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Racconti su sentimenti liberi

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Come sempre

Come sempre, si alzava la mattina. Poi prendeva il treno, tum tum tum si avvicinava al suo ufficio. Il viale alberato, le scale di marmo, un portiere Buongiorno in ascensore 5° piano chiavi porta entrare ufficio computer. Chi era lui se non un’appendice del suo computer. Poi c’era la segretaria, il postino, il magazziniere, il cane, il mercante, lo schiavo e il mercante di schiavi. Tutta gentaglia, pensava, senza un briciolo di fortuna da parte. Credeva che la fortuna si potesse conservare, accumulare, e poi spendere nei momenti di bisogno. In realtà non sapeva nemmeno cosa fosse la fortuna, non ne aveva mai avuto bisogno.
Cercava il sole dietro la finestra, il sole non c’era. Allora cercava una nuvola bianca soffice di cotone in cui farsi avvolgere, ma nuvole non ce n’erano. Solo un velo continuo fitto insistente di pallida nebbia grigiastra; sembrava di essere soli in una chiatta sul Nilo, cercare vita dove vita non ce n’è più, ormai da millenni. Eppure la vita c’è stata, in quell’ufficio, su quella chiatta, la vita una volta c’era. Ma dove è finita, forse sepolta da secoli di sabbia sottile che ha ricoperto ogni cosa ignara del delitto che stava compiendo. Siamo egiziani senza patria e senza passato.
A questo pensava mentre seduto alla sua scrivania, lentamente, scriveva. Con una penna antica quanto la sua stessa vita, un foglio nuovo come il suo sorriso e bianco come la luce bianca può essere, prendeva appunti su quello che avrebbe voluto dire. Tutto dipendeva da quel foglio, tutto dipendeva da lui. Non c’era possibilità di scelta, non c’erano mezzi per scappare, il giorno era venuto. Ascensore Buonasera il portone le scale. Di nuovo il treno, tum tum di nuovo il treno.
Una casa lontana che di sera aspetta il suo padrone; la vedi scodinzolare da lontano quando ti avvicini, ti salta addosso si strofina e quegli occhi, quegli occhi che solo una casa può avere, con quegli occhi ti guarda languidamente cercando in te quell’affetto

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Ricordi

Molti e molti anni fa, mio padre funzionario delle ferrovie italiane venne trasferito alla stazione internazionale di un paese della Svizzera a pochi passi dalla frontiera Italiana.
Qui ho trascorso la mia fanciullezza.
Molte volte mi recavo alla stazione per vedere i treni in partenza.
Quelli che mi colpivano di più erano i treni che io chiamavo della speranza perché erano stracolmi di emigranti italiani che avevano lasciato il loro paese natio con delle valigie di cartone legate con dello spago piene di pochi vestiti ma tante derrate alimentari delle loro regioni.
Nei loro occhi leggevo la stanchezza del viaggio che allora era interminabile.
Tutta la notte e buona parte del giorno.
La tristezza dei loro cuori per aver lasciato a casa parenti, mogli e figli, ma la speranza di poter raggranellare qualche soldo da mandare a casa dava loro la forza di continuare la strada intrapresa.
Poi venivano fatti scendere dal treno, incolonnati e portati in un palazzo adiacente alla stazione dove la polizia controllava i loro permessi provvisori di lavoro. Chi era in regola passava oltre per effettuare la visita medica, gli altri venivano accompagnati subito su di un treno e con il foglio di via rispediti a casa,
Durante la visita medica solo chi era sano usciva, dove li attendeva rappresentanti del datore di lavoro che li accompagnava nei cantieri, sistemati in baracche di legno attrezzate di tutto, cucina, gabinetti e lavabi, ma pur sempre baracche di legno.
E il giorno dopo iniziavano a lavorare, un lavoro duro, gli attrezzi di lavoro a quei tempi non erano moderni come quelli di adesso, martelli pneumatici, scavatrici potentissime, ruspe gigantesche, bisognava fare tutto con pale e picconi, sotto il sole cocente, la pioggia battente o le grandi nevicate.
Loro in silenzio lavoravano, pur di migliorare la loro vita e quella dei loro famigliari rimasti a casa, perché le leggi di allora non permettevano di portare con loro mogli e figli.
Molti di loro morivano

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Io e l'altro

Una volta mi piaceva tanto pedalare, andare in bicicletta e pedalare in mezzo al giallo del grano, dove il sole batteva tanto forte che in mezzora ti ustionavi la pelle; così inforcavo la bicicletta e pedalavo sotto il sole che in mezzora ti ustionava, in mezzo al giallo del grano e al rosso della terra. Sperando di non cadere, perché la terra era così secca che se cadevi altro che terra, sembrava asfalto! Ogni volta facevo la stessa strada: arrivavo sopra la collina, mi godevo il silenzio e poi scendevo dall’altra parte, all’ombra, e c’era un rudere di una vecchia casa che mi faceva paura, era troppo losco per i miei gusti, e poi c’era sempre qualche oggetto spostato…
Un giorno decisi di entrarvi, così perché era il momento di farlo! Tremavo dalla paura, il cuore a mille, poi un lamento, proveniva da una botola incavata nella terra, o meglio, proveniva dal bambino dentro la botola incavata nella terra, lo presi e me lo portai appresso, io che pedalavo e lui con gli occhi chiusi seduto sul portapacchi a fare il pacco, che poi gli stava bene come parte, tanto piccolo e magro era!
“Grazie” Mi disse. Grazie di che? Che ne sai? Che ne sai di dove ti porto e delle intenzioni che ho? Che ne sa, dico io, lui di cosa faccio? Non lo so neanche io! Certo adesso mica potevo portarlo in casa e dire a mamma che rimaneva in vacanza da noi, eh, che gli dico? Decisi di nasconderlo dentro l’armadio delle mie cose private, certo, si stava un po’ stretti, però sempre meglio del letamaio da dove è sbucato! Il giorno dopo saremo partiti io pedalando e lui sul portapacchi a fare il pacco. E il giorno dopo partimmo, e arrivammo, non a Roma come dice la canzone, ma al porto di Palermo, e via, dentro la nave più vecchia e scassata, lontano di casa. La nave partì, con noi dentro, Filippo (il ragazzetto) si addormentava sempre, in qualunque posto si trovasse, e russava, russava così forte che sembrava una trebbia, logicamente tutta la gente si voltava verso di

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ADDIO

Non badare troppo alla forma. Qua e là ho scritto con foga, lasciandomi prendere dall’ingordigia di raccontarti chi sono. Finalmente, dirai tu. Ho buttato sul computer parole alla cieca, liberando il più possibile la spontaneità dei pensieri. Perché di me conosci solo la maschera che ogni mattina incollo sul volto per piacerti, per piacermi attraverso i tuoi giudizi (oh quanto silenziosi!).
Quella maschera sorridente e pesante, tremendamente pesante, che mi vedi addosso quando vieni a visitarmi. Una volta al mese. Quando è concesso, perché così è stato deciso. Ma ora voglio dirti tutto, senza finzioni, senza ipocrisie e senza inutili giri di parole, perché per me il tempo sta per finire. Pena di morte. È quello che ha deciso la corte suprema. È quello che si meritano gli uomini come me. Gli assassini come me. Sono pericoloso io!
Premetto che se ti scrivo questa lettera e ti racconto di me, non lo faccio perché tu possa poi consolarti con le mie parole, quando non ci sarò più, ma lo faccio per me, unicamente per me stesso. Sono un inguaribile egoista!
Ti scrivo perché le parole rendono eterni: il mio cuore smetterà di battere, il mio corpo verrà mangiato dai vermi e il mio nome verrà presto dimenticato, ma le mie parole non si degraderanno, non spariranno, questo inchiostro non si cancellerà, e con le mie parole anche la mia essenza sarà eterna: sarò immortale. Non farti prendere da stupidi sentimentalismi per me, non merito nessuna lacrima e nessuna pietà. E non ne voglio!
Ti avverto : quello che scriverò non ti piacerà ma … a nessuno piace la realtà. So che ti sarai interrogato tante volte sulla mia colpevolezza e che speravi che fossi innocente. Bè, vuoi sapere la verità? Vuoi sapere se l’ho ucciso io? Si, l’ho ucciso io, quel bastardo, sino all’ultimo sparo. È vero, ho ucciso un uomo, ma quel bastardo se lo meritava, credimi, è così! Ha ricevuto la sua punizione divina!
Adesso smettila! Smettila! So che starai pensa

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   1 commenti     di: ayumi


Son

“Sulla pista 435 è in arrivo da Caronte 5 il volo numero QWER87”.
BIP
“Ricordiamo a tutti i passeggeri di sostare nell’area antibatterrica fino a quando si attiverà il segnale verde”.
BIP
“Sulla pista 689 è in arrivo da Nike il volo numero QROE39”.
BIP
“Ricordiamo a tutti i passeggeri di sostare nell’area antibatterica fino a quando si attiverà il segnale verde”.
Mentre la voce meccanica continua a scandire l’arrivo degli aerei, la sala di attesa si colora di grigio, sono appena sbarcati i passeggeri del volo proveniente da Caronte 5. Il passo degli operai, con la loro tipica divisa, è titubante per loro “Terra”, è solo una stazione di passaggio. I biglietti dei viaggi aerospaziali sono a carico della compagnia solo fino alle principali stazioni, da lì il viaggio è a carico del lavoratore.
BIP
“È in partenza dalla pista 1267 il volo numero Economy-QROE39 in direzione Marte”.
BIP
“Ricordiamo a tutti i passeggeri di sostare nell’area antibatterica fino a quando si attiverà il segnale verde”.
Il caos per pochi istanti si impadronisce della sala di attesa, gli uomini iniziano a correre verso la pista 1267, l’economicità di questi voli si rispecchia nelle condizioni riservate ai passeggeri, gli aerei sono sempre sovraffollati e il servizio è pessimo, solo i più furbi riescono a trovare almeno un posto a sedere.
Una volta che la marea è passata, fanno l’ingresso nella sala d’attesa i componenti dell’equipaggio. Dopo una giornata di lavoro un uomo può essere stanco, è facile immaginare come possa sentirsi chi finisce un turno di 15 mesi e con 3 traversate intergalattiche. La USAA (Universe Space Aviation Agency) obbliga questi turni, l’unicità dei mezzi di trasporto unita ad un logorio tecnico necessita di equipaggi qualificati, che seguano i loro veicoli dalla nascita fino alla loro morte.
Il pilota svolge un ruolo di supervisione sul funzionamento delle macchine che anche se difficilmente s

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MARE D'AUTUNNO

“Ciao. Scusa se ti disturbo, ma devo organizzarmi, va bene per le nove?” Sarò puntuale, risposi.
Riattaccai, uno sguardo all’orologio, c’era tempo, continuai a battere sulla tastiera.
Avevo smesso da tempo di provare entusiasmo per queste cose, da quando era finita con Laura, non riuscivo più a vivere un momento sereno. Qualunque rapporto mi creava più sofferenze che gioie, finivo sempre per fare confronti, con il risultato di sentirmi più vuoto e più solo.
Anche i tentativi di ricordare le tribolazioni di quella storia non miglioravano la situazione. Un po’ come quando da bambini ti raccontano la favola dell’orco, stai al gioco, ma non hai paura; anzi l’orco, finisce per diventare una figura familiare, un compagno di giochi.
Allora perché accettare di farsi coinvolgere? Sarebbe stato facile declinare l’invito, oppure coinvolgere altre persone; facile prevedere cosa sarebbe successo uscendo da soli, visto, che da circa un mese mi telefonava quasi tutti i giorni. Non che mi dispiacesse, ma non intendevo far crescere quel rapporto. Poi senza quasi accorgertene ti lasci trasportare, magari per pigrizia, per solitudine, per uno strano senso di ribellione.
Eravamo a fine settembre, non erano ancora le nove di sera, ma il Lido era deserto, pochi locali aperti, poche luci, qualche passante. Una desolazione. Ma chi me l’ha fatto fare? Perfino gli alberi sembravano assumere un’espressione di compatimento.
Più passano gli anni e più rincretinisco.
D’altronde, che dire di uno che per anni rimpiange la libertà, perfino la solitudine e appena le conquista, cade in depressione.
Parcheggiai rassegnato, come sempre ero arrivato con mezz’ora d’anticipo.
Meno male che non t’interessava più di tanto, altrimenti cosa facevi ……..
Non avevo ancora terminato il pensiero, che vidi lampeggiare due fari dall’altra parte dello spiazzo; <Mi sono liberata prima ed ho pensato di anticipare, caso mai tu …….> Indos

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   9 commenti     di: Ivan


Liebe del cuore

Liebe da una vita e nel mio cuore, ero piccolina e gia giocavo
con lui nella mia fantasia, lo immagginavo in tutte le situazioni
le avevo dato un volto, un nome un carattere ben definito,
e ed era non solo il mio compagno di giochi preferito, ma anche un padre un amico tutto per me. E  pure ho sempre avuto una famiglia unita, dei genitori mai separati tra loro
ma Liebe era ed è piu importane di mio padre stesso.
Venendo alla storia, una sera andai a trovare una signora anziana in ospedale. Era una piovosa sera di novembre
ed io ero triste come al solito perche' mancava liebe nella mia realta( finche ero piccola mi poteva bastare sognarlo ma
piu diventavo adulta e piu lui mi mancava tanto che la sua assenza era divenuta insostenibile). Dicevo arrivata in ospedale con un taxi entrai nello spaccio di quest'ultimo per comprare qualcosa da regalare alla vecchietta, all'uscita  ebbi come la suggestione di guardare in su, e notai nella vetrata dell'ingresso alla cappellina un persona che mi guardava
non ci feci caso piu di tanto ed entrai nello stabile.
camminavo nello spazioso ingresso che ospita una cappella dove tutti i giorni si dice la S. Messa e notavo man mano che mi avvicinavo un giovane che se ne stava seduto sulla panchina fuori dalla porta della capellina. Piu mi avvicinavo e piu quel giovane sembrava liebe uscito dai miei sogni, cominciarono a tremarmi le gambe, mi mancava la terra sotto i piedi non sapevo se fermarmi oppure continuare a camminare ( temetti uno svenimento appena gli fui vicino: ma che importanza aveva tanto ero in ospedale). Si: non mi ero sbagliata ora gli ero praticamente vicino e la sua sagoma era quella del mio amato liebe. Con fil di voce mi feci coraggio e gli chiesi:<ciao posso sedermi?> e anche la voce era quella mentre rispose molto gentilmente:<certo siediti vicino a me:> voleva che gli sedessi vicino come se mi conoscesse da una vita. Dopo un attimo di silenzio gli chiesi:<come ti chiami?:>
:< ma tu conosci il mio nome

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   2 commenti     di: Maty' Sessa



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