Molti e molti anni fa, mio padre funzionario delle ferrovie italiane venne trasferito alla stazione internazionale di un paese della Svizzera a pochi passi dalla frontiera Italiana.
Qui ho trascorso la mia fanciullezza.
Molte volte mi recavo alla stazione per vedere i treni in partenza.
Quelli che mi colpivano di più erano i treni che io chiamavo della speranza perché erano stracolmi di emigranti italiani che avevano lasciato il loro paese natio con delle valigie di cartone legate con dello spago piene di pochi vestiti ma tante derrate alimentari delle loro regioni.
Nei loro occhi leggevo la stanchezza del viaggio che allora era interminabile.
Tutta la notte e buona parte del giorno.
La tristezza dei loro cuori per aver lasciato a casa parenti, mogli e figli, ma la speranza di poter raggranellare qualche soldo da mandare a casa dava loro la forza di continuare la strada intrapresa.
Poi venivano fatti scendere dal treno, incolonnati e portati in un palazzo adiacente alla stazione dove la polizia controllava i loro permessi provvisori di lavoro. Chi era in regola passava oltre per effettuare la visita medica, gli altri venivano accompagnati subito su di un treno e con il foglio di via rispediti a casa,
Durante la visita medica solo chi era sano usciva, dove li attendeva rappresentanti del datore di lavoro che li accompagnava nei cantieri, sistemati in baracche di legno attrezzate di tutto, cucina, gabinetti e lavabi, ma pur sempre baracche di legno.
E il giorno dopo iniziavano a lavorare, un lavoro duro, gli attrezzi di lavoro a quei tempi non erano moderni come quelli di adesso, martelli pneumatici, scavatrici potentissime, ruspe gigantesche, bisognava fare tutto con pale e picconi, sotto il sole cocente, la pioggia battente o le grandi nevicate.
Loro in silenzio lavoravano, pur di migliorare la loro vita e quella dei loro famigliari rimasti a casa, perché le leggi di allora non permettevano di portare con loro mogli e figli.
Molti di loro morivano
Usciva a notte fonda, guidato dalle stelle. La luna dava un colore strano alle cose, una percezione alterata delle forme che si riflettevano mutevoli nelle creste delle onde. Forse era proprio questo a svegliarlo la mattina, a dargli non solo la forza, ma il fervido desiderio, di uscire in mare: lì dentro tutto scorre restando immobile ed uguale a sè stesso.
Sopra di lui il cielo stellato, quello sì, immobile ed eterno. Eternamente immobile. O almeno così sembrava. Ma in quelle notti, nella solitudine cullata dallo strascichio della risacca, cielo e mare sembravano fondersi alla sua vista ed al suo pensiero, sciogliersi conpenetrandosi dolcemente. Ed era in quei brevi momenti di illuminazione interiore che riusciva a capire, seppur solo per qualche istante, che la natura dei due sistemi era unica, identica; onde e stelle, stelle e onde. Cambia solo l’unità di misura, cambia solo il tempo necessario ad osservare i mutamenti. Ma visti da lontano, da molto lontano, apparirebbero forse maggiori i cambiamenti della volta celeste rispetto a quelli di una massa d’acqua schiumosa che si alza e si abbassa solo di qualche metro ogni notte. La percezione del mutamento è proporzionale alla distanza che intercorre tra noi, uomini, e ciò che pretendiamo di osservare; ciò che è lontano appare sempre uguale a sè stesso, ciò che è vicino, invece, lo vediamo crescere e rimpicciolirsi, ringiovanire ed invecchiare, dormire, e svegliarsi.
Si stava svegliando, il mare, quella notte. Come sorpreso nella sua pigrizia, sembrava volersi riscattare, mostrare a chi lo aveva sfidato finchè dormiente la sua reale, mostruosa natura. Si stava svegliando, ad ogni suo respiro diveniva sempre più profondo, poteva inghiottire e vomitare ogni cosa l’acqua contenesse, ogni essere cui avesse dato asilo. Cominciava la sua personale guerra contro se stesso, in cui la vittoria è un obiettivo mai raggiunto, un mero pretesto per lottare. L’oceano bisbigliava, si contorceva, gridava
La sveglia puntualmente suona come ogni mattina e stordito mi alzo dal letto.
"Buongiorno Mondo" dico tra me e me. Subito prendo il cellulare, ho ricevuto un messaggio verso le 6:30. Mi lavo il viso e mi preparo a leggerlo;
Elisa: "Buongiorno Riccardo, spero di non disturbarti a quest'ora. Sto partendo per tutto il giorno quindi non potremo sentirci. Ti auguro buona giornata, bacio".
Le rispondo adesso: "Buongiorno a te, non disturbi mai, buon viaggio :)".
Anche oggi da solo al bar;sento già un po' di nostalgia, mi manca Maurizio.
Mi dirigo al lavoro, 10 gradi oggi, fa un po' freschetto, in macchina con la musica e un vecchio CD di Tiziano Ferro. Mi sento spensierato oggi, sarà ancora l'effetto della serata di ieri.
Arrivo al lavoro alle 8:12, vado a salutare Donato e Luciano.
Io:Ciao bello, come stai?"
Donato: "Ciao Rì, tutto bene, tu?"
Io: "Me la cavo dai. Dov'è Silvano?"
Donato: "Non ne ho idea, arriverà a momenti. So che Maurizio ritorna domani."
Io: "Sì è così, non si è fatto vedere però in questi giorni."
Donato: "Ah ecco Silvano, sta entrando. Stasera io e lui andiamo a farci una birra insieme a Maurizio, vuoi unirti a noi?"
Io: "Davvero? Grazie, vengo volentieri! Chiamo Maurizio e mi metto d'accordo con lui. Buon lavoro."
Donato: "Anche a te!"
Passando dò una pacca sulla schiena a Silvano che ricambia con un sorriso.
Mando un bacio volante anche a Silvia, l'assistente del sr. Di Cesare e mi chiudo in ufficio. Cellulare già spento, è ora del lavoro.
"Italia-Svizzera, un'amichevole per sorridere!"
Buffon tra i pali, Cassano e Osvaldo in attacco, centrocampo da brividi;ecco cosa riserva per Mercoledì questa Italia.
Articolo scritto e completato, che faticaccia però, non sono abituato. Non sarò mai bravo come Maurizio su questi argomenti.
Io: "Silvia è libero il capo?"
Silvia: "Aspetta, adesso controllo." "Sì, entra pure!"
Io: "Grazie."
"Permesso, posso?" Chiedo bussando.
Sr. Di Cesare: "Certo entra pure e accomodati".
Prese la borsa, la tessera dell’autobus e le chiavi, il coraggio la prese per mano e la disperazione le aprì la porta. Uscì quando tutti rientravano.
Non usciva di casa da tre giorni, esattamente da quando le erano finiti i soldi.
Autobus all’andata: occhi bassi e sperare di non incontrare nessuno, sperare di non dovere inventare bugie; minuti pressappoco infiniti, che tuttavia finivano sempre.
E quando finivano, scesa dall’autobus, c’era da scendere il secondo gradino. E lì era peggio. Che nessuno la veda! …lì piegata a terra a rovistare, a cercare, che nessuno che la conosce passi di lì in quel momento, tanto lei è veloce e finisce subito, ma per carità non la deve vedere nessuno, lei lì in mezzo. In mezzo a quella confusione semplice e triste di buste di plastica svolazzanti, carte stropicciate a terra insieme a scatole di cartone rotte, cassette di frutta e di pesce vuote, e un odore avvilito e umiliante, il forte odore di marcio e di finito.
Ma lei lì, in quello spiazzo dove da qualche ora era finito il mercato, ci si sapeva muovere ormai da un po’, precisamente da due mesi, precisamente da quando i soldi della pensione li divideva con sua figlia.
Contratto non rinnovato, “ …e allura? e iu chi ci staju a fari, ‘a figghia? no… non t’ha preoccupari, chi fai cianci? sù cosi ca capitanu, vidi ca ‘u trovi prestu n’autru travagghiu, e pì ora t’aiutu iu, sciatu… non ci pinsari”
Quella volta, al mercato fu la manna dal cielo! (dal cielo… non proprio), cinque arance ammaccate, tre pesche ma belle, quattro pere, non le piacevano, ma se le prese lo stesso. Guardò anche tra i resti delle lattughe perché ci trovava sempre qualcosa lì in mezzo, e quella volta: una melanzana, quanto le piacevano!
Autobus al ritorno: occhi bassi, e chissà se l’avevano vista, …certo di gente ne passava, ma no, no che non l’hanno vista!
A casa non ci pensò più, contenta andò subito in cucina, si meritava il suo piatto preferito: u
PREFAZIONE
L'autore in questo libro, immagina gli ultimi quindici minuti di vita del padre durante i quali, quest'ultimo, or-mai sessantaquattrenne, rivede come in un nastro la pro-pria vita, ricordandone i momenti salienti.
Ritornano alla sua memoria gli episodi vissuti e tra-scritti su di un diario, unico compagno nei momenti di so-litudine e tristezza.
Questi ricordi affondano le radici nell'infanzia vissuta drammaticamente per la perdita prematura del padre. Questa figura, pur assente, svolgerà un ruolo molto im-portante nel resto della sua esistenza, costellata pun-tualmente da esperienze drammatiche. Sperimenta la vita da orfano; costretto a vivere della pietà altrui, conosce la miseria umana passando da un orfanotrofio all'altro, fino a quando diciottenne conosce gli orrori della guerra.
Deportato ed internato nei campi nazisti, vede inper-sonificata la malvagità umana; è testimone degli orrori e dei crimini commessi contro l'umanità; vive in prima per-sona la condizione di schiavitù riservata ai prigionieri di guerra deportati in Germania.
Conosce la realtà dell'Italia anni trenta, una nazione povera e tecnologicamente arretrata rispetto al resto d'Europa, sprofondata, a seguito della seconda guerra mondiale, in una condizione di miseria sociale e civile. È in questa condizione che si sviluppa il suo cammino, sino a raggiungere momenti di tranquillità e benessere. In tut-to questo, però, non viene mai a mancare la speranza che, tra le tante vicissitudini, nutre e sostiene il protago-nista di questa vicenda.
Questi ricordi sono sospesi quando moribondo, nell'a-gone della morte, rivede soprattutto quel padre che aveva tanto desiderato, e parla con gli altri familiari defunti che gli preparano, in maniera indolore e quasi piacevole, il trapasso.
Michele MASTRAPASQUA
PREMESSA
Prima o poi arriva il momento della morte e dover en-trare di persona nel mistero della vita
Questo è l'inizio di uno dei racconti del mio nuovo libro "I colori di Venere". Per un problema di diritti non posso pubblicarlo tutto.
Marco ha pensato proprio a tutto per il mio compleanno: un ricco buffet in giardino, le candele ai tavoli, uno stucchevole tovagliato color pastello, che poco si addice ai miei quarant’anni, la videocamera per riprendere questo traguardo di vita e persino un palco su cui cantano e si dimenano una donna cicciona e un chitarrista vestiti con abiti scintillanti a dir poco imbarazzanti.
E io che volevo festeggiare il mio compleanno in qualche locale con poche amiche, o brindare in una suite d’albergo con mio marito a sfinirmi di sesso…
Sorrido amaramente e, osservando Marco che impartisce ordini e si preoccupa di tutto, mi sento un’ingrata, si, la solita ribelle individualista.
Dopo un’ora siamo tutti in scena, orde di bambini devastano urlanti il giardino, le loro mamme guardano ogni angolo della casa prese da un irrefrenabile bisogno di malignare e criticare, i colleghi di mio marito urlano frasi da osteria, e mia suocera si lancia nelle danze con un minimalista tailleur di raso color fucsia.
Segue: la torta, le foto, il discorso di ringraziamento, lo scarto dei regali e la risata programmata alle battute degeneranti di mio cugino Ivan.
Cerco una via di fuga, ormai sono disperata, non resisto un minuto di più.
La cicciona strizzata nel vestito di paillette canta una vecchia canzone degli U2. Quelle note mi fanno estraniare da tutto quello che mi circonda, la musica mi riporta indietro di vent’anni a una serata sulla spiaggia con il classico falò. Butto giù lo champagne di basso costo e chiudo gli occhi. I pensieri si rincorrono, il passato mescola le carte, immagini, odori e voci prendono forma.
Mi allontano da quell’atmosfera festante e cerco un angolo tutto per me. Ne ho bisogno. La musica e la voce della cantante agitano i ricordi e li sollevano dal fondo dell’anima.
Improvvisamente tutto?
In un vecchio e decrepito orfanotrofio dei paesi dell’est, Ucraina per la precisione, viveva da circa cinque anni una bambina di nome Natasha. In verità Natasha aveva trascorso solo pochi mesi di vita fuori dall’istituto, sei per l’esattezza, poi del padre non si ebbero più notizie mentre la mamma aveva cominciato a bere…E non v’era nessuno dei parenti prossimi disposti ad occuparsi di lei. In quell’istituto, tuttavia, Natasha era stata cresciuta alla meglio. La direttrice era un tipo molto autoritario e dal cuore non tenero, e le altre puericultrici non erano…mai state mamme.
Un giorno giunse dall’Italia una richiesta di adozione. Due giovani poco più che trentenni avevano chiesto di adottare Natasha. Circa tre anni di attesa erano stati sbriciolati dalla burocrazia di entrambi i paesi, senza che nulla accadesse. Ed intanto Natasha era lì in attesa e la coppia italiana in ansia. Un bel giorno arrivò l’invito da Kiev per la coppia italiana a recarsi al centro delle adozioni e quindi ad un orfanotrofio ucraino. Giunsero in una mattina di primavera nemmeno lontana parente delle nostre delicate giornate profumate e colorate dai mandorli in pieno risveglio.
Il locale d’ingresso dell’istituto era gelido, alto ed i muri ripassati di bianco anonimo su cui campeggiavano enormi finestroni retinati.
Natasha era in un'altra stanza in un’attesa…vuota perché purtroppo aveva imparato che i giorni di quell’istituto erano tutti maledettamente uguali e grigi. La direttrice senza lasciarsi andare a troppi convenevoli accompagnò la coppia nello stanzone dove la bambina ripulita attendeva di conoscere gli stranieri.
Gli occhi di Natasha non avevano mai ricevuto un sorriso e sul suo viso solo ruvide carezze si erano talora alternate. La coppia italica avvicinandosi regalò alla piccola un sorriso ed uno sguardo d’amore e per Natasha… fu la prima volta. La futura mamma le accarezzò i capelli ponendoli dietro le orecchie e…Natasha era davve
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