Il traffico scorreva lento.
Un alito di vento mi accarezzava il braccio lievemente abbronzato dal primo sole di maggio, tenuto fuori dal finestrino della mia c3 azzurra, mentre la radio faceva da sottofondo ai pensieri.
Una coppia di giovani innamorati attraversò la strada davanti a me.
Quanti ricordi…
Finalmente scattò il verde, l’auto salì di giri e ripartì mentre il Blasco riempiva l’aria con la sua Albachiara e il sole basso all’orizzonte rifletteva sui miei ray ban a specchio.
Il sole, ora mai tramontato, lasciava spazio alla brezza serale che annunciava l’arrivo imminente dell’estate e dalla strada che mi riportava a casa il panorama era mozzafiato.
Rallentai per ammirarlo, anche se lo vedevo ogni sera da anni è sempre un vero spettacolo.
L’immagine di lei e Luca che si baciavano mi gira da mesi per la testa..
Quel giorno volevo fare una sorpresa a Stella, e l’ho trovata tra le sue braccia.
Il mondo mi è crollato addosso in una manciata di secondi.
Ogni angolo di casa mia mi ricordava lei..
Quanti ricordi…
È stato più di 2 anni fa, in luglio, ci frequentavamo da pochi mesi e quella sera io e Stella eravamo proprio qui, in giardino.
L’aria era frizzante e in sottofondo vi era solo il rumore delle foglie mosse dal leggero vento estivo e nell’aria il profumo dei gelsomini.
Distesi sul prato scaldato dal sole, tramontato da poco, a guardare l’immensità del cielo comparire lentamente dinanzi a noi, abbracciati.
Mi guardò negli occhi, e io, ebbi l’impressione di perdermi in quei suoi occhioni verde smeraldo.
La sua bocca si unì delicatamente alla mia.
Minuti interminabili, minuti bellissimi.
Le scostai i capelli dal viso…
Lei arrossì…. e abbassò lo sguardo.
Le sollevai il viso con la mano.
Era bellissima..
Lentamente le feci scivolare quel leggerissimo vestitino che metteva in risalto il suo fisico scolpito da anni di pallavolo..
Mentre la spogliavo i nostri sguardi nn si
Alessandro.
La vita è composta al novanta per cento da tempo che scorre senza senso, le giornate morte, la routine.
Il restante dieci per cento, sono le volte in cui il nostro cuore batte in maniera diversa e molto spesso tutto si riduce a quelle giornate, dove in un secondo, si può rovinare una vita.
Impieghiamo tanto tempo a non vivere veramente, limitandoci a sopravvivere, rimandando a domani quello che non abbiamo il coraggio di fare oggi, sperando di trovare nel frattempo la forza per affrontare i nostri demoni.
Io in vita mia, ho cercato di trovare un senso alle cose, un perché, ma non ci sono riuscito. Poi un giorno...
Morgana
Alla fine delle superiori ho deciso di cercare lavoro, ma non è facile trovarlo, quindi passo il tempo a spedire curriculum privi di esperienza sperando che qualcuno mi dia un posto, ma la buona volontà non basta, bisogna avere le conoscenze, le spintarelle che io non ho.
Fuori è una bellissima giornata d'estate, il cielo è così azzurro che solo guardarlo mette allegria. Mi piace il caldo, ma non c'è nessuno con cui possa uscire, così scivolo nella tristezza.
Dalla finestra una leggera brezza mia accarezza la pelle strappandomi un sospiro. Di solito in estate sono sempre al mare con gli amici, ma quest'anno no, il gruppo si è diviso.
Mia sorella Ambra si è fidanzata e ha deciso di girare il mondo e questa è già una tragedia, poi se n'è andato anche Francesco, l'unica persona con cui riuscissi a parlare seriamente. Un giorno arriva e dice che parte per studiare medicina a Pisa, tutto qui.
Tutti gli altri, facevano solo spessore, accrescevano il numero del gruppo, ma non ha mai avuto un vero rapporto con loro.
Attorno a me c'è il silenzio, non c'è nessuno in casa a parte Doe, il mio amore, che sembra accorgersi della mia tristezza e mi viene in contro, guardandomi dal basso come per chiedermi perché sia giù.
Gli accarezzo la testa e lui ricambia leccandomi una mano. Si accontentano di poco per esser
COLLOQUIO SENSITIVO
-Mamma è così difficile il morire?
- Figlio mio ancora non lo sai fare!
-Spiegamelo mamma, perché io possa capire.
- È entrare in una luce dalle tenebre in cui viviamo e che al momento giusto noi abbandoniamo!
È come una rondine appena nata che sta nel nido, sfamata
dai suoi genitori sino a quando gli crescono le ali che per lei
sono la vita! Per noi sono la morte, perché la morte quando
arriva trova la nostra anima già con le ali formate pronta a
spiccare il volo per vivere la vita vera, la vita eterna!
- Mamma anch’io voglio quelle ali!
E poi ci sei tu.
Al rientro. Dai miei eccessi.
Mi piace la sregolatezza. Forse perchè si perde la cognizione del tempo. O forse solo perchè la quotidianità mi spaventa. Non che non la viva. Ma mai fino in fondo. All'improvviso fuggo.
Di notte.
Facce. Sorridenti. Vestiti impeccabili. Eppure c'è così tanta polvere. Bianca.
Occhi. Che scrutano tutto senza vedere niente. Mani.
Profumo. Di buono.
È facile sentirsi una regina quando la musica è così assordante che nessuno la può sentire l'isteria delle tue risate.
Pareti lucide. Eleganti. Freddissime. Perdo il senso dello spazio. Mi lascio portare. Non conta dove.
Sto bene con te. Forse perchè siamo uguali. O forse solo perchè anche tu fai parte del gioco.
Il delirio. Della follia.
Un'altra me. O forse io. Semplicemente.
Mi lascio cadere. In un labirinto di voci e colori. Nella mia testa un vortice vertiginoso scandisce le ore, i minuti e i secondi che mi separano dalla realtà.
Mi muovo sicura, in questo quadro da cui non vorrei uscire.
C'è tempo per dormire. Con la mente in pace, senza sogni.
C'è tempo per piangere. Con discrezione.
Non ora. No, ora no.
Sfiniti.
Esausti.
Un volteggiare di maschere. Dai Sorrisi vuoti.
Ho soltanto voglia di ballare.
Tintinnio di braccialetti luccicanti.
Chissà cosa pensi.
Mentre mi guardi.
Tacchi alti. Sul marmo gelido. Bianchissimo.
Cosa ti starai domandando.
Cosa succederà dopo, forse.
Mascara. Nero. Mascara sbavato.
Non la smetto di ridere.
Ticchettio di lancette di un tempo fuori dal tempo.
Mi prendi per mano.
Tu.
Ora non ho voglia di capire cosa stai pensando.
No, ora no. Ora portami via.
Rivoglio la mia faccia pulita.
Voglio stare in silenzio. Composta.
Chiudo gli occhi. Lentamente.
È quasi giorno.
Non andare via. Non ancora.
Quel sabato pomeriggio, con la sua carrozzina elettrica, Giovanna era uscita di casa per una passeggiata. Non aveva voglia di mescolarsi fra la gente del paese che faceva acquisti, preferì dirigersi verso la tranquilla stradicciola lungo al Naviglio, che portava ad un piccolo Santuario.
Lungo il percorso aveva incontrato alcune persone amiche e, con loro, c'erano stati scambi di saluti.
Arrivata alla fine della stradina, si accorse che il cancello in ferro battuto del Santuario era aperto, quindi lo varcò, percorse il cortiletto lastricato di porfido, e si diresse verso la piccola chiesa.
C'era solo un minuscolo gradino, facilmente superabile con la carrozzina, e il portone di ingresso, era appena socchiuso. Spingendolo un po' entrò in quel Santo luogo, semplice e luminoso,... oltre a lei, non c'era nessun altro, solo silenzio e un dolce senso di pace...
Giovanna avanzò fin davanti all'altare e, vicino alla porta della sagrestia, in un angolo, notò una vecchia croce impolverata e abbandonata.
Si fermò ad osservare quella croce, provando dispiacere nel vederla così "malconcia", proprio come si sentiva lei stessa, in quel momento...
I suoi pensieri vagarono, trasformandosi in una sorta di dialogo-preghiera con Dio...
"... c'è chi sta peggio di me, lo so, sai?,... ma mi mancano tante piccole cose!!! Vorrei poter tornare a camminare, a far le pulizie di casa,... pensa, mi manca perfino il mio lavoro!... si, ammetto che col ragioniere era un continuo battibecco, ma... Ma queste cose le sai già, chissà perché te le sto a raccontare... proprio a Te poi, che hai dovuto sopportare molto di più, per causa nostra"...
Sulle guance scesero alcune lacrime,... sulle mani, avvertì il calore di una carezza.
Giovanna alzò la testa e davanti a lei, vide un bimbetto biondo che stringeva un mazzolino di margherite, e che la stava osservando preoccupato.
- Perché piangi?... ti sei persa?
- No, piccolo non mi sono persa, m'è solo entr
Erano tre in quella famiglia. Tre come il numero perfetto, tre come l'ora segnata dall'orologio rosso sulla cappa della cucina, tre come il numero delle bollette scadute già da un mese.
Marco, era l'orgoglio della madre, Anna. Per farlo studiare aveva, negl'anni, svolto i più umili lavori. Era passata per i bagni di un'auto grill di Salerno, aveva pulito le scale di un palazzo di dottori, i più rinomati di Napoli. Si era alzata alle cinque del mattino per sfornare pagnotte di grano dal forno sotto casa. Quella di Milano. Aveva fatto da madre ad un bambino in cui riconosceva tutto il buono concepito nella sua vita.
"Sei il mio piccolo grande uomo ", diceva, mentre gli portava la colazione , ancora con le mani sporche di farina ed i vestiti che odoravano di pane caldo.
"Forza. È ora di andare a scuola" e dandogli un bacio sulla guancia, lo tirava giù da letto.
Aveva solo sette anni, ma conosceva già il posto dei suoi vestiti, sapeva lavarsi i denti, senza lasciare il dentifricio ai bordi del lavandino, sapeva infilarsi il grembiule e prepararsi la merenda.
Il pane della mamma, con la marmellata di fragole del discount.
"Marco, non ti preoccupare, faccio io."
"Mamma, sono grande, e poi vado di fretta. Il bus mi aspetta."
"Fai il bravo a scuola, mi raccomando."
"Lo so, tutte le mattine mi ripeti la stessa cosa".
"Dì a papà che lo saluto".
Uscito lui, iniziava a rassettare quel buco di casa, in cui vivevano in tre, ma esistevano in due.
Le lavatrici da stendere al sole, i letti da rifare. Le finestra da aprire, il bagno da pulire, le piante da annaffiare, le magliette da stirare, il sugo, per il pranzo, da preparare.
Inciampava di continuo, le mani sempre in movimento: il secchio, la scopa, il mocio, il detersivo.
Correva. Come se qualcuno la aspettasse fuori da lì, come se dovesse partire per andare altrove.
Sapeva bene che non poteva farlo, non più almeno.
Il suo posto era lì tra le mura rancide di quella casa che le stava s
Se ne stava appollaiato in una gabbia dalle dimensioni sconnesse, almeno per uno della sua specie. Una gabbia piuttosto lunga ma oltremodo appiattita, una di quelle per tenerci i pulcini quando non son più pulcini e non sono ancora galline. Era nervoso. Se ne stava girato di spalle, oppure a testa in giù aggrappato con i poderosi artigli alle sbarre superiori della gabbia - che sarebbe meglio chiamare stia - gracchiando bellicoso ogni volta che qualcuno osava disturbarlo. Faceva un baccano d'inferno, soprattutto quando qualche imbecille si avvicinava e faceva : uh! come se avesse visto un marziano, e poi non la smetteva più di motteggiarlo con suoni e parole sconnesse, anche per un pappagallo.
Addirittura si accalcavano, talora, più individui, poiché si sa che un imbecille tira l'altro come le ciliegie, fino ad oscurargli l'aria, di modo che la povera bestia, povera solo perché s'era deciso così, non ne poteva più e tirava fuori le più acute e stridenti note di cui fosse capace pur di levarseli dalle scatole. Cosa che puntualmente avveniva, essendo quelle grida insopportabili da udirsi a così poca distanza, e allora ognuno si allontanava, scandalizzato che una bestia potesse non gradire i suoi sciocchi salamelecchi.
Dopo simili affronti il pappagallo si voltava di spalle, e, non v'è dubbio, col preciso intento di voltar le spalle, poiché dimostrava un tal senso dell'orientamento da far impallidire una bussola.
Egli, con piena consapevolezza della situazione, e altrettanta consapevolezza della direzione da cui veniva il mal fatto, giungeva ad una perfetta determinazione della posizione da assumere, perché potesse essere ben chiaro a chiunque che tutto ciò che meritavano di osservare era il suo pennuto e variopinto posteriore.
Un ultimo borbottante gracchio concludeva la vivace conversazione, dopodiché seguiva un fiero e orgoglioso silenzio.
Mi avvicinai, presumendo di saperci fare, e dissi: ciao, bello! tenendo la voce sul tono più basso e care
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