristocrazia taccagna e boriosa del suo tempo. Ancora molto rappresentato nei teatri di mezzo mondo, Goldoni esercitò l'avvocatura, e con un certo successo, sia in Venezia che in Pisa, dopo essersi laureato all'insigne università di Padova, università antagonista di Bologna, in fatto di studi giuridici. Goldoni abbandonò l'avvocatura per dedicarsi solo al teatro, con una commedia esilarante, " L'avvocato Veneziano" , con la quale egli diede l'addio alla toga. Ricordiamoci però ch'egli per tutta la vita si qualificò sempre come" avvocato veneziano". La commedia è assai curiosa perchè parla di un avvocato che si innamora della cliente avversaria, con tutto il traffico e i problemi deontologici che la faccenda poteva comportare anche in quei tempi. C'è una frase grandiosa, nel testo, che Goldoni fa dire al suo protgonista, con calcata serietà, ossia : "co l'avvocato xe in renga" - quando l'avvocato svolge l'arringa- "xe impiegà tutto l'omo", ossia tutto l'uomo è preso.
La toga, dunque, annulla e giustifica.
La commedia ha uno scopo didattico giuridico manifesto. All'epoca la scuola forense veneziana era tutta orale, anche per il diritto civile. E tanto era l'autorevolezza di questa scuola che gli avvocati del tempo potevano esercitare oralmente presso anche altre corti foreste, fuori del Veneto. Nel testo goldoniano l'avversario dell'avvocato veneziano è il dottor Balanzone, che rappresenta l'uso forense bolognese, ossia la difesa scritta, caricata e, visto il gusto dell'ironia goldoniana, messa in caricatura. Balanzone si dibatte in libelli scritti, trasudanti latino. Si confronta e scontra con l'avvocato veneziano che invece si prepara la difesa solo oralmente, per una causa di eredità da trattare davanti al tribunale di Bologna. Insomma una commedia assai gustosa e vivace, condita
L'opera "Filumena Marturano" del 1946 di Eduardo De Filippo è forse la più conosciuta del grande drammaturgo napoletano. Ha in sé la rottura di diversi schemi che caratterizzano il teatro del dopoguerra e pone le basi ad un modo diverso di concepire il teatro come premessa di sviluppo della vita sociale e non già come intrattenimento piacevole davanti ad un fatto di cronaca oppure rispetto ad un dramma dai contenuti e dall'intreccio interessante ed avvincente. Entra nel tessuto sociale dell'Italia di quel tempo dal momento che sia le autorità ecclesiastiche che politiche ne fecero parte attiva. Pio XII ospitò la compagnia in San Pietro per una breve rappresentazione (la preghiera alla Vergine) esponenti governativi e parlamentari assistettero ad una rappresentazione. Da dove nasce questa attenzione per quella che era solo un'opera teatrale? L'idea non era neanche troppo originale, tutto in teatro si ripete e si rinnova: storie di prostitute mantenute e riabilitate si hanno ne "La signora delle camelie" da cui si ispirò Verdi per La Traviata" in Pirandello ne "L'abito nuovo" ed anche De Filippo stesso aveva utilizzato il tema nella piece "Sarà stato Giovannino" da cui si trasse anche un film del 1935 dal titolo "Sono stato io". Il dramma nasce da una consuetudine cattolico-perbenista di perfezionare un matrimonio in extremis di una donna perduta, anche questo argomento già visto in cinema nel 1942 con "Stasera niente di nuovo" in cui il pathos e la commozione per una donna che muore munita dai conforti religiosi viene salvata e riscattata da una vita aspra. Ma Eduardo rivolta le consuetudini sceniche e rinuncia alla scena madre e rende la malattia finzione ma porta la scena al momento immediatamente successivo: quando tutto è già accaduto e Filumena si è già alzata ed è già il tempo di litigi e recriminazioni. La storia in breve è questa: Domenico Soriano, figlio di un commerciante proprietario di una pasticceria e che a sua volta ha incrementato la
[continua a leggere...]Guido delle Colonne, Historia destructionis Troiae, l. XXXIII passim
"È vero, signor re, che dopo la conquista di Troia della quale evidentemente io sono stato autore, con le mie navi onuste di molte ricchezze d'oro e d'argento sottratte ai Troiani e con la compagnia di molti amici mi affidai al mare e navigando felicemente per più giorni approdai sano e salvo in un porto comunemente chiamato Mirna, dove sbarcai con i miei per godere della terraferma e lì al sicuro per qualche giorno indugiai senza che nessuno molestasse me e i miei. Poi mi allontanai da quel porto e con il vento favorevole arrivai sano e salvo nel porto detto Calastofago, dove insieme con i miei mi fermai per alcuni giorni. E poiché venti fallaci mi facevano pensare a tempo bello, lasciai il porto e navigai felicemente per i tre giorni successivi. Poi d'improvviso prese vigore una tempesta di venti e il cielo da sereno si fece subito oscuro: e con incerta navigazione mi sbattè ora qua ora là con una violenta tempesta. Alla fine mi costrinse a deviare malvolentieri in Sicilia, dove ho patito moltissime sofferenze e fatiche. C'erano infatti in Sicilia due re fratelli, dei quali uno si chiamava Stregone e l'altro Ciclope. E questi due re assalirono me e i miei. Vedendo le mie navi piene di tante ricchezze ne fecero bottino e si presero tutto quel che vi trovarono, numerosi e violenti come erano. E anche peggio, perché sopraggiunsero i loro due figli, molto valorosi e bellicosi, che si chiamavano Allifan e Poliremo. Questi assalirono i miei soldati, ne uccisero cento, catturarono me e Alfenore, uno dei miei compagni, e gettarono me e lui in carcere in un castello. Questo Poliremo aveva una sorella, bella e vergine, e Alfenore appena la vide ne arse di passione e fu preda totale di questo amore. Per sei mesi dunque Polifemo mi tenne prigioniero in Sicilia. Ma alla fine ebbe compassione di me e mi liberò con Alfenore. Questo Poliremo poi mi diede anche benefici e onori. Ma Alfenore per la viol
Questa sezione contiene un insieme di opere di saggistica