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Racconti storici

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Vita di corte

La vita di due principesse aspiranti al trono della dinastia Asburgo-Lorena sembra semplice, piena di agiatezze, lussi e spensierata felicità. Il vostro narratore Ulrich vi dice che non tutto quel che sembra facile lo è davvero, la vita va dove gli pare e le difficili asprezze non si risparmiano a nessuno, neanche a chi potrebbe vivere su un tappeto di rose.
Le due principesse sono sorelle e vivono a Mainz dove scorrono due fiumi che si intersecano cambiano il nome e una sola consonante, il Reno e il Meno, così diversi, così simili, sempre vicini e mai uguali. Belli i loro nomi che la regina madre Gertrud scelse per loro: Geike e Franziska come una zia diretta ed una cugina di secondo grado. Il maschio tanto aspettato erede al trono non arrivò mai: Gertrud era delicata, forte di carattere e organizzata ma dopo le due gravidanze si debilitò talmente che non riuscì più a portarne a termine altre. Con il disappunto delle cortigiane che presero a chiamarla "la tirolese" in segno di scherno per le sue origini basso-austriache (era di Graz) di fisico compatto ma minuto, diverse dalle floride tedesche della zona occidentale. Il re Ludwig suo marito non la amava, sposo a 17 anni per volere degli uomini vicino al Governatore, esigenze politiche e di dinastia, il sovrano per tutta la sua breve vita pensò pochissimo al suo popolo e condusse la sua esistenza fra abbondanti libagioni e frequentazioni femminili al di fuori del matrimonio. L'educazione delle figlie rimase affidata a Gertrud che mai acconsentì ad affidarle le bimbe a nutrici e istitutori, attirandosi nuove critiche che la dipinsero come poco aristocratica e tendente al borghese. Avrebbe voluto opporsi anche all'ingresso dell'Abate Hans ma le rigide regole dell'etichetta reale lo impedirono. L'istinto di Gertrud non sbagliò, l'Abate avrebbe dovuto avviarle ai precetti religiosi ma si rivelò, superstizioso e abbastanza incline alle pratiche esoteriche nonché sessualmente represso, ma la vigile attenzion

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I grandi Santi che hanno fatto la storia: Santa Maria Goretti

Il 6 luglio 1902 nel tentativo di sottrarsi ad una violenza sessuale, Maria Goretti subisce con un punteruolo 14 ferite e dopo una lenta agonia di 24 ore, muore alla prematura età di 11 anni, 8 mesi e 21 giorni presso l'ospedale di Orsenico di Nettuno. Il 24 giugno del 1950 Papa Pio XII la canonizza, perché: " con una forte e generosa volontà, sacrificò la sua vita pur di non perdere la gloria della verginità".
Ma cosa ha di tanto speciale la Goretti rispetto alle tante donne che oggi vengono violentate o soppresse? Anche per loro, perché non si parla di santità, ma solo di martirio?
La santità di Maria Goretti si concretizza non soltanto negli ultimi istanti della sua breve vita con l'immediato quanto clamoroso perdono offerto al suo assassino, ma nasce e si sviluppa nella quotidianità e all'interno della sua famiglia.
All'età di 10 anni, Maria perde il padre stroncato dalla malaria e nonostante la propria sofferenza, consola la madre dicendole: "Mamma, non ti preoccupare... io prenderò il tuo posto in casa". È grazie alla generosità dell'adolescente che la madre può sostenere la famiglia con il lavoro nei campi, prendendo il posto del defunto Luigi Goretti.
Del padre Maria assimila il senso della Provvidenza che si manifesta anche nelle più grandi difficoltà, mentre dalla madre la fanciulla impara il primo rudimentale catechismo, ma è da entrambi che Maria apprende l'umiltà e il rispetto per il lavoro.
Con naturalezza l'adolescente si occupa della colazione, dell'approvvigionamento dell'acqua al pozzo, della cura dell'orto e del pollaio, della pulizia delle stanze, della cucina, del rammendo degli indumenti e della cura dei fratellini : Angelo, Mariano, Alessandro, Ersilia e Teresa. E sul finire della giornata Maria recita le preghiere che però spesso non completa per la stanchezza.
Nonostante l'impegno e la premura profusi, la piccola Maria riceve i rimproveri della madre, in qualche occasione riceve schiaffi e calci e una tan

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   4 commenti     di: Fabio Mancini


Isabelle (parte 4)

Prepararsi alla festa, fu un tormento.
Isabelle indossò l'abito damascato dalle varie sfumature di rosso, ma il peso le era insopportabile. La giornata calda non rendeva la situazione particolarmente felice. Juliette dopo aver tollerato per qualche minuto l'insofferenza della sorella, manifestatamente ostile anche nei confronti dell'acconciatura, si decise, rassegnata ad uscire dalla stanza.
Isabelle, ora sola, sbirciò oltre la finestra e vide piccole sagome agitarsi nel cortile, bambini giocherellare con gli scudieri già bardati a festa, giovani damigelle vestite di bianco, dai lunghi capelli lucenti scambiarsi piccoli mazzi di fiori per adornarsi abito e chioma, giovani soldati lucidare le armature appresso ai cavalli nervosi, che di tanto in tanto scalpitavano quasi impazienti di affrontare la sfilata inaugurale del Torneo.
Pensò che proprio lo stato d'animo di quelle creature poteva, pi? di ogni altro, rappresentare il suo, in quel preciso istante. L'istinto l'avrebbe sicuramente spinta a fuggire dal compito che l'attendeva. Le pareva di essere un condannato a morte. Suvvia, si disse, non sarebbe finita la vita. Ma non riusciva a stemperare l'insoddisfazione. La notizia del matrimonio le aveva rovinato la festa, tanto attesa. Si decise a raggiungere la famiglia nella sala d'entrata quando udì un vociare tra la folla e si accostò alla finestra per osservare meglio."Non ho paura di voi potenti, non mi spaventano gli stemmi nobiliari, ho come unico rimpianto, di non potervi sfidare a duello, so che sarebbe un affronto, per voi, battervi contro un semplice cavaliere". Francoise, pronunciava queste parole alterato in volto e, davanti a lui, vi era un uomo di cui Isabella poteva solo intravedere il profilo, i due erano circondati da una piccola folla, formata perlopiù da donne meravigliate. L'uomo di fronte a Francoise pronunciò qualche parola, ma Isabelle non riuscì a percepire, notò invece, sul mantello verde acceso uno stemma che non aveva ma

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Il velo di Fathma

Seduto dietro alla caldaietta per scaldare l'acqua Al Maed prepara il the per tutto il mercato. È bravo, mescola le foglie di the con certe erbe strane. Il suo the è il migliore. Io, una piccola ragazzina bastarda, incuriosita dalla menomazione che lo costringe a muoversi a fatica, ho cominciato ad osservarlo. Nel nostro villaggio ci sono molte persone malate o invalide, ma lui ha un modo particolare di accarezzare la sua gamba ritorta; come fosse il ricordo di qualcosa di intenso che l'ha sfiorato, lasciandogli quel segno del proprio passaggio. . Lui si è accorto di me, appena scacciata dalla casa di un lontano parente, sporca e sola. Dopo qualche giorno mi ha chiesto di aiutarlo a portare il the ai suoi clienti nel bazar. Magari ha visto le cicatrici nascoste sulla mia anima. Oppure cerca solo un po' di compagnia. Gli piace raccontare delle storie; la storia di Fathma me l'ha raccontata dopo qualche tempo che ho cominciato a portare il the per lui. E con essa storie di uomini incontrati quando attraversava il deserto guidando le carovane o commerciando, prima di diventare ciò che è adesso. Io mi siedo accanto a lui, le gambe incrociate nella polvere, lo guardo spezzare le foglie nell'acqua e ascolto la sua voce un po' nasale che parla. Poi vado a cercare dei piccoli pezzi di rami per alimentare il fuoco del bollitore, intanto imparo a versare il the nei bicchieri facendolo cadere dall'alto, a sistemare tutto sui vassoi e a correre per le stradine affollate senza versarne neanche una goccia. Poso i bicchieri sui tavolini di legno e scappo prendendo quelli vuoti; lungo la strada dalle botteghe altre persone mi chiamano, così arrivata a destinazione riferisco gli ordini e lui mi riempie il vassoio con altri bicchieri.
Sono brava come portatrice di the, anche se sono una piccola ragazzina senza famiglia: una buona capacità di equilibrio, velocità nel percorrere stradine affollate, occhio attento per prevedere ed evitare urti fra il vassoio carico di bicchier

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   0 commenti     di: marco mariano


Torquato Tasso in quel Pavia : quel dimenticato mese

In quasi tutte le biografie di Torquato Tasso ( 1544-1595) non si riferimento alcuno, nella narrazione del suo doloroso e tormentato percorso terreno, alla brevissima sua presenza, circa un mese, dalla fine dell'aprile fino al chiudersi del mese di maggio del 1566 nella città di Pavia. A tale dimenticanza ha provveduto a suo tempo con dovizia di notizie Pietro Moiraghi in un agile volumetto dal titolo "Torquato Tasso a Pavia" -Rapsodia Storica- edito (1895-96) per i tipi della Tipografia del "Corriere Ticinese" e che offre nel contesto di tale permanenza un interessante e curioso "spaccato" della vita sociale e culturale della città di Pavia del XVI secolo. La principale motivazione di tale storico ricordo viene cosi motivata dal Moiraghi stesso nel Proemio di questo suo lavoro letterario: "Alle onoranze, che d'ogni parte d'Italia si tributano a Torquato Tasso, nel terzo centenario di sua morte, avvenuta in Roma il 25 Aprile 1595, Pavia ha il diritto ed il dovere di associarsi". Poi il Moiraghi, con riferimento alla visita fatta " in quel della città ticinense nel 1566 dal ventiduenne Torquato" così continua: " Sulle rive del Ticino dimorò un mese il grand'Epico Italiano, forse qui meditando qualche canto della Gerusalemme; certo nella città attinse, dalla viva voce del popolo e dai documenti delle Famiglie, tradizioni intorno alle Crociate ed ai luoghi di Palestina, facendone tesoro per immortalare nel suo poema alcuni dei nostri concittadini". È da ricordare che "Quando giunse in Pavia, Torquato aveva già composti vari canti della Gerusalemme ed alle sue peregrinazioni non erano estranei gi studi per il compimento e per la perfezione del poema" Infatti dopo Venezia e le città marittime a quei tempi " non vi era altra terra italiana, dove la leggenda e i racconti delle guerre d'Oriente destassero tanto entusiasmo come in Pavia." e " Pavia si trovava lungo la strada che dalle Gallie conduceva a Roma o a Genova o a Venezia" e " ben disp

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Dalmasso, da Cuneo

Adalberto, funzionario sabaudo, non aveva mai visto quell'oggetto; lo guardò bene ma proprio non capiva neanche a cosa potesse servire.
Provò a chiedere anche ad altri colleghi impegnati nel censire gli oggetti della reggia, ma anche loro non sapevano cosa scrivere per classificare quella "cosa".
La forma tondeggiante e quelle strane zampette lo classificavano come un contenitore, ma di cosa? Cosa c'era che potesse giustificare quella forma allungata, quale oggetto poteva contenere?
Alla fine, non sapendo di cosa si trattasse né a cosa servisse, in accordo con i colleghi, lo catalogò come "oggetto per uso sconosciuto a forma di chitarra".
Il conquistatore piemontese conobbe, nella reggia di Caserta, il "bidet".


Centodieci storico



Notte senza luna

Pregare. Ci sono momenti in cui non posso fare nient’altro.
Seduta su queste scomode poltroncine di plastica, in questi squallidi corridoi verdi che odorano di medicinali, prego un Dio che non conosco. Prego perché i medici riescano a salvarlo. Prego perché il chirurgo varchi le porte della sala operatoria con un sorriso e mi dica che Francesco ce l’ha fatta.
Crescono l’ansia ed il terrore. I secondi passano lenti ed inesorabili, diventano minuti, diventano ore e l’aria è sempre intrisa di paura e di speranza. Cresce la mia inquietudine, insieme al senso di impotenza. Non c’è nient’altro che possa fare. Pregare è tutto quello che mi resta.
- “Tieni, ti ho portato qualcosa di caldo” - È Maria che mi porge una tazza di tè bollente - “Devi cercare di prendere qualcosa, almeno tu”.
- “Grazie, non la voglio”.
- “I medici non si pronunciano. Dicono che è grave, che fanno il possibile. Nient’altro”.
Sospira trattenendo le lacrime e si siede accanto a me. È così vicina che potrei toccarla solamente allungando la mano, eppure il suo sguardo è spento e distante, perso in un mare di ricordi; forse lo stesso mare dove è perso il mio.
Ho conosciuto Francesco nel dicembre del ’70 sul treno. Ricordo quel giorno come se fosse ieri: eravamo entrambi diretti a Roma, ma per motivi completamente diversi. Lui ed i suoi amici andavano ad aderire per solidarietà ad una manifestazione. Io andavo a dare il mio esame di diritto romano.
Ricordo che cercavo di dare un ultimo sguardo distratto agli appunti che tenevo in mano, ma una numerosa comitiva seduta dietro di me mi disturbava con il suo chiacchiericcio continuo. Mi sono girata per dire loro di smetterla ed è stato allora che l’ho visto per la prima volta. Mi ha colpito subito.
Francesco era sicuramente bello. Aveva un viso pulito, due grandi occhi azzurri, ombrati da ciglia folte e scure ed un magnifico sorriso sicuro di sé. Il fervore carismatico dei suoi discorsi destava l?

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   7 commenti     di: Elisa Tronci



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