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Racconti su sentimenti liberi

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Il cuore del corvo- terza parte

Bianchi. Tutto intorno a me, c'erano solo fiori bianchi. Soffiava un vento gelido che mi scuoteva fin nelle ossa. Ero sola, e avevo paura. Urlai, ma non emisi alcun suono. Ero morta?
"Ti sei persa?"
Conoscevo troppo bene quella voce alle mi spalle. Mi voltai.
"Papà!"
Mi sorrise. I capelli brizzolati ribelli, la barbetta grigia, e le mani in tasca. Era esattamente come lo ricordavo.
Corsi ad abbracciarlo, ma più mi avvicinavo, più lui si allontanava.
"Perché?" Singhiozzai fra le lacrime.
"Devi ritrovare la strada"
"Che significa?"
Non capivo. Ero confusa.
" Non ti aggrappare ai ricordi, coloro che hai amato saranno sempre con te, fino a quando tu li ricorderai. Ti voglio bene piccola mia"
Il mio cuore si fermò. Sentii una fitta trapassarmi il petto, e le gambe cedere sotto il mio peso.
" Mi manchi tanto papà.. Ti prego.. ti prego.. non mi lasciare di nuovo."
Scosse la testa.
"Guarda le stelle. Era un momento solo per noi due. Quando le guarderai, e penserai a me, io ti sarò accanto. Esattamente come questa notte."
Iniziò a muovere dei passi silenziosi verso di me, ed in breve mi fu accanto. Allungò il braccio, e mi accarezzò.
Il suo tocco delicato e pieno d'affetto, mi riscaldò l'anima.
"Sii felice"
Si avvicinò, e mi sussurrò delle parole all'orecchio.
Sentii le palpebre pesanti. Cercai di combattere contro quell'improvvisa sonnolenza, per restare ancora in quel limbo incantato, ma fu tutto inutile. Mi addormentai.
Aprii gli occhi incerta, e mi tirai a sedere.
Era stato solo un sogno? Uno scherzo del mio inconscio?
Decisi di mettere da parte il mio scetticismo, e pensare che quell'incontro non fosse stato solo frutto della mia immaginazione.
Mi guardai intorno, e mi accorsi di trovarmi in un luogo a me sconosciuto.
Ero sul letto di una stanza piuttosto buia. Alla mia destra c'era una porta bianca semiaperta, mentre alla mia sinistra una grande scrivania di legno scuro. Notai che vi era appoggiato un vaso con dei fiori, e ricord

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   4 commenti     di: Rossella Panna


Il mondo di Giuliatta e Romeo. Parte prima

Giulietta e Romeo erano cugini, avevano la stessa età e andavano perfettamente d'accordo nell'organizzare le loro giornate e i loro giochi. Giulietta non era il vero nome della bambina. Glielo avevano dato i suoi amici, ispirandosi all'autenticità del nome di Romeo.


Romeo andava a casa di Giulietta e Giulietta, molto più spesso, a casa di Romeo che era una casa particolare, affascinante. Incastrata fra le mura aureliane e un alto muro in mattoni che delimitava il confine di un Istituto religioso, in origine doveva essere stata una chiesa perché vi si accedeva da un portico che aveva sulla parete due grandi affreschi di santi, posti l'uno a destra e l'altro a sinistra della porta d'ingresso. Sul pavimento del portico i due ragazzi avevano disegnato, col gesso, il tracciato del gioco della "campana" sul quale saltellavano come allegri uccelli. Davanti alla casa si estendeva un vasto piazzale che terminava con un orto recintato da una rete metallica insormontabile.
Il cancelletto d'ingresso era sempre chiuso con un robusto lucchetto; la chiave era sempre sotto il controllo dei genitori di Romeo che non permettevano ai due cugini di entrare da soli nell'orto non solo per evitare che i loro piedi vandalici calpestassero le molte verdure, ma soprattutto perché temevano che i temerari ragazzi finissero dentro una grande vasca sempre piena d'acqua. Ai ragazzi il divieto non pesava. All'orto andavano spesso con il padre di Romeo, a cogliere la lattuga per la cena. Quando Giulietta andava a casa di Romeo e si faceva tardi, gli zii la trattenevano a dormire da loro. Erano serate indimenticabili!
Nella bella stagione i ragazzi, cenato in fretta, si scatenavano in cose frenetiche sul vasto piazzale. Arrivavano fino al cancelletto dell'orto e provavano un po' di paura perché era buio pesto; ma bastava guardare la luce discreta che si diffondeva dalle finestre della casa perché ogni timore scomparisse. Quando c'erano le lucciole, si incantavano a guardare i loro vol

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Giulio e Saverio: o delle convergenze parallele

Saverio.
La lettera tanto attesa era arrivata.
Il mittente era scritto in rosso in alto a destra. Centro di studi Genetici. Via Dalmazio Birago 20, 73100 Lecce.
Saverio respirò profondamente e si appoggio sullo schienale della poltrona in pelle, nell'ufficio della Grandi Lavori Spa a Milano. Erano state tre settimane d'inferno, ma ora tutto si sarebbe chiuso. Avrebbe saputo la verità.
Per l'ennesima volta rivisse quella scena.
Stazione Porta Genova. Fermata della linea 2 del tram.
Una signora anziana sulla settantina vestita in modo elegante con una aria dolce ma decisa gli mise una mano sul braccio.
"Lei deve essere il figlio di Giulio Casavola. Io ho conosciuto suo padre".
Lo aveva fissato da quando era salito sul tram. Ed era scesa con lui.
"Guardi, si sbaglia. Io mi chiamo Saverio De Simone e il signor Casavola non so chi sia".
"È di Lecce, non è vero? Lei è tale a quale a lui, una goccia d'acqua.".
"È vero io sono nato a Lecce, ma mio padre si chiamava Luigi".
"Lei gli rassomiglia veramente tanto. Giulio è stato un amico di mio marito e per un certo tempo anche un mio caro amico. Se viene a casa mia le faccio vedere delle foto di quando aveva quarant'anni. Sembrano foto sue, a parte l'abbigliamento."
Dalla busta della spesa, prese lo scontrino, dalla borsa una penna; scrisse sul retro un numero di telefono e glielo porse.
"Mi chiami, così viene a casa mia e sarà d'accordo con me".
Arrivò il suo bus e fece per salire, ma prima lo salutò.
"L'aspetto, allora.".
Lesse la perplessità e lo smarrimento sul suo viso.
"Tu sei il figlio di Giulio, un uomo eccezionale". E, passata al tu, scomparve dietro le portiere dell'autobus.
Confuso, turbato, con il foglietto che gli bruciava in mano s'incamminò verso casa. Al primo cestino lo buttò via.
A casa fra i ragazzi, la cena e la partita di Champions non ci aveva pensato più. Ma una volta a letto, tutto gli ritornò in mente. Non ne aveva parlato con sua moglie. I rapporti fra le

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   1 commenti     di: luigi bosco


Al Bar

Nel bar quella sera c'era una nebbia densa di fumo, gente che spipacchiava sigarette fregandosene
di quel vecchio cartello ingiallito che esortava a non farlo. La sera nel bar vedevi volti segnati
dalla giornata appena trascorsa, persone vestite da lavoro sudice ma felici, altri che invece
trangugiavano alcool per dimenticarsi che domani mattina dovranno di nuovo svegliarsi per lavorare,
si guadagnavano quel piccolo spazio di libertà con un bicchiere in mano. C'era persino chi tentava la sorte,
fasulla chiaramente, perchè in quei gratta e vinci è racchiusa tutta l'ipocrisia di questo mondo.
La vana speranza a chi la speranza l'ha persa da tempo. Eppure grattavano, elencando tutto ciò che avrebbero
fatto se fossero stati loro i fortunati. Sogni vani, materiali di chi certe cose non se le sarebbe potuto
permettere nemmeno se viveva altre quattro vite. Forse il bello era quello, l'illusione momentanea i potenziali
miliardari che erano con quella moneta in mano mentre scavavano il biglietto. O forse l'infelicità e la frustrazione
di non poter cambiare niente di quello che vivevano li uccideva, allora bevevano e compravano un altro gratta e vinci.

   0 commenti     di: damiano86


Dimmi che ti batte ancora forte il cuore

Era attaccato alla rete e guardava con quegli occhioni sbarrati. Nell'età che lo sguardo sembra voler catturare il mondo, insaziabile di novità, mentre la meraviglia registra avida ogni momento. Osservava quei corpi dalla pelle scura. Gli uomini dall'espressione persa nel nulla; le donne attente a piccole faccende; i bambini a giocare con niente. E quelle case, così squadrate e spoglie. Come anonime scatole. L'uomo gli si avvicinò, posandogli la mano sulla testa. Gli accarezzò i capelli. Nell'aria c'era una leggera brezza e un forte profumo di mare.
- Babbo, cos' hanno fatto quelle persone?
- Niente...
- E allora perché stanno chiusi lì dentro? Sono in prigione?
- In un certo senso...
- E noi perché siamo liberi? Siamo più bravi?
- No, Andrea, solo più fortunati.



Camminavo trasognato e senza meta sulla battigia. Soffiava vento caldo da sud. Scirocco credo. E portava con sè polvere d'Africa. Di tanto in tanto mi entrava negli occhi. Così da scuotere la mente dal torpore che la imprigionava. E mi diceva parole conosciute. Disperate. Parole di rabbia. Tentavo di scacciarle, pensando ad altro. Invano. Loro tornavano insistenti a soffiare. E pensavo all'età della mia disperazione. Della mia rabbia. Quando nessuno sembrava ascoltarmi. E allora mi dicevo: chissà come sarà laggiù, a due passi da noi. Così lontano dagli occhi. Non hanno anche loro diritto di sedersi al banchetto del mondo? Basta stringersi un po': si trova posto per tutti. E, in ogni caso, ne vantano il diritto. Lo reclamano a gran voce ormai. E intanto gli occhi s'inumidivano. Ma resistevo. Tentavo di allontanare quei suoni. Non pensarci, mi dicevo... è solo polvere d'Africa.



Non erano più gli anni della Milano da bere. Dei socialisti che mangiavan

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Notte

Le lancette dell'orologio della cucina spezzano il silenzio della notte.
Lei è stesa in un letto troppo grande, guardando quel soffitto di cui ormai conosce ogni particolare.
Si alza, prepara un tè caldo. Forse l'aiuterà.
La luce della lampada riempie i suoi occhi.
Apre la finestra, assaporando così l'aria fresca della notte.
Il profumo speziato del tè caldo riempie la casa, mentre le sue labbra lo assaporano.
La luce è di nuovo spenta.
Lei osserva nuovamente il soffitto, aspettando che il sonno l'avvolga.

   7 commenti     di: Eva


Come Fenici

Leonardo si sistemò la cravatta mentre, davanti allo specchio, si esercitava a produrre il sorriso più convincente che riusciva a fare. Il risultato non era dei migliori, anche perché ognuna delle rughe che si formavano sul suo volto per lo sforzo era scolpita dal ricordo di ciascuno dei momenti, nei precedenti sei mesi da quando si era trasferito a Firenze, in cui un suo dipinto era stato rifiutato dall'importante collezionista o gallerista di turno.
Leonardo è un pittore, sin da quando, all'età di cinque anni, prese un pennarello indelebile e disegnò i baffi alla sua sorellina, di due anni più piccola. In quel momento, anche se non se rese conto immediatamente, decise che avrebbe dedicato la sua vita all'arte, magari con obiettivi un po' più altisonanti del disegnare i baffi sulla faccia delle persone. Cinque anni di liceo artistico e altrettanti anni di accademia delle belle arti dopo, era a Firenze, a suonare alla porta dei più famosi collezionisti d'arte in cerca di fortuna. Sei mesi dopo era ancora a quel punto, con zero dipinti venduti e, ovviamente, neanche mezzo contratto. Leonardo aveva cominciato a pensare di aver commesso qualche errore di valutazione nel pensare che il disegnare i baffi alla sorellina fosse indice di un estro creativo redditizio.
Aveva deciso che quello sarebbe stato il suo ultimo tentativo e, in caso di fallimento, avrebbe buttato il pennello e la matita e sarebbe tornato a casa a Milano, magari per diventare professore. Ovvio che la prospettiva non lo eccitasse granché.
Da questa premessa è facile capire il nervosismo quantificabile in rughe e tick nervosi che affollavano il suo volto, quella mattina, prima di andare a mostrare il suo ultimo lavoro al Dottor Marchi, collezionista e critico d'arte così noto a Firenze che Leonardo gli aveva attribuito l'onorevole ruolo di ultima spiaggia.
Leonardo, si è capito, non è esattamente l'uomo più deciso di questo mondo. Già quattro volte aveva tentato di trasferirsi a F

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