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Racconti storici

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1989, opinioni

Il piccolo ha fame, ha freddo, piagnucola. Hanna si tiene al braccio libero, con l’altro tengo il piccolo. Siamo qua, tutti e tre, davanti a poit Charlie che aspettiamo di passare. C’è tanta gente.
Dicono che possiamo passare. Chi lo dice? L’hanno detto alla radio. Cosa hanno detto? Che aprono i posti di blocco. Quando? Sono già aperti. Scherzi? No.
Avevo lasciato la birra a metà ed ero corso a casa. Hanna stava preparando la cena, Klaus giocava.
Hanno detto che aprono i posti di blocco… che sono già aperti. Hanna mi guardava come si guarda un pazzo. Vestilo, indicavo Klaus, andiamo.
Voglio andare a casa. No Klaus, dobbiamo andare di là. Ho fame. Resisti. Ho freddo. Resisti. Cosa c’è di là? La libertà. Che cos’è la libertà? Avere fame e avere freddo se ne hai voglia.
Klaus mi guardava poco convinto.
Klaus, oggi siamo un pezzo di storia, non possiamo stare a casa, non possiamo stare al caldo, dobbiamo andare e vedere. Dobbiamo scegliere di avere fame e freddo e di stare qui in piedi, in questa notte fredda.
Klaus? Dimmi. Ti ricordi la sera che cadde il muro? Si. Com’è stata? Fredda, la gente applaudiva quando passammo e mio padre piangeva e rideva, libero, tra i palazzi grigi e la notte.

-Eccole la, le formiche impazzite-
Aveva sentito alla radio che aprivano i posti di blocco, si era versato un cognac. Ora se ne stava alla finestra e guardava tutta quella confusione di gente che passava sotto la sua finestra verso il maledettissimo Ceckpoint Charlie. Erano passate due ore dalla comunicazione e tutti correvano a vedere. Portò la bottiglia di cognac alle labbra. Era nell’aria, certo, era nell’aria. Si sentiva che qualcosa scricchiolava, prima i bastardi Ungheresi, e adesso guarda… Cambierà tutto, maledetti bastardi, farete cambiare tutto.
La moglie lo guardava nascosta dietro la porta della cucina. Non l’aveva mai visto bere così, solo.
State distruggendo tutto, maledette formiche impazzite, tutto il mio mondo.
La s

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   9 commenti     di: Umberto Briacco


Dalmasso, da Cuneo

Adalberto, funzionario sabaudo, non aveva mai visto quell'oggetto; lo guardò bene ma proprio non capiva neanche a cosa potesse servire.
Provò a chiedere anche ad altri colleghi impegnati nel censire gli oggetti della reggia, ma anche loro non sapevano cosa scrivere per classificare quella "cosa".
La forma tondeggiante e quelle strane zampette lo classificavano come un contenitore, ma di cosa? Cosa c'era che potesse giustificare quella forma allungata, quale oggetto poteva contenere?
Alla fine, non sapendo di cosa si trattasse né a cosa servisse, in accordo con i colleghi, lo catalogò come "oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra".
Il conquistatore piemontese conobbe, nella reggia di Caserta, il "bidet".


Centodieci storico



La Brigata del Duca

Si apprestava a uscire, il Duca. La sua epoca volgeva all'occaso, la storia gli girava le spalle.
Il suo tempo ormai era concluso.

Aveva cominciato la giornata con la vestizione, anche se immaginava che all'uscita non ci sarebbe stato nessuno ad attenderlo. In cuor suo sperava solo di non assistere ai lanci di frutta e al "codardo oltraggio" lungo la via dell'esilio, che temeva facesse seguito al "servo encomio" che molti gli avevano tributato da quando era asceso al trono, e che molti tributavano ai regnanti spazzati dall'onda di "mar commosso" che li colpiva.
E più l'encomio era stato servo, maggiore era, poi, l'oltraggio.

Un'insolita calma "regnava", si può ben dire, nel Palazzo Ducale, nessuno si faceva vedere, e questo gli metteva una certa ansia, unita al fatto che sarebbe stata l'ultima volta che avrebbe percorso i corridoi e le stanze che costituivano la reggia.

Sapeva che si era comportato bene, specie in quell'ultimo atto, non aveva voluto che nessuno si facesse male. La sorte era segnata e dunque era inutile sacrificare il suo piccolo esercito in una difesa che sarebbe stata vana di fronte ad un esercito tanto più numeroso e armato del suo.
"Sono più belle le nostre uniformi, che efficaci e numerose le armi" - aveva detto al suo consigliere.
Tutta la rabbia, l'aveva riposta in una lettera fatta recapitare all'ambasciatore di chi stava per impossessarsi del suo Ducato.
"Noi dobbiamo dunque a nostro malgrado volgere lagnanze verso il governo nostro vicino che intese a soppiantarci e, senza giusti motivi, considerarci come nemici..."

"Touchez..." almeno pensava lui, toccava con la penna, perché non aveva potuto farlo con la spada.

Percorrendo l'ultima parte dei corridoi, e avvicinandosi alla porta, cominciò a sentire il rumore che fanno le persone in silenzio, dentro il palazzo e fuori dal grande portone che si apriva sul cortile interno dove lo aspettava la carrozza che lo avrebbe portato verso l'esilio. Che poi tanto esilio non

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Don Giuseppe Puglisi: la forza del garbo

Chissà se esiste una relazione del tutto trascendente fra persone tra loro sconosciute, vissute in luoghi e in epoche differenti, ma accumunate dal coraggio e segnate dal medesimo destino?
Cosa hanno in comune il vescovo salvadoregno Óscar Arnulfo Romero e il sacerdote palermitano don Giuseppe Puglisi?
Entrambi furono assassinati, in virtù della loro testimonianza: Óscar Arnulfo Romero fu trucidato con una pallottola che gli recise la vena giugulare, mentre stava elevando l'ostia; Giuseppe Puglisi fu soppresso con un colpo di pistola alla nuca, mentre stava rientrando nella propria abitazione.
Con atteggiamento profetico il vescovo salvadoregno annunciava: "Un vescovo potrà morire, ma la Chiesa di Dio, che è il popolo, non morirà mai".
E come non estendere tale formulazione anche a don Puglisi e a tutti i martiri della Chiesa?
Può una pallottola mettere a tacere la voce univoca della Comunità cristiana?
Presto Don Giuseppe sarà beatificato per poi essere elevato all'onore degli altari come primo martire della mafia, deceduto in odio alla fede.
La cronaca nera rilevava che il 15 settembre 1993 il corpo di don Giuseppe giaceva a terra, privo di vita.
3P (acronimo delle iniziali Padre Pino Puglisi) veniva chiamato così dai suoi parrocchiani, terminava la sua avventura terrena il giorno del suo 56° compleanno.
Una strana coincidenza... eppure un altro elemento conferisce alla vicenda un significato un po' particolare: il giorno dell'omicidio don Puglisi indossava un clergyman, anziché la solita camicia a scacchi.
A qualche parrocchiano che glielo aveva fatto notare, don Giuseppe aveva spiegato che quel giorno doveva celebrare più matrimoni. A me piace pensare che il Signore lo abbia chiamato a sé, abbigliato con il suo abito migliore, in vista dell'imminente unione mistica con quell'anima devota.
Forse qualcuno potrebbe chiedersi: qual è il confine tra il dovere deontologico e il valore aggiunto della santità?
Perché la mafia ha inviat

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   3 commenti     di: Fabio Mancini


Sotto falsa bandiera

Il notaio Di Girolamo entrò nella stanza, dove fu fatto accomodare su una poltroncina davanti alla scrivania.
"Prego notaio, leggiamo questa lettera postuma del Saccaccini, sono curioso" disse il commissario Sacco.
Il notaio cominciò la lettura della lettera...

Cari concittadini,
a distanza di trenta anni ho chiesto allo studio del notaio Di Girolamo, di rendere nota questa mia.
Tutti sappiamo della mia morte avvenuta per mano del regime che oggi ci tiene sotto il suo giogo. Spero vivamente che, a distanza di tanti anni, la dittatura sia finita attraverso la progressiva presa di coscienza della popolazione sulla natura del regime che oggi ci opprime.
La mia morte avrà certamente provocato un ampliarsi dei sentimenti di ostilità, che vedo oggi sempre più manifestarsi nella nostra città e nella nazione in generale.
Per rendere omaggio alla realtà, però, voglio confessarvi, anche se in maniera postuma, la realtà di questi giorni.
La causa della democrazia e del riscatto di tutto il nostro popolo, sono stati per me la pietra miliare, il faro a cui volgere sempre il mio sguardo, il fine da perseguire senza incertezze e con tutti i mezzi. Non è stato lo spirito machiavellico che mi ha spinto a progettare ciò che ho fatto, ma quello di rendere un servigio, di essere agevolatore, di dare un contributo alla fine della dittatura.
La sostanza della giusta causa, non può interferire con l'azione delle persone per mano delle quali procede, né con le loro motivazioni personali.

Vi confesso oggi che la mia uccisione, trenta anni fa', non è stata opera del regime che combattevo, ma dei miei stessi compagni di lotta. D'accordo con me.
Il Danti, il Marchi e lo Scotti hanno eseguito ciò che io gli avevo ordinato.
Oramai mi restano pochi mesi di vita lucida, prima che la malattia mi renda estraneo a me stesso, così ho pensato di fare della mia vita una vita martirizzata per una causa superiore.
L'omicidio, lo sapete, avverrà nel bar in piazza, co

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Il Murenaio

Ponza all’epoca dell’imperatore Tiberio

La piccola nave oneraria ha appena lasciato il porto di Ostia per dirigersi verso l’isola di Ponza.
Heraclides, il gubernator (capitano/timoniere), di origine greca e con una grande esperienza alle spalle, dopo aver impartito gli ordini a Rufinus il pansarius (secondo e nostromo) per raggiungere il mare aperto, sale a prua per valutare lo stato del mare e “fiutare” il vento.
“Il mare è calmo ed il vento, anche se debole, soffia a nostro favore, se tutto procede così arriveremo a Ponza all’ora undecima!”
“Sì è così, Heraclides.” Conferma soddisfatto Rufinus.
“Hai controllato bene la zavorra, Rufinus?” Gli dice con tono di comando, anche se conosce bene le qualità del suo nostromo, ma gli piace ribadire, anche nei compiti abituali, la sua prerogativa di comandante della nave.
“Sì, la zavorra è ben distribuita e salda allo scafo.”
“Bene, bravo!” Gli risponde con sussiego.

Dopo tanti anni di mare e di esperienza anche sulle naves longae sulle quali ha combattuto in diverse battaglie, vuol dimostrare che solo l’età e la famiglia cui deve provvedere l’hanno indotto a comandare navi mercantili, ma che l’autorità e la professionalità non sono mutate.
Spesso, durante le navigazioni lunghe e le bonacce, si compiace di raccontare ai suoi marinai le sue “gesta” d’intrepido guerriero del mare, anche se loro, ormai, conoscono quasi a memoria tutti i fatti narrati e lo sopportano perché, in fondo, è un brav’uomo ed un ottimo marinaio e navigare con lui, li fa sentire più sicuri che con altri comandanti.
Grazie al suo carattere ed alle sue conoscenze, riesce sempre a trovare dei buoni clienti che si affidano a lui e difficilmente stanno lungo tempo senza un ingaggio.

“Anche questa volta torniamo a Ponza capitano!”
“Sì, andiamo a caricare alcune derrate alimentari ed anche questa volta un bel numero di murene, con la differenza, però, che il nostro committent

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   1 commenti     di: Sergio Maffucci


La liberazione della regina di Gerusalemme

Erano da poco calate le tenebre, quella notte, quando dal castello prospiciente il Monte del tempio, furono udite forti grida che squarciarono il cielo sopra la colonna cavalcante di sette templari di ritorno dalla perlustrazione della valle a ridosso di Gerusalemme. Tutti i cavalieri si fermarono all'unisono e il primo di essi, tale Goffredo, alzò la mano indicando il maniero donde provenivano le grida. Armati di coraggio, e della propria spada, si mossero verso il pendio, attraverso un sentiero costeggiato da alberi di ulivo, che davano ampio riparo da eventuali occhi nemici.
Giunti a ridosso del fossato, sguainando le spade si mossero circospetti verso un lucernaio a destra del portone accanto alla torre sud. Altre forte grida, proveniente proprio dalla torre sud, gelarono i due cavalieri più vicini. Questi, lanciando le funi, si apprestavano a salire di soppiatto fino alla sommità della torre, con l'intenzione di sorprendere le sentinelle di vedetta.
Una di queste, si accorse di quanto stava accadendo, e mentre sciabolava la propria spada con l'intenzione di tranciare la fune, venne fulminato da un violento colpo al capo, procuratogli dal secondo cavaliere che a distanza di pochi metri dal primo, lestamente era riuscito a salire sulle mura merlate che congiungevano le torri. I due templari, di nuovo uniti, si mossero carponi verso l'entrata superiore della torre dove si intravedeva una ripida scalinata.
Un'assonnata sentinella presidiava l'accesso, ma un colpo al capo, ne assicurò rapidamente un sonno profondo. Non c'erano più ostacoli, oramai, dieci gradini scesi in un baleno e i due eroi si trovarono innanzi ad una nobildonna con le mani legate a due pesanti catene di ferro ancorate al muro in pietra. Due fragorose scintille, seguirono ad altrettanti due colpi di spada ben assestati e le catene spezzate caddero a terra. Il più robusto dei due cavalieri caricò il debole corpo della nobildonna sulle spalle, mentre l'altro circospetto e la spada in pu

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   2 commenti     di: Fuvell Altego



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