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Racconti su sentimenti liberi

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Silenzio, solo silenzio.

Il mare accarezzava i suoi sogni, che viaggiavano ancor più lontano dei suoi pensieri. Volgeva lo sguardo all’orizzonte nero, gustando una luna troppo contrastante col suo umore. La scogliera a strapiombo sul mare era fredda, non la vedeva, riusciva solo a percepirla al tatto, era tutto nero ciò che la circondava, si sentiva avvolta in un abbraccio gelido. Non sarebbe stata la prima volta che sentiva sua quella sensazione di perenne freddezza, il suo cuore più duro di un diamante non brillava per le sue mille sfaccettature. Opaca la notte, opaca la sua mente, opaco il suo cuore. Solo la luna brillava. Stiracchiò un braccio, si sdraiò ascoltando ancora le onde. Una taciturna calma, solo il frangersi del mare sulla roccia nera. Aspettava, una parola, un volto, una carezza. Aspettava, un pensiero caldo, un amore ancorante. Aspettava. Ogni desiderio moriva come il moto lento del mare, si spegneva come le stelle al mattino, eppure era notte. Lo aveva avuto, era suo, ma non poteva esserlo. Lo aveva amato, forse l’amava, ma non poteva farlo. Urlò nella notte, quel poco di rabbia che ancora tratteneva tra le mani, come sabbia le scivolava via, l’ultimo appiglio alla vita, volava, sparso dal vento gelido. Anche le lacrime, che le rigavano il volto, congelavano nell’impatto con la brezza marina, forse, quelle lacrime erano solo sinonimo di esistenza. Forse, il dolore la rendeva ancora reale, perché tutto ciò che la circondava grondava inesistenza. Un’ultima eco della sua flebile voce si schiantò sul mare, pensava ancora. Amava. Era consapevole di ciò a cui sarebbe andata incontro, ma l’aveva fatto, aveva continuato a trattenere un contatto razionale con se stessa, ma tutto era stato più forte del suo arido tentativo d’opposizione. Amava. Giustificava con forza le sue azioni, nulla era plausibile al fine di accettarsi di nuovo. Si odiava. Trasse un piccolo frammento di specchio dalla tasca, il riflesso biancastro della luna brillò, immediatamente, s

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   6 commenti     di: Rosita Catillo


La mia amica Andy

...
Tornammo a casa a piedi, e del resto non avremmo potuto far altro, considerando che al momento di uscire non sapevamo bene come saremmo rientrate. Era giugno, e la sera era insopportabile rimanere a casa. Quel vecchio ventilatore non ne voleva sapere di funzionare, le zanzare molestavano ogni attimo di quiete, i miasmi di frittura del ristorante giapponese provenienti da basso rendevano l'aria irrespirabile, e su tutta la città era calata una cappa di afa ad acuire tanto malessere. Da giorni, infatti, avevo una tremenda emicrania, dovuta alle incalzanti consegne e alle lunghe ore sulla macchina per cucire. Trascorrevo tutta la giornata fra scampoli di pregiatissimi pizzi e merletti, di broccati e di sete finissime e alla sera ero distrutta. Finché m'impegnavo a cucire o ad abbozzare gli abiti di qualche nuovo allestimento la cefalea rimanava di sottofondo, pulsante, pressante nelle tempie come se nella mia scatoletta cranica stessero tenendo un concertino jazz. Al momento di concedermi un meritatissimo stacco, il dolore si diffondeva fluido in senso sagittale, a condensarsi grave e lancinante sulla nuca. La vista mi vien meno. Tutto perde colore. Pensili e dispense della cucina davanti a me improvvisamente si sformano come in una vecchia pellicola che si brucia. Mi falliscono i sensi e inerme cedo al male in dolcissimo deliquio.
Ero sola la prima volta che accadde. Andy mi trovò bocconi a terra in mezzo al corridoio. Due passi incerti e... giù.
Lentamente.
Avevo cercato di reggermi al piccolo scrittoio sotto allo specchio, ma mi era riuscito solo di rompere una ballerina in porcellana. Non so bene quanto tempo trascorse, era tutto così irreale. Il cervello, meglio che in sonno, in totale standby. Era la prima volta in assoluto.
Tempo due settimane, e giù di nuovo; e poi ancora, e poi ancora.
-"Devi farti visitare, Magda! Tu non stai bene!", mi disse l'ennesima volta più allarmata che mai.
-"Chìssene, a me piace!", le risposi ancora intonti

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   2 commenti     di: Enola Gay


Via del Mascherino

Via del Mascherino è una via romana nei pressi di S. Pietro, non lontana da via della Conciliazione che la Guida di Roma definisce "retoricamente monumentale". Come questa, via del Mascherino è una via fredda, scarsamente frequentata. Non ha un'anima. Pochi i negozi: due di arredi sacri, una libreria, un'ebanisteria, un'agenzia di viaggi. Ma quando erano in piedi i Borghi che avevano una vivacissima anima popolare, via del Mascherino era stretta nell'abbraccio di vicoli e vie che si diramavano da Borgo Nuovo e da Borgo Vecchio. Allora io ero una bambina e già il nome della via"Mascherino" colpiva la mia immaginazione. Ma non era una questione solo di immaginazione. La via aveva per me un grande fascino: vi abitava il fratello di mia nonna, uno scalpellino di vecchio stampo, con la sua famiglia. La moglie Amelia che io chiamavo nonna Mella, era molto dolce con me, una dolcezza che forse le stemperava la pena che si portava dentro: le era morta, ventenne, una figlia bellissima, con una carriera di cantante lirica assicurata. Aveva la classica voce d'angelo e come un angelo era volata via da questa terra.
Nonna Mella era piccolina, vestiva eternamente di nero, una gonna lunga fino ai piedi, una giacca e una lunga sciarpa che le serviva da copricapo quando andava in chiesa. Il tutto, leggero d'estate, pesante d'inverno. Qualche volta andavo a casa sua e mi sembrava di andare in una sorta di Eden. La casa era piccola e povera ma molto originale. Una camera da letto matrimoniale con pochi mobili ottocenteschi, una cameretta per i due figli maschi con mobili di fortuna. Ma nonna Mella l'aveva resa attraente con cuscini di lana, messi qua e là, fatti da lei con gli avanzi della lana che aveva adoperato per fare calze e maglie per i suoi figli. Una piccola stanza mi incantava, mi emozionava sempre: la stanza di Tina, l'unica figlia femmina che le era rimasta. Il letto non aveva spalliere. Era una specie di cassapanca tutta ricoperta di cuscini multicolori. Davanti a que

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Punti di Sospensione

La paura di approfondire spesso è tanta, la paura di non poter più tornare indietro, di affezionarsi troppo ad una persona, di dipendere da lei, di dover un giorno trovarsi soli a viso scoperto davanti all'inevitabile. La paura di crescere, di essere fragili o di essere anche troppo forti accantonando a torto quelle piccole debolezze che rendono il tutto più vulnerabile affermando però la natura più vera dell'essere umano. La paura di diventare santi come anche quella di trasformarsi in mostri incapaci di condividere l'amore, anche solo un gesto d'affetto. La paura di ridiventare santi scoprire di essere quello che in realtà si è sempre ammirato negli altri. Crescendo l'autostima si sgretola a suon di autoelogi, ci si annebbia nel più sfrenato egocentrismo, nulla è portato a durare per sempre. La paura di regredire ad uno stato di ermetismo teso all' autoconservazione, la paura di non essere più in grado, un giorno, di poter dire "ti amo" guardando negli occhi, o di rivolgersi a se stessi non essendo abbastanza consapevoli dell'apatia che rende prigionieri in un mondo che ruota troppo in fretta. E anche la paura della consapevolezza. La paura di esistere di essere, di capire troppo o non abbastanza, di ritrovarsi a piedi nudi in spiaggia e di non riconoscere la bellezza di ogni singolo granello e di ogni nota dell’anima. La paura di guardare negli occhi e scoprire che è stata tutta una finzione, che tutto ciò che di più bello e commovente, era frutto di uno stereotipo. Di aver mangiato quel frutto troppo a lungo, di avere controllato tutto nei minimi dettagli per cosa? ricominciare, in un circolo vizioso dove le esperienze si ripetono a intermittenza di uno o più anni, in un ciclo che porta all’esasperazione anche i nervi più sani, in un travaglio esistenziale che ti impedisce di accettare i sentimenti in uno stato di totale genuinità. La paura di aggrapparsi eccessivamente alle cose, alla sensazione di un attimo, la paura di non aggrapparsi abba

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   5 commenti     di: Simone Guerra


Il luna park

Ecco fatto, sono arrivati.
Come ogni anno.
Si sono messi nello spiazzo vicino  casa mia, al solito.
È un luna park molto particolare questo.
Il  proprietario, ormai lo conosco da tanto, cambia ogni anno i  giochi, cambia le attrazioni. Spera di attirare gente.
Sono un fanatico del luna park, l’ho sempre frequentato, da piccolo, con mio padre.
Da grande coi figli.
M’hanno sempre attirato le luci, le locandine pubblicitarie colorate, con  quei colori sfacciati, violenti, esagerati e i giochi … ma soprattutto la gente.
Mi interessa vedere chi gira per i luna park.

Questo anno m’ha colpito una signora che evidentemente deve avere una gran passione,  almeno quanto la mia.
Passa molto tempo lì, e gioca.
M’ha proprio colpito, sì sì.
Ogni giorno aspetto che arrivi.
È particolarmente attratta dall’otto volante; un otto volante molto diverso dai soliti,
Ha quattro  carrozze monoposto ed è consentito solo in casi rari, non ho mica capito quali, occuparle tutte e quattro.
Di solito solo due carrozze  sono occupate, a volte tre.
Alla signora interessa salire su una carrozza e non le importa se siano o meno occupate le altre.
Lei deve andare sull’otto volante.
Mi sembra d’aver capito, sentendola parlare col proprietario, che vorrebbe avere l’otto volante tutto per sé, ma non ci riesce quasi mai anzi spesso rimane a terra a guardare in su…
E la gente gira…
Si vede che è sconsolata per non poter salire,.
Si vede che è delusa.
Vorrebbe sempre  provare quell’ebbrezza.
Andare su e giù a velocità quasi pazzesca con il cuore che scappa…
E sentire quel motore che come una fiera romba, …al quale attaccarsi, forte, potente, padrone.

Se riesce a salire su quel suo mondo mobile, allora poi può anche rilassarsi un po’ con gli altri giochi… sennò…niente.
Se lo guarda…malinconica…sta un po’…e se ne va

E  gli altri giochi?
Ogni tanto li guarda, alcuni attentamente, altri di sfuggita.

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Unico

Mi era impossibile stare lontano dall’acquedotto. Dal basso mi pareva tanto imponente, altezzoso tra le decine di costruzioni così quadrate o rettangolari e con lo stesso tetto a triangolo. La sua cilindrica figura emergeva su ogni altra offrendo al mondo l’immagine perfetta del “diverso”; tale e quale a come mi sentivo io: difforme, scartato da tutti per via della mia piccola statura e del corpo troppo … come dire … traboccante. Sembrava che il mio nome l’avessero tutti dimenticato e quella parola, “ciccione”, mi rimbombava dentro come un pugno indaffarato a rompermi l’anima. Avevo desiderato un amico con tutte le mie forze, mio Dio quanto l’avevo cercato! Qualcuno che mi stesse vicino, semplicemente accanto affinché il mio sguardo potesse riempirsi di un’immagine sorridente, colorata … certa, invece, i miei occhi rimanevano vuoti del posto disponibile accanto a me. Un amico ti regala pura compagnia e solo ad averlo vicino ti fa sentire importante, così quel verde intenso che all’inizio dava luce ai miei occhi, piano, piano si sbiadiva della mia delusione finché scomparve completamente quando, mi resi conto che un amico non è in vendita, te lo devi conquistare ed io ero ben lontano da qualunque competizione; ero un “fuori gara”, non avevo titoli, ero meno che una nullità e un niente… alla fine dovetti arrendermi. Era una partita troppo dura per me, ogni volta ne venivo fuori esausto, frustato, come m’avessero riempito di botte; pugni andati così a segno che sembrava dilatassero ancor di più il mio stomaco già ingrandito.
Fu proprio dopo uno di questi crolli che mi ritrovai abbattuto, sfinito, disilluso, un piede seguiva l’altro senza meta poiché mi pareva che nulla fosse apprezzabile e, nel grigiore di quella giornata, tutto il mio essere, per caso o per vento, si forse per il vento che mi aveva spinto verso quella direzione, mi ritrovai sdraiato su una panchina rossa. L’unica panchina rossa, sotto l’unica

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sorrisi appannati

(e tu vedi davvero)




mi piace quando mi sveglio affacciarmi alle finestre.
questo è uno strano mondo, e vale la pena di cogliere ogni suo piccolo particolare.
appena aperti gli occhi guardo dalla finestra in parte al mio letto i passanti che come abitanti d’un formicaio si affrettano verso le loro destinazioni.
poi metto su il caffè ed aspettando che salga, mi perdo a guardare una signora.
son vent’anni che la guardo e son vent’anni che lei stira vicino alla finestra… ne son successe di cose in tutto questo tempo, anche lei è invecchiata, ma è rimasta sempre lì a stirare, con la stessa delicata serenità…immutata.
dall’altra parte dell’edificio si affaccia la casa di una signora molto triste.
è sempre lì; in una bella casa ridotta a catapecchia per noncuranza, a piangersi addosso su quello stesso divano bucato. passa il tempo, ma le lacrime non smettono mai di percorrere il suo viso, copiose. il suo sguardo per un solo istante si fa vuoto, ma poi puntuale torna a quella solita tristezza.
non c’è più tempo. il caffè gorgoglia, è tempo di andare e sono già in ritardo.
questo è uno strano luogo.
per arrivarci percorro strade divenute cimitero di foglie ingiallite, quelle sugli alberi invece arrossiscono imbarazzate.
è una mattina grigia e triste, c’è un velo leggero di nebbia ed il cielo acromatico lascia un senso di vuoto nel cuore, il vento pugnalava la carne ed invita in un ballo colmo di grazia i rami degli alberi che di tanto in tanto lasciano cadere le foglie in una danza di morte.
camminando in dolci dimensioni dai colori caldi (nonostante l’aria sia già fredda) tra le foglie scorgo appena, celato dal riflesso di finestra, un signore che immobile, guarda le persone che scorrono per le strade come l’acqua dei torrenti, in quell’esplosione di colori, incantato.
ha notato che lo guardavo, con i miei capelli del colore dell’autunno, tra i tanti ciechi e mi ha sorriso come si fosse improvvisamente desta

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   1 commenti     di: c m



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