Lo scrittore americano Mark Twain amava ripetere spesso:
"Truth is stranger than fiction, but it is because Fiction is obliged to stick to possibilities; truth isn't.
La realtà è più strana della finzione letteraria, ma questo avviene perchè la Fiction deve attenersi a un ordine di possibilità, dato dall'intreccio, al quale la realtà non deve sottostare."
Recentemente la corte distrettuale di Manhattan, dopo dodici giorni di udienze, ha messo sotto processo il poliziotto Gilberto Valle, 28 anni, imputato di aver accumulato in un file sul suo computer, foto e indirizzi di cento donne, progettando rapimenti per ucciderle e mangiarle con raffinate ricette.
Lo scorso settembre l'uomo è stato scoperto dalla moglie Kathleen Morgan che lo ha denunciato all'Fbi. Lei e alcune sue amiche erano nella folle lista cannibalesca del marito.
A convincere i giurati a trattenere l'uomo in carcere (il 19 giugno sarà emessa la sentenza definitiva e il poliziotto rischia l'ergastolo) sono state le prove portare in aula: le telefonate fatte dall'uomo per raccogliere informazioni sulle generalità e gli indirizzi delle sue potenziali vittime e in particolare i suoi deliranti commenti a queste informazioni scelte:
"Questa mi sembra facile da rapire, vive da sola. Pensavo di cucinarla a fuoco lento"
Ma di fatto Gilberto Valle non ha commesso praticamente alcun crimine.
E in America impazza il dibattito: un uomo può essere condannato a vita per le sue intenzioni, le sue fantasie e i suoi pensieri?
"Hannibal Lecter: Prima regola Clarice: semplicità. Leggi Marco Aurelio, di ogni singola cosa chiedi che cos'è in sè, qual è la sua natura. Che cosa fa quest'uomo che cerchi?
Clarice Starling: Uccide le donne.
Hannibal Lecter: No, questo è accidentale. Qul è la prima, la principale cosa che fa? Uccidendo che bisogni soddisfa?
Clarice Starling: Rabbia... Essere accettato socialmente... Frustazione sessuale signore...
Hannibal Lecter: No. Desidera. Questo è nella
Ponza all’epoca dell’imperatore Tiberio
La piccola nave oneraria ha appena lasciato il porto di Ostia per dirigersi verso l’isola di Ponza.
Heraclides, il gubernator (capitano/timoniere), di origine greca e con una grande esperienza alle spalle, dopo aver impartito gli ordini a Rufinus il pansarius (secondo e nostromo) per raggiungere il mare aperto, sale a prua per valutare lo stato del mare e “fiutare” il vento.
“Il mare è calmo ed il vento, anche se debole, soffia a nostro favore, se tutto procede così arriveremo a Ponza all’ora undecima!”
“Sì è così, Heraclides.” Conferma soddisfatto Rufinus.
“Hai controllato bene la zavorra, Rufinus?” Gli dice con tono di comando, anche se conosce bene le qualità del suo nostromo, ma gli piace ribadire, anche nei compiti abituali, la sua prerogativa di comandante della nave.
“Sì, la zavorra è ben distribuita e salda allo scafo.”
“Bene, bravo!” Gli risponde con sussiego.
Dopo tanti anni di mare e di esperienza anche sulle naves longae sulle quali ha combattuto in diverse battaglie, vuol dimostrare che solo l’età e la famiglia cui deve provvedere l’hanno indotto a comandare navi mercantili, ma che l’autorità e la professionalità non sono mutate.
Spesso, durante le navigazioni lunghe e le bonacce, si compiace di raccontare ai suoi marinai le sue “gesta” d’intrepido guerriero del mare, anche se loro, ormai, conoscono quasi a memoria tutti i fatti narrati e lo sopportano perché, in fondo, è un brav’uomo ed un ottimo marinaio e navigare con lui, li fa sentire più sicuri che con altri comandanti.
Grazie al suo carattere ed alle sue conoscenze, riesce sempre a trovare dei buoni clienti che si affidano a lui e difficilmente stanno lungo tempo senza un ingaggio.
“Anche questa volta torniamo a Ponza capitano!”
“Sì, andiamo a caricare alcune derrate alimentari ed anche questa volta un bel numero di murene, con la differenza, però, che il nostro committent
Finalmente tirai un sospiro di sollievo, alla fine di quella che, nata come una ricerca storica, si era trasformata in una indagine informale su un episodio affondato negli anni quaranta.
I Fili pendenti
La storia narrata a Castagnana l'avevo sentita molti anni prima. Era una classica storia del dopoguerra nella quale si rievocava al storia di Foscardo Foschi che aveva preso a fucilate un sidecar tedesco e fu ucciso nello scontro che ne seguì.
A lui era intitolata la scuola elementare del paese, costruita nell'epoca del boom demografico degli anni sessanta che era arrivato anche da queste parti ed adesso, in suo omaggio, volevano aggiungere al nome del paese il suo dando luogo al paese di Castagnana Foschi, frazione di Regneta.
Negli anni la storia che narravano era sempre la stessa, l'avevo sentita raccontare molte volte ed era rimasta intatta, quasi congelata e breve, molto breve.
Su incarico del comune, retto ormai da persone che avevano anche loro sentito la storia solo di seconda mano, mi recai sul posto per raccogliere un po' di materiale utile per poter istruire la pratica di intitolazione della frazione, un incarico quasi da volontariato da far fare ad un esterno, che pur aveva frequentato i luoghi, per non dare l'impressione di cantarsela e suonarsela da soli.
La cosa che mi aveva stupito della storia, uno di quei fili pendenti era l'assenza di particolari, sempre. Non c'era mai nessuno che avesse avuto il vezzo di parlare del Foschi al di la dell'episodio che lo faceva entrare nella storia. Cominciai da quello.
I Foschi erano una famiglia che si era insediata a Castagnana proveniente dalla città, avevano al tempo non pochi agganci con il potere locale. Non che fossero convinti fascisti della prima ora ma si adattavano al meglio specie perchè il piccolo comune non era così in vista da suscitare richieste di schieramento. Un po' tutti si barcamenavano senza troppo esporsi. Nell'ultimo periodo poi questo clima era ancor più evidente e loro
Il Sottotenente Gregorio De Mattia, quel mattino si svegliò nella sua tenda da campo incredibilmente riposato e disteso.
Egli stesso ne fu sorpreso dato che quando si era coricato la sera prima, stanchissimo, la sua mente era colma di pensieri cupi, dolorosi e ancorché fumosi.
Pensieri che tornarono ben presto al posto che avevano lasciato, ma apparivano più chiari e forse più angoscianti.
La sua prima considerazione fu comunque: - Assurdo svegliarsi così bene il giorno della propria morte…-
Questa era in sintesi l’origine della sua angoscia della giornata precedente. L’indomani sarebbe stato quasi certamente l’ultimo giorno della sua giovane vita.
Quel giorno era stato di quelli che non si possono dimenticare, e non ne aveva avuti altri di simili dall’inizio della guerra, e forse nella sua esistenza.
Le atrocità che ogni giorno si perpetravano in quella orribile guerra, di cui aveva viva testimonianza attraverso i bollettini giornalieri e che si raccontavano fra le truppe al fronte e nelle retrovie, le tremende sconfitte e le sanguinose battaglie piccole e grandi combattute quotidianamente da mesi e mesi, avevano inspiegabilmente risparmiato Gregorio De Mattia e i suoi uomini. Ma questa situazione di immeritato privilegio stava inesorabilmente per finire.
Si lavò e si fece la barba accuratamente come se dovesse recarsi ad un importane appuntamento e indossò la divisa con una strana solennità.
Era una giornata tersa come la precedente e più tardi avrebbe fatto quasi caldo. Era un aprile veramente mite, almeno a dar retta a quanto dicevano i suoi uomini di quelle parti che avevano, al contrario di lui, esperienza di vita di montagna.
Per lui il Monte San Saverio, la cima Vergola, l’altopiano del Luc, i pratoni di S. Biagio non significavano assolutamente nulla fino a quando erano entrati a far parte del suo panorama abituale delle ultime settimane apprestandosi a diventare purtroppo teatro della sua morte.
Oltre a lui,
Da qualche giorno è arrivato il gelo, in laguna: un vero freddo mordente, giusto per il cuore dell'inverno. La gente non è più abituata al rigore, riscaldata come è negli appartamenti e negli uffici. La mattina presto vedo persone osservare preoccupate, dai vetri dell'autobus, il leggero velo di ghiaccio che vetrifica qualche punto dello specchio lagunare, là dove l'acqua è meno profonda. Ma è certo che entro mezzogiorno tutto si scioglierà e che i gabbiani stupefatti smetteranno di pattinare. In città i ponti vengono cosparsi di sale grosso per impedire ai passanti di scivolare sui gradini e pure i gondolieri, a colpi di ramazza, nettano con il sale la poppa nera delle gondole per non rischiare di cadere in acqua mentre remano.
Forse è notizia poco nota, ma l'ultimo vero grande freddo in laguna si verificò nell'inverno del 1963, anno in cui la temperatura scese, eccezionalmente, a tredici gradi sotto zero.
Nei secoli passati la Storia attesta che il 1700 sia stato un secolo di forte gelo e che siano apparse grandi gelate nella laguna veneziana; certamente la popolazione affrontava l'evento con maggiori mezzi di sopportazione e minori, quanto a conforto, rispetto ad oggi. Si pensi solo al fatto che, tra il popolo, le donne si coprivano quasi esclusivamente con grandi scialli di lana grossa, fino al capo e gli uomini con corte mantelle e giacchette. Il tepore del tabarro non era alla portata di tutti.
Di queste gelate c'è memoria per quella avvenuta nell'inverno 1788, tanto che quell'annata passò alla Storia come " l'anno del giàsso", immortalato in una bella tela che può ancora ammirarsi a Ca' Rezzonico e che raffigura i Veneziani , con sciarpe e cappelli, camminare e scivolare sul ghiaccio spesso, attraversando il canale di Cannaregio verso la laguna aperta che pare pavimentata e tirata a cera. Egualmente minuziosa è la incisione del Battaglioli-Viero che si trova al Museo Correr e che raffigur
PREMESSA: Il conte di Bothley è stato processato e assolto per l'assassinio del marito di Maria Stuart, regina di Scozia. Il racconto si svolge all'incirca un anno dopo l'assassinio.
L'elegante carrozza reale, quel caldo mattino di fine aprile, stava percorrendo la strada che dal castello di Stirling portava a Edimburgo, sede della corte reale. La regina Maria, scortata dal suo numeroso seguito e al sicuro all'interno della carrozza, stava cercando inutilmente di prendere sonno, dopo che per l'intera notte non era riuscita a chiudere occhio. C'erano molte cose che la preoccupavano, come donna e come regina.
La sovrana era di ritorno da una breve visita al figlioletto Giacomo di appena un anno, e per quanto cercasse di recarsi dal piccolo più spesso che poteva, separarsi da lui per fare ritorno a Edimburgo le causava ogni volta una dolorosa fitta al cuore. Anche ora, accasciata sui sedili di pelle dell'ampia e vuota carrozza, Maria avrebbe voluto avere tra le braccia il suo piccolo principe, che le riempiva il volto di umidi e teneri baci, e le stringeva intorno al collo le braccine con tutta la forza di cui era capace.
Ma non era solo quello ad affliggere il suo giovane cuore. Suo marito, Lord Darnley, era morto da poco, assassinato nella sua residenza, e la maggior parte dei nobili del regno era incline a credere che lei stessa fosse implicata nell'omicidio. Poco dopo la morte di Darnley, i familiari del suo defunto marito avevano chiesto al Consiglio Segreto di iniziare un procedimento contro uno dei nobili cortigiani più vicini alla regina, il conte di Bothley. L'uomo era stato assolto, e ciò non aveva fatto altro che accrescere il malcontento e l'impopolarità di Maria tra i nobili di corte.
Nella quasi minacciosa tranquillità della campagna che stava attraversando, la regina fu distolta all'improvviso dalle sue riflessioni da uno scalpitare di zoccoli, che si faceva sempre più vicino. Maria rimase in attesa e tese l'orecchio. Un gruppo di uomini a
Pompei, anno 79 d. c.
Ante diem undecimum kalendas septenbres (22 agosto)
Nella casa, situata vicino alla porta vesuviana, il sole cominciava ad illuminare le stanze dove dormivano Lucrezia, il marito Marco e Gaio, il loro figlio di nove anni.
L’abitazione, pur nella sua modestia ed essenzialità, mostrava i segni, nell’arredo e nelle sue dotazioni, di una condizione di benessere superiore alla media degli abitanti di Pompei, dediti alle attività commerciali ed artigianali. Costoro erano quasi tutti liberti, ex schiavi affrancati ed ex militari delle legioni romane, come Marco e costituivano il nerbo della fiorente economia della cittadina, risorta dopo il terremoto dell’anno 62.
La casa disponeva anche di un piccolo giardino, nella parte posteriore, dove razzolavano alcune galline.
Questa condizione di “benessere” derivava dall’occupazione di Marco, che, per le sue qualità umane e contabili, era divenuto l’amministratore di fiducia di Lucio Olconio, uno dei magistrati di Pompei e uno degli uomini più ricchi della città. Egli possedeva una delle più belle case della città, una villa ad Ercolano ed una grande proprietà nell’agro sarnese, dove si produceva un po’ di tutto, dal frumento, alla frutta, dall’uva agli ortaggi. Tanta ricchezza, ovviamente, non proveniva solo dalla famiglia d’appartenenza, ma anche dalla spregiudicatezza tipica degli amministratori, che non andavano molto per il sottile, nel procurarsi dei congrui profitti personali nell’occuparsi della cosa pubblica. Tali proventi illeciti erano poi gestiti per speculare sugli immobili della rinascente Pompei, nella costruzione di terme ed in qualche attività ludica a beneficio del popolo, per acquisirne la stima e…i voti alle elezioni.
Marco, che conosceva bene tutto ciò, faceva con zelo e dedizione il suo lavoro, non curandosi delle faccende politiche, più che soddisfatto del salario e delle ricompense che, spesso, Lucio Olconio, con munificenza gl
La pagina riporta i titoli delle opere presenti nella categoria Racconto storico.