Un caffè in vetro, grazie. Tutte le mattine entrando al "Bar del Conte" ripetevo la stessa frase, anche se ero assonnato e poco lucido. Avevo preso l'abitudine di bere il caffè nel bicchiere di vetro da mio cognato. Mio nonno, buonanima, mi spiegava che il caffè va bevuto nella sua tazzina, che essendo doppia mantiene meglio il calore e il caffè ha un sapore migliore. Ma i buoni consigli non si ascoltano mai. In verità in quale contenitore fosse il caffè la mattina alle sette era l'ultimo dei problemi. Il caffè era una scusa. Per arrivare a quel bar facevo anche un giro più lungo e regolarmente facevo tardi al lavoro. Dietro la macchina da caffè, con la mano appoggiata al braccio, c'era Romina, la moglie del Conte (il padrone si faceva chiamare così ma non era conte). Era di statura media, grandi tette e occhi neri. Portava i capelli sciolti sulle spalle e vestiva sempre con delle ampie e profonde scollature. Alle sue spalle c'era un grande poster con una spiaggia lunga e con la sabbia bianca. Ogni volta che la guardavo ricordavo le parole di una canzone: "vieni in Tunisia c'è un mare di velluto", ed io sognavo. Su quella calda sabbia, all'ombra di una palma, bevevo il mio caffè che ormai era freddo. Il conte era alla cassa, Romina sorrideva e io sospiravo.
Dipingi il tuo quadro dal fondo del pozzo. L'oscurità penetra lentamente i pensieri, trasformandoli in sterili pennellate che non vedranno mai la luce del sole. Aggrappati al muro e scappa con me da questa prigione, prima che la guardia di turno ti pianti una pallottola in testa. Scappa e non voltarti, lascia perdere tempere e tela, non sono poi così importanti. Ne usciremo vivi, vedrai, ma adesso devi seguirmi.
Michael si sedette nella sua poltrona preferita; si lasciò sprofondare fino a quando non trovò la posizione ideale e chiuse gli occhi. La sua ex moglie non sopportava quella poltrona, in più di un’occasione l’aveva definita pacchiana e di pessimo gusto, fino a quando non aveva deciso che anche suo marito lo era altrettanto e lo aveva lasciato. Michael se ne era fatto una ragione, un divorzio è duro da sopportare, ma sono cose che si superano…si girò verso il tavolinetto bianco in tek e prese una bottiglia di birra. La aprì e cominciò a berla lentamente. Una birra era quello che ci voleva in una serata come quella e probabilmente anche più di una…anzi, una sbronza era proprio quello che andava cercandosi. Non si era mai sentito così depresso, neanche quando Mary aveva fatto le valigie e l’aveva piantato lì da solo in quello schifo di appartamento arredato con quei mobili ultramoderni che le piacevano così tanto e che lui invece non riusciva a sopportare. Gran parte del mobilio era bianco, dagli armadi a muri, al comodino vicino al letto; dava l’impressione di un laboratorio completamente asettico, dove si stesse portando avanti la ricerca di un virus letale. Sua moglie lo definiva minimalista e chic, ma l’unica cosa a cui Michael riusciva a pensare era che se avesse potuto gli avrebbe dato fuoco volentieri. Purtroppo il suo vecchio appartamento da scapolo ora era in affitto, coi suoi mobili così poco “glamour” e per questo si ritrovava bloccato lì, mentre Mary era tornata a casa dei suoi. L’unica cosa, che si era potuto portare dietro, era la sua poltrona di pelle nera e anche se Mary aveva fatto il diavolo a quattro lui non si era arreso. La poltrona restava, non c’era nient’altro da dire. Mary lo aveva guardato da sotto in su, con quella espressione imbronciata che Michael conosceva così bene, che voleva dire: “Ok, questa non me la dai vinta, ma tanto prima o poi te la faccio pagare in un altro modo” e così era stato. Per
[continua a leggere...]9 febbraio 1965
ore 7, 45
" Buon onomastico Lucia! "
La voce calda e allegra di zia Nives scacciò la mia piccola tristezza. Non pensai più alla dimenticanza dei miei genitori. Mi vorranno fare una sorpresa. Ne ero certa.
Zia Nives invece mi diede subito il suo regalo. Me lo porse incartato ma la sua forma rivelava il contenuto lasciando poco spazio alla sorpresa. Tuttavia quando ti regalano un libro un po' di sorpresa rimane. Prima di scartarlo non sai che libro sarà, se ti piacerà, o se piaceva solo a chi te lo ha regalato. Come tutti i bambini non è che amassi leggere come amavo la cioccolata. Però non ero neanche una bambina che non leggeva mai. Magari per imitazione, vedendo papà sempre con un libro in mano.
Qualche bel libro lo avevo letto anche io.
Lo scorso anno avevano insistito a farmi leggere il libro Cuore di Edmondo De Amicis. A me veramente non era piaciuto tanto. Era triste e pieno di buoni sentimenti. Sapeva di antico. Anche il nome dell'autore era antico. Io non avevo conosciuto mai nessuno che si chiamasse Edmondo. A dire il vero, non ne ho mai conosciuto uno. Neanche adesso che i ricordi che si accumulano mi rendono consapevole di aver trascorso un bel po' di vita.
Pure il cognome sembra venuto dritto dritto dall'Ottocento: De Amicis. Mi faceva ridere. Lo ripetevo più volte e mi sembrava buffissimo. Lo ripetevo mentalmente sempre più veloce e mi faceva ridere. De Amicis, De Amicis, De Amicis, De Amicis. Mi ha sempre fatto ridere, almeno fino a quando non conobbi il nome di un pittore ancora più buffo: Filippo de Pisis.
Presi a ripetere il suo nome sempre più in fretta e mentre le sillabe si affastellavano e si alternavano nella mia mente, un moto irrefrenabile di ilarità mi spingeva a ridere e ridere sempre di più. Per lungo tempo tradii De Amicis con de Pisis, e devo dire che ripetere a lungo quel nome tra me e me aiutava spesso a superare i momenti scuri che pian piano si facevano largo sempre più spesso nella mia coscienz
E sono qui, chiusa in una stanza vuota a guardare il soffitto.. Penso, rifletto e dolcemente mi addormento.
Ed anche li, nel mio sogno più segreto e più nascosto ci sei tu, bello come il sole, mi guardi, e con il tuo sguardo dolcemente assorto in me, mi fai capire ciò che provi, che non sono una qualsiasi.
Sì, sono la tua principessa... ma solo qui, in questo sogno che nemmeno io mi ricorderò quando il mattino mi sorprenderà.
Ed allora arriverà mia madre, con quella sua voce squillante, quasi fastidiosa, per svegliarmi, perchè ormai è tardi.
Saranno le 6. 30 e tutto svanirà, e potrà solo essere qualcosa di vagamente confuso, completamente fiabesco.
Arriverò in stazione, con le mie tre amiche di sempre, mi guarderò intorno, e ti troverò!
Lì, davanti a me, con quell'aria così assonnata ed ancora sognante.
Mi avvicino a te, e parliamo. Mi racconti, del tuo sogno, molto confuso ma allo stesso tempo così chiaro.
Sembri felice raccontandolo, e parli, parli, parli...
La tua voce sembra musica, di un dolce andantino che piano piano cresce, e poi, dei lievi diminuendi.
Mi incanto ad ascoltarti, e vorrei ricordare la tua voce per sempre, risuona nelle mie orecchie e la vorrei tenere lì, il più possibile.
Sembra passata un'infinità, invece sono solo pochi minuti, ed eccoci arrivati a scuola, entriamo, ci dividiamo nelle aule.
Mi siedo sulla mia sedia, dietro a quel banco che in questi tre anni ha visto sorrisi, pianti, bei voti e talvolta brutti, nuove amicizie e piccole confidenze, e lì, fingendo attenzione all'inizio della lezione più soporifera della settimana, ti penso, e ancora una volta... ti sogno!
Lei camminava per strada, con gli occhi bassi ben attenti a non incrociare lo sguardo di un passante. I suoi occhi verdi erano soliti guardare la ghiaia. Gia quando girovagava per la città aveva sempre lo sguardo basso perchè sapeva bene che quello sguardo poteva incantare chiunque e lei voleva solo essere trasparente. Voleva camminare senza essere osservata, ma era inevitabile. Anche quando aveva gli occhi bassi, la gente non poteva fare a meno di fissarla. Gia non era perfetta, Gia aveva dei difetti: il suo labbro superiore era troppo piccolo rispetto a quello inferiore, i suoi occhi anche se così attraenti non erano grandi e non rispettavano i canoni di bellezza. Non erano i suoi lineamenti ad attirare gli sguardi delle persone, era ciò che il suo corpo emanava, era la sua aura. Intorno a lei l'aria era elettrica, luminosa. Gia emanava profumo di bosco anche se non metteva il profumo. Gia attirava gli sguardi dei passanti pur non volendo. Lei non voleva essere al centro dell'attenzione, lei non voleva essere fissata, lei voleva essere trasparente. Voleva sparire, non farsi più vedere, voleva essere una ragazza qualunque. Solo a volte aveva il coraggio di alzare lo sguardo. Nel momento in cui i suoi occhi guardavano una persona, quella, chiunque fosse- un vecchio, un bambino, una donna, un animale- la guardava negli occhi senza riuscire a distogliere lo sguardo dai suoi occhi. Si creava con quella persona un contatto visivo fortissimo. Attraverso quegli sguardi Gia entrava nell'anima delle persone, riusciva a guardare dentro a chiunque, attraverso quegli sguardi lei entrava nelle anime altrui. E negli occhi degli altri Gia rubava ricordi, passioni, delusioni, tutto quello che lei avrebbe voluto vivere ma che non osava fare.
Via del Mascherino è una via romana nei pressi di S. Pietro, non lontana da via della Conciliazione che la Guida di Roma definisce "retoricamente monumentale". Come questa, via del Mascherino è una via fredda, scarsamente frequentata. Non ha un'anima. Pochi i negozi: due di arredi sacri, una libreria, un'ebanisteria, un'agenzia di viaggi. Ma quando erano in piedi i Borghi che avevano una vivacissima anima popolare, via del Mascherino era stretta nell'abbraccio di vicoli e vie che si diramavano da Borgo Nuovo e da Borgo Vecchio. Allora io ero una bambina e già il nome della via"Mascherino" colpiva la mia immaginazione. Ma non era una questione solo di immaginazione. La via aveva per me un grande fascino: vi abitava il fratello di mia nonna, uno scalpellino di vecchio stampo, con la sua famiglia. La moglie Amelia che io chiamavo nonna Mella, era molto dolce con me, una dolcezza che forse le stemperava la pena che si portava dentro: le era morta, ventenne, una figlia bellissima, con una carriera di cantante lirica assicurata. Aveva la classica voce d'angelo e come un angelo era volata via da questa terra.
Nonna Mella era piccolina, vestiva eternamente di nero, una gonna lunga fino ai piedi, una giacca e una lunga sciarpa che le serviva da copricapo quando andava in chiesa. Il tutto, leggero d'estate, pesante d'inverno. Qualche volta andavo a casa sua e mi sembrava di andare in una sorta di Eden. La casa era piccola e povera ma molto originale. Una camera da letto matrimoniale con pochi mobili ottocenteschi, una cameretta per i due figli maschi con mobili di fortuna. Ma nonna Mella l'aveva resa attraente con cuscini di lana, messi qua e là, fatti da lei con gli avanzi della lana che aveva adoperato per fare calze e maglie per i suoi figli. Una piccola stanza mi incantava, mi emozionava sempre: la stanza di Tina, l'unica figlia femmina che le era rimasta. Il letto non aveva spalliere. Era una specie di cassapanca tutta ricoperta di cuscini multicolori. Davanti a que
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