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Racconti storici

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La lapide nera dei Dogi

Entrati nella imponente chiesa barocca di San Stae - nome che in dialetto veneziano significa Sant'Eustachio - si resta un poco sorpresi dal suo interno chiaro, non particolarmente pomposo ed " arrogante ", in vero contrasto con la facciata grandiosa dell'edificio che s'apre sul Canal Grande. In prossimità dell'ingresso principale il visitatore trova subito, ai propri piedi, una grande lapide nera, una sola lastra di marmo, con un teschio in rilievo. Vi si leggono, incise, le seguenti parole: NOMEN ET CINERES UNA CUM VANITATE SEPULTA. La posizione del sepolcro pare voluta, come se qualcuno, un tempo lontano, avesse deciso che quella lapide nera e la sua scritta fossero le prime cose che l'occasionale fedele o viandante, entrato nel tempio, doveva percepire. Una sorta di monito, su cui immediatamente l'uomo sconosciuto è chiamato a riflettere.
La scritta, come hanno attestato gli Studiosi dell'epoca settecentesca, è d'accompagnamento ai monumenti funebri dei Dogi dell'età Barocca. Ed infatti in questa chiesa sono sepolti i potentissimi dogi del 1700, Alvise II Mocenigo e Marco Foscarini.
L'iscrizione incisa sulla grande lapide nera merita una riflessione. Tradotta in italiano significa " il nome e le ceneri assieme confuse sono sepolte con la vanità". Ma ciò non basta, essendoci a mio parere, un significato che va " oltre" le lettere.
Cosa copre quella lapide? Innanzi tutto il NOMEN di un uomo. Certamente è un riferimento all'alto casato nobiliare, ciò che ha individuato e contraddistinto socialmente il Doge, nel suo potere e nella sua ricchezza. Tuttavia nella tradizione giudaico-cristiana, il " nomen" è quanto ha di più importante l'Uomo mentre è in vita. In questa tradizione di fede l'Uomo non è mai un soggetto generico. È il suo nomen che lo individua come singolo davanti a Dio. Chi ha il potere di dare i nomi alle persone, sin dall'Antico Testamento, è il Signore. Basta leggere il primo libro della Genesi, in cui, d

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Il segreto di villa concamarise

La vecchia serva Erminia era l'unica a conoscere il segreto di Villa Concamarise.
Erminia era una donna piccola, vecchia e curva. Si occupava di mansioni secondarie nella villa: in inverno badava che il fuoco non si spegnesse nel grande camino con la cappa sostenuta da due grifoni di tufo. In estate provvedeva a cercare erbe officinali nel grande parco, da usare per i decotti e gli impacchi.
La villa era grande e servi e serve giovani si occupavano dei lavori pesanti. Preparavano i cibi nella grande cucina che aveva la parete occupata da pentole in rame. Accudivano i cavalli nelle scuderie, gli animali nella stalla; in estate falciavano le messi, in autunno facevano la vendemmia. Inoltre nelle dependance c'erano falegnami per aggiustare carri e botti; fabbri per la manutenzione di portoni, serrature e per forgiare alabarde e spade; maniscalchi per ferrare i cavalli. E poi ancora tessitori, lavandaie, cameriere...
Erminia non aveva la forza per dedicarsi a queste attività. I suoi compiti erano di secondaria importanza, con una eccezione.
Due volte al giorno, la vecchia saliva il grande scalone col soffitto affrescato per arrivare al piano superiore. Da lì seguiva una scala di servizio per arrivare ai granai. Attraverso alcune stanze oscure stipate di ferraglia e oggetti in disuso, arrivava a una scaletta di legno con in fondo una porticina chiusa che immetteva nella torre Est. Questa era una cameretta con il pavimento di mattoni e finestre a bifora su due pareti. In quel posto era custodito il segreto della villa e questo segreto si chiamava Isabella.
Proprio così. Una fanciulla bella e bionda viveva rinchiusa lassù dove trascorreva le lunghe giornate da sola, senza nessuna compagnia. Fra la servitù, solamente la vecchia sapeva della sua esistenza e aveva ricevuto dal Conte Ottavio, il compito di accudirla. Portava gli avanzi dei cibi dalla cucina, peraltro abbondanti, cambiava l'acqua nel secchio di rame, portava dabbasso e svuotava i recipienti sporchi.

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   0 commenti     di: sergio bissoli


Il velo di Fathma

Seduto dietro alla caldaietta per scaldare l'acqua Al Maed prepara il the per tutto il mercato. È bravo, mescola le foglie di the con certe erbe strane. Il suo the è il migliore. Io, una piccola ragazzina bastarda, incuriosita dalla menomazione che lo costringe a muoversi a fatica, ho cominciato ad osservarlo. Nel nostro villaggio ci sono molte persone malate o invalide, ma lui ha un modo particolare di accarezzare la sua gamba ritorta; come fosse il ricordo di qualcosa di intenso che l'ha sfiorato, lasciandogli quel segno del proprio passaggio. . Lui si è accorto di me, appena scacciata dalla casa di un lontano parente, sporca e sola. Dopo qualche giorno mi ha chiesto di aiutarlo a portare il the ai suoi clienti nel bazar. Magari ha visto le cicatrici nascoste sulla mia anima. Oppure cerca solo un po' di compagnia. Gli piace raccontare delle storie; la storia di Fathma me l'ha raccontata dopo qualche tempo che ho cominciato a portare il the per lui. E con essa storie di uomini incontrati quando attraversava il deserto guidando le carovane o commerciando, prima di diventare ciò che è adesso. Io mi siedo accanto a lui, le gambe incrociate nella polvere, lo guardo spezzare le foglie nell'acqua e ascolto la sua voce un po' nasale che parla. Poi vado a cercare dei piccoli pezzi di rami per alimentare il fuoco del bollitore, intanto imparo a versare il the nei bicchieri facendolo cadere dall'alto, a sistemare tutto sui vassoi e a correre per le stradine affollate senza versarne neanche una goccia. Poso i bicchieri sui tavolini di legno e scappo prendendo quelli vuoti; lungo la strada dalle botteghe altre persone mi chiamano, così arrivata a destinazione riferisco gli ordini e lui mi riempie il vassoio con altri bicchieri.
Sono brava come portatrice di the, anche se sono una piccola ragazzina senza famiglia: una buona capacità di equilibrio, velocità nel percorrere stradine affollate, occhio attento per prevedere ed evitare urti fra il vassoio carico di bicchier

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   0 commenti     di: marco mariano


Inviolata

Dopo la dipartita di mia madre avvenuta il 12 marzo alle 9, 15, la prima cosa che ho cercato tra le sue cose, sono state le preghiere che Geny recitava ogni mattina e tutte le sere.
In un certo qual modo la considerazione che mia madre aveva sulla pratica religiosa era equivalente, se non addirittura maggiore, rispetto all'impegno che ella dispensava negli affari della famiglia. La preghiera era per Lei un insieme di cose: un'occasione di aggregazione contro la solitudine e le inquietudini, una possibilità di avere scambi interpersonali stimolanti e formativi ed infine, ma non per ultima, una missione personale.
Conversare con il Signore o parlare con un vicino, secondo Geny erano la stessa cosa; le questioni di Dio le erano familiari, esattamente come le attività quotidiane. Il rovistare tra le sue carte custodite gelosamente, significa ricostruire il suo percorso spirituale, le scelte e gli interessi della sua spiritualità.
L'intento di questa pubblicazione non è quello di fare del facile revisionismo morale su una persona che ha vissuto per alcuni versi una vita normale, travolta sì dagli affanni e dalle sofferenze, ma senza che abbia perso per un solo istante la speranza e la luce che illuminano il mondo, per questo il titolo "Incorrotta" è da interpretare come "incontaminata" dalle brutture del mondo o "pura" di spirito.
Tutto nasce attorno ad un ristretto nucleo di persone, costituito da mia madre, mia nonna, gli zii e da poche amiche che con Geny hanno condiviso difficoltà e speranze, frustrazioni e consolazioni, ombre plumbee e albe radiose; interamente irradiato dalla forza rigeneratrice della preghiera.
Nessun essere umano può essere talmente santo da guadagnarsi il Paradiso da sé, se non per l'intervento della Misericordia del Padre che esalta i meriti di ciascuno e cancella i peccati e i demeriti. Tale prassi vale anche per mia madre che in vita fu una donna sensibile verso i poveri ed i deboli, ma al contempo vulnerabile verso gli avv

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   1 commenti     di: Fabio Mancini


Amos e Mario. Italia anno di guerra 1943- IIa parte

A fine marzo 1943 Mario aderì al minuscolo gruppo clandestino di operai della fabbrica in cui lavorava. Divenne lui l'uomo che piazzava i pochi volantini all'interno dello stabilimento, gli venne insegnato come fare e quando muoversi. Apprese così che il materiale cambiava più volte mano, c'era un passamano di distribuzione interna tra i pochissimi attivisti. Si facevano delle " uscite" con questa stampa, poi si stava fermi per giorni e giorni in attesa degli eventi e che si calmassero le acque. Oltre a questo, Mario partecipava alle riunioni molto segrete del gruppo, alle quali erano presenti politici antifascisti che avevano già conosciuto il confino e in taluni casi erano ancora dei sorvegliati speciali. Conobbe così un muratore socialista, un calzolaio comunista, due avvocati , tutte persone che vivevano e agivano nell'ombra e nel pericolo per mantenere i contatti con altri gruppi nel territorio provinciale e oltre ; lo scopo era quello di diffondere e coinvolgere il più possibile in una protesta, contro la guerra e le condizioni di vita, anche le altre fabbriche della zona industriale e del porto.
Mario iniziò così una vita tesissima : smontava dal turno alle sei del mattino, dopo dodici ore alla lavorazione della pressa, riposava qualche ora a casa, appena qualche ora di sonno, duro e pesante ; poi via, nuovamente, egli spariva in qualche riunione con gli altri compagni. Si incontravano in posti oscuri e disparati: vecchi casoni da pesca abbandonati ai margini della laguna, il retrobottega di un tipografo o di qualche artigiano fidato, persino in una canonica... in questi incontri ci si scambiava opinioni su come procedeva della guerra, si ricevevano incarichi, si studiava come allargare la rete di penetrazione della protesta.
In casa, la madre di Mario non lo vedeva quasi mai e la poveretta lasciava per ore, sulla tavola, il piatto della cena destinato al ragazzo. Il padre,

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L'inizio della fine

Mio caro e vecchio amico,
più di trent'anni sono passati da quell'ultimo saluto alla stazione. Ricordo ancora le tue valigie fatte di corsa e la pioggia che batteva sui vetri della mia camera, che tante, troppe volte aveva assistito ai nostri assolati pomeriggi, trascorsi a parlare di musica e di amori finiti male. La stazione che faceva da sfondo al nostro amaro arrivederci, aveva l'odore acre dei giorni di pioggia e i passanti correvano frenetici verso chissà quale destinazione. Rivedo ancora il treno allontanarsi piano e sparire all'orizzonte;rimasi, allora, a fumare una sigaretta prima di tornare verso casa, col bavero del cappotto fin sopra la testa per ripararmi dalla pioggia. Era l'8 maggio 1978. L'inizio della fine, potrei aggiungere adesso, vista la triste realtà che ci avrebbe atteso, sorpreso. Mi fermai a bere del cognac, nel bar sotto casa, e discussi animatamente di politica con dei vecchi che, tra una un bicchiere di vino e una partita a scopone, citavano Marx e mi raccontavano dei loro trascorsi in guerra. Tornai a casa quasi ubriaco quella sera, e non appena poggiai le spalle sul letto, caddi in un sonno profondissimo. Venni svegliato la mattina verso le undici dalle grida del vicino;un democristiano militante, di quelli che invitano i preti a cena e vedono in tutti gli angoli di casa, aggirarsi l'oscuro spettro del comunismo. Gridava al telefono, penso, parole che non distinguevo bene, e batteva pugni sul muro, come in preda ad un raptus di follia. Mi alzai di scatto dal letto e poggiai l'orecchio sulla parete, per capire se aveva bisogno di aiuto, oltre che per pura curiosità.
- Le B. R. hanno ammazzato Moro, hanno trovato il corpo in una Renault rossa, in via Caetani-;
nonostante ci dividesse una gelida colata di cemento, poggiai la mano sul muro, quasi a voler lenire simbolicamente il suo dolore e la sua rabbia. Più di trent'anni oggi sono passati dal nostro ultimo saluto alla stazione sotto la pioggia, cosi come dall'uccisione dell'Onore

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   2 commenti     di: Alfonso


Il caso Gilberto Valle: Internet e l'arte possono istigare alla violenza?

Lo scrittore americano Mark Twain amava ripetere spesso:

"Truth is stranger than fiction, but it is because Fiction is obliged to stick to possibilities; truth isn't.

La realtà è più strana della finzione letteraria, ma questo avviene perchè la Fiction deve attenersi a un ordine di possibilità, dato dall'intreccio, al quale la realtà non deve sottostare."

Recentemente la corte distrettuale di Manhattan, dopo dodici giorni di udienze, ha messo sotto processo il poliziotto Gilberto Valle, 28 anni, imputato di aver accumulato in un file sul suo computer, foto e indirizzi di cento donne, progettando rapimenti per ucciderle e mangiarle con raffinate ricette.
Lo scorso settembre l'uomo è stato scoperto dalla moglie Kathleen Morgan che lo ha denunciato all'Fbi. Lei e alcune sue amiche erano nella folle lista cannibalesca del marito.
A convincere i giurati a trattenere l'uomo in carcere (il 19 giugno sarà emessa la sentenza definitiva e il poliziotto rischia l'ergastolo) sono state le prove portare in aula: le telefonate fatte dall'uomo per raccogliere informazioni sulle generalità e gli indirizzi delle sue potenziali vittime e in particolare i suoi deliranti commenti a queste informazioni scelte:
"Questa mi sembra facile da rapire, vive da sola. Pensavo di cucinarla a fuoco lento"
Ma di fatto Gilberto Valle non ha commesso praticamente alcun crimine.
E in America impazza il dibattito: un uomo può essere condannato a vita per le sue intenzioni, le sue fantasie e i suoi pensieri?

"Hannibal Lecter: Prima regola Clarice: semplicità. Leggi Marco Aurelio, di ogni singola cosa chiedi che cos'è in sè, qual è la sua natura. Che cosa fa quest'uomo che cerchi?
Clarice Starling: Uccide le donne.
Hannibal Lecter: No, questo è accidentale. Qul è la prima, la principale cosa che fa? Uccidendo che bisogni soddisfa?
Clarice Starling: Rabbia... Essere accettato socialmente... Frustazione sessuale signore...
Hannibal Lecter: No. Desidera. Questo è nella

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   1 commenti     di: Mauro Moscone



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