Erano da poco calate le tenebre, quella notte, quando dal castello prospiciente il Monte del tempio, furono udite forti grida che squarciarono il cielo sopra la colonna cavalcante di sette templari di ritorno dalla perlustrazione della valle a ridosso di Gerusalemme. Tutti i cavalieri si fermarono all'unisono e il primo di essi, tale Goffredo, alzò la mano indicando il maniero donde provenivano le grida. Armati di coraggio, e della propria spada, si mossero verso il pendio, attraverso un sentiero costeggiato da alberi di ulivo, che davano ampio riparo da eventuali occhi nemici.
Giunti a ridosso del fossato, sguainando le spade si mossero circospetti verso un lucernaio a destra del portone accanto alla torre sud. Altre forte grida, proveniente proprio dalla torre sud, gelarono i due cavalieri più vicini. Questi, lanciando le funi, si apprestavano a salire di soppiatto fino alla sommità della torre, con l'intenzione di sorprendere le sentinelle di vedetta.
Una di queste, si accorse di quanto stava accadendo, e mentre sciabolava la propria spada con l'intenzione di tranciare la fune, venne fulminato da un violento colpo al capo, procuratogli dal secondo cavaliere che a distanza di pochi metri dal primo, lestamente era riuscito a salire sulle mura merlate che congiungevano le torri. I due templari, di nuovo uniti, si mossero carponi verso l'entrata superiore della torre dove si intravedeva una ripida scalinata.
Un'assonnata sentinella presidiava l'accesso, ma un colpo al capo, ne assicurò rapidamente un sonno profondo. Non c'erano più ostacoli, oramai, dieci gradini scesi in un baleno e i due eroi si trovarono innanzi ad una nobildonna con le mani legate a due pesanti catene di ferro ancorate al muro in pietra. Due fragorose scintille, seguirono ad altrettanti due colpi di spada ben assestati e le catene spezzate caddero a terra. Il più robusto dei due cavalieri caricò il debole corpo della nobildonna sulle spalle, mentre l'altro circospetto e la spada in pu
Il mio nome fu Camille, cui volli aggiungere Marie, per la salubrità dei luoghi, splendide marine che ispiravono i miei dipinti, generalmente realizzati dall'unione di tinte trasparenti, proprie dell'acquerello, con qualche pennellata di colore ad olio. Realizzai anche con i pastelli, sullo sfondo acquerellato, l'immagine più sentita, quella delle maternità. Il mio casato fu quello dei marchesi di Belamì. Erroneamente, sono passata alla storia col nome di Mary Cassatt.
Fui la più oltraggiata tra le autrici, che nelle proprie raccolte, si ispirarono alle tonalità morbide degli eclettici pittori dell'Impressionismo. A ferirmi, non furono gli Impressionisti, verso i quali nutrivo ammirazione... ma i loro adulatori.
Io amavo la grafica e il colore, ma non avevo conoscenze... Sapevo bene di esprimermi secondo le mie emozioni, ma succube della concezione edonica, per la quale, non è concesso al pubblico meno addottorato, sapersi esprimere, mi trovai nell'anomala condizione, di chi chiede un parere: non per sapere, ma per avere un attestato d'amicizia. Ero una giovinetta; intrattenevo gli "amici" di papà, mostrando i miei lavori... Ma mi persuasi presto che il mio interpellarli, equivaleva per loro ad una supplica... Di poter fare parte anch'io, di un mondo d'élite, che invece, detestavo. Ad ogni richiesta, mi sentivo anch'io: era come se manifestassi la mia estrema volontà: "Illustre gente, datemi un parere... ad ognuno di voi farò un regalo."
Il nome di Cassatt (cosa da nulla), non mi fu dato, non dall'ambiente dell'aristocrazia borghese, né dall'umile gente di provincia. Furono gli avanguardisti di maniera, ad affibbiarmelo, confinandomi tra le donne, che osavano avere velleità artistiche. Gli avanguardisti erano gruppi radicali, che si opponevano a qualsiasi manifestazione, dell'Io libero e pensante. Essi, come solevano definirsi furono la borghesia incipiente.
Io non ero una fanciulla estroversa, a parere di tutte quelle persone, che abitualmente and
È il racconto di una vicenda realmente accaduta, frammento di un passato lontanissimo e misterioso che attraverso le narrazioni di mia nonna e di mio padre è arrivato fino a me. Magicamente mi ha proiettata a ritroso nel tempo, un tempo senza date e senza altri riferimenti di rilievo, dove la fantasia ha colmato la lacune narrative trasformando poche parole in una storia. Ed ecco una voce all'infinito, per raccontare della dura contrapposizione tra uomini e lupi nella lotta per la sopravvivenza e di Zuanne, l'avo più lontano, che non s'è perso nell'oblio del passato.
-Mamma, perché la luna ha gli occhi tristi?
-Dove li vedi gli occhi sulla luna? Sorrideva sua madre.
Zuanne, trascorreva tanto tempo a scrutare la luna quando, bella piena, troneggiava nel cielo come una regina. I suoi occhi di bambino ne coglievano un'espressione perennemente tragica e sofferente, che non riusciva a spiegarsi e a descrivere alla madre con la sua semplicità di bambino.
-Sarà che da lassù osserva tutte le nostre miserie - pensava - e ne è impietosita. Sarà che non può far nulla per alleviarle, se non regalare la sua luce d'argento.
Era quella una sera d'estate. Le abbondanti piogge primaverili avevano riempito i torrenti e i corsi d'acqua minori che solcavano le colline. Il fosso, che scorreva vicino alle case, rumoreggiava come una cascata.
Faceva caldo, più caldo del solito, ma forse era una sensazione condizionata dagli eventi e l'afa soffocante portava con sé un'umidità insopportabile.
Dal Col de Fer, il colle più alto, un castello sovrastava la piana sottostante formata dall'incontro tra due valli, e consentiva una buona panoramica su una zona importante di collegamento tra la pianura e la montagna e tra la pianura veneta e quella friulana.
La sua terra ricca di ferro conferiva al suolo un colore rossastro che aveva suggerito il nome dell'altura, ma c'era anche un'altra interpretazione legata a quel nome: la sua inespugnabilità da parte dei nemici.
Il 6 luglio 1902 nel tentativo di sottrarsi ad una violenza sessuale, Maria Goretti subisce con un punteruolo 14 ferite e dopo una lenta agonia di 24 ore, muore alla prematura età di 11 anni, 8 mesi e 21 giorni presso l'ospedale di Orsenico di Nettuno. Il 24 giugno del 1950 Papa Pio XII la canonizza, perché: " con una forte e generosa volontà, sacrificò la sua vita pur di non perdere la gloria della verginità".
Ma cosa ha di tanto speciale la Goretti rispetto alle tante donne che oggi vengono violentate o soppresse? Anche per loro, perché non si parla di santità, ma solo di martirio?
La santità di Maria Goretti si concretizza non soltanto negli ultimi istanti della sua breve vita con l'immediato quanto clamoroso perdono offerto al suo assassino, ma nasce e si sviluppa nella quotidianità e all'interno della sua famiglia.
All'età di 10 anni, Maria perde il padre stroncato dalla malaria e nonostante la propria sofferenza, consola la madre dicendole: "Mamma, non ti preoccupare... io prenderò il tuo posto in casa". È grazie alla generosità dell'adolescente che la madre può sostenere la famiglia con il lavoro nei campi, prendendo il posto del defunto Luigi Goretti.
Del padre Maria assimila il senso della Provvidenza che si manifesta anche nelle più grandi difficoltà, mentre dalla madre la fanciulla impara il primo rudimentale catechismo, ma è da entrambi che Maria apprende l'umiltà e il rispetto per il lavoro.
Con naturalezza l'adolescente si occupa della colazione, dell'approvvigionamento dell'acqua al pozzo, della cura dell'orto e del pollaio, della pulizia delle stanze, della cucina, del rammendo degli indumenti e della cura dei fratellini : Angelo, Mariano, Alessandro, Ersilia e Teresa. E sul finire della giornata Maria recita le preghiere che però spesso non completa per la stanchezza.
Nonostante l'impegno e la premura profusi, la piccola Maria riceve i rimproveri della madre, in qualche occasione riceve schiaffi e calci e una tan
Cap 1 (prima ora)
Siamo all'incirca nel 1630, chi scrive, è "recluso" in un Convento isolato, sui Pirenei...
"Noi, Papa….., per misericordia divina Inquisitore Generale, fidando nelle vostre cognizioni e nella vostra retta coscienza... vi nominiamo, costituiamo, creiamo e deputiamo quale fidelis filium fra gli inquisitori apostolici contro la depravazione eretica e l’apostasia nell’Inquisizione di Nostro Signore.. voi Aloisius de la Cruz e vi diamo potere e facoltà di indagare su ogni persona, uomo o donna, viva o morta, assente o presente, di qualsiasi stato e condizione... che risultasse colpevole, sospetta o accusata del crimine di apostasia e di eresia, e su tutti i fautori, difensori e favoreggiatori delle medesime".
Con oggi, son giusto 10, gli anni che porto i segni di questa Bolla; io Certosino dedito agli studi più che alla battaglia, io, impegnato nella traduzione di Platone, al quale ho dedicato anni a lui ed alla sua “de Re Publica”, sì, son proprio io, il belante animale che contrito verga queste righe, nell’ora, nella sola ora ogni 24, che m’è dato essere ancora uomo!
Ma necessita che anteponga ai fatti, la mia storia:
battezzato alla nascita, per volere di mia madre, Aloisio, ed impostomi il di lei cognome, quasi fatidico direi, essendo cadetto, m’erano offerte due strade, indossare l’armatura, al servizio del Re, o indossare il saio al servizio del Re dei Re, io nemico per istinto della guerra, ho scelto pur senza logica di fede, il saio.
L’essere uomo di Chiesa, m’ha consentito di accedere a Biblioteche per molti proibite, di conoscere ed essere allievo di uomini illuminati di scienza, invasati di sete di conoscenza, adoratori del sapere, anche se questo comporta, evidentemente il dubitare della Fede.
Non so perché, né se si trattò di uno scambio di persona, ma quando 10 anni fa, fui convocato a Roma, in udienza pontificia, il mio stupore e confesso, paura, fu veramente grande.
Pensavo, infatti,
PREFAZIONE DELL'AUTORE
I fatti qua narrati ci riportano al lontano 211 Dopo Cristo, sempre nell'Impero Romano, per toccar con mano la tormentata vita del figlio di Settimio Severo, Caracalla.
Qua ho cercato di ripercorrere il dramma di un uomo.
Ancora una volta i fatti, seppur romanzati, sono veramente accaduti e nomi o persone sono reali, fidandoci dell'attendibilità di molte fonti storiche.
Buona Lettura.
Lucio Settimio Bassiano soleva in quei tiepidi giorni settembrini giocare nei Giardini Reali con Livio Didone, il suo migliore amico, suo immancabile compagno di giochi, l’eterno fanciulletto biondo che sprizzava energia e trascinava Lucio per le vie più nascoste e più buie di Roma, le più belle, le più magiche.
Lucio era uno dei bambini più in vista a Roma. Figlio dell’Imperatore Settimio Severo, Lucio discendeva da quel magnifico filosofo che era stato Marco Aurelio e dalla la sua superba casata. E sua madre, Giulia Domna, direttamente dalla recente casata del ricchissimo senatore Oreste Gruccia. Lucio, all’età di sette anni, sapeva quanto di importante c’era da sapere sulla Letteratura Greca, si comportava a Palazzo come un vero e proprio signorotto nobile, educato, affabile, premuroso, carezzevole, disponibile come pochi figli reali lo erano stati.
Settimio era orgoglioso di Lucio, se lo portava sempre con sé alle assemblee più importanti in Senato e a cavallo tra le magnifiche province d’Oriente.
Lucio aveva anche un fratello, Antonino Geta, con il quale non aveva un rapporto così affiatato come lo aveva con Livio, ma lo trattava lo stesso con quella generosità, con quella sensibilità, che facevano di lui una delle persone più apprezzate dal popolo e dal senato stesso.
Lucio adorava passare pomeriggi, quando non era impegnato con il magister Filone a ripassare Omero o qualche passo dell’Eneide, con il suo inseparabile Livio, con il quale adorava appostarsi ai Mercati Traianei e spiare sogghignando le bellissime fa
Entrati nella imponente chiesa barocca di San Stae - nome che in dialetto veneziano significa Sant'Eustachio - si resta un poco sorpresi dal suo interno chiaro, non particolarmente pomposo ed " arrogante ", in vero contrasto con la facciata grandiosa dell'edificio che s'apre sul Canal Grande. In prossimità dell'ingresso principale il visitatore trova subito, ai propri piedi, una grande lapide nera, una sola lastra di marmo, con un teschio in rilievo. Vi si leggono, incise, le seguenti parole: NOMEN ET CINERES UNA CUM VANITATE SEPULTA. La posizione del sepolcro pare voluta, come se qualcuno, un tempo lontano, avesse deciso che quella lapide nera e la sua scritta fossero le prime cose che l'occasionale fedele o viandante, entrato nel tempio, doveva percepire. Una sorta di monito, su cui immediatamente l'uomo sconosciuto è chiamato a riflettere.
La scritta, come hanno attestato gli Studiosi dell'epoca settecentesca, è d'accompagnamento ai monumenti funebri dei Dogi dell'età Barocca. Ed infatti in questa chiesa sono sepolti i potentissimi dogi del 1700, Alvise II Mocenigo e Marco Foscarini.
L'iscrizione incisa sulla grande lapide nera merita una riflessione. Tradotta in italiano significa " il nome e le ceneri assieme confuse sono sepolte con la vanità". Ma ciò non basta, essendoci a mio parere, un significato che va " oltre" le lettere.
Cosa copre quella lapide? Innanzi tutto il NOMEN di un uomo. Certamente è un riferimento all'alto casato nobiliare, ciò che ha individuato e contraddistinto socialmente il Doge, nel suo potere e nella sua ricchezza. Tuttavia nella tradizione giudaico-cristiana, il " nomen" è quanto ha di più importante l'Uomo mentre è in vita. In questa tradizione di fede l'Uomo non è mai un soggetto generico. È il suo nomen che lo individua come singolo davanti a Dio. Chi ha il potere di dare i nomi alle persone, sin dall'Antico Testamento, è il Signore. Basta leggere il primo libro della Genesi, in cui, d
La pagina riporta i titoli delle opere presenti nella categoria Racconto storico.