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Racconti storici

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Trincea

Sono a 1km dalla città, dentro un blindato e con il mio fidato fucile a telescopio. Miro alla testa di uno di quei bastardi. Impazzisco quando ne vedo uno saltare per aria grazie ad una mia pallottola bene aggiustata.
Quei maledetti si nascondono ovunque. Sotto lamine di ferro, dietro le finestre, dentro le macchine o addirittura dietro ai compagni uccisi. Ma io non mi faccio scrupoli! Sparo, ricarico, aggiusto la mira e sparo di nuovo. Quando vedo il sangue schizzare ovunque un’emozione intensa mi pervade, mi rapisce, quasi a prendere il pieno controllo di me, e mi spinge a ricaricare, mirare e sparare.
Un giorno il tenente colonnello Linden osservò a lungo questa mia attività. Non so quanto rimase dietro di me, so solo che quando lo vidi risi e gli comunicai di averne impiombati 10 in mezz’ora. Lui mi guardò, prese il fucile e senza dire una parola se ne andò.
Io rimasi in piedi, a piangere e poi mi intontii e guardai verso il vuoto.
Tutto era cominciato due giorni fa, quando ricevetti una lettera da casa dove mi si comunicava che mia moglie, mia figlia e mio nonno erano stati uccisi durante un bombardamento. Prima che i miei compagni potessero fermarmi presi la mia rivoltella e sparai al crocifisso di legno e al quadro della madonna appesi al muro. E poi bevvi, come non avevo mai bevuto in vita mia. Per due giorni mi drogai di alchool. Cominciavo a bere appena alzato e finivo a tarda sera.
E continuai fino a quando i miei compagni non mi presero di forza e mi buttarono nell’abbeveratoio. Lentamente le idee mi si schiarirono in testa.
Divenni cacciatore di uomini, rabbioso e leggermente pazzo, nonostante la lucidità della mia visione. Passavo ore in trincea con il mio fucile e abbattevo ogni soldato nemico che mi trovavo davanti.
Continuai per svariate settimane!
Ricordo ancora quel giorno in cui mi stavano riempiendo la gavetta di un brodo di vecchia mucca bollita, quando sentii uno schiocco e qualcosa mi colpì la gamba con una fitta di fu

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   4 commenti     di: Alberto Amedeo


La vendetta di Artemide

Il cielo stava ormai volgendo all'imbrunire. Nella valle regnava un silenzio quasi irreale, e la natura era talmente immobile che pareva in attesa. Artemide stava per raccogliere le proprie armi e andarsene; si era già caricata la faretra in spalla e fece per alzarsi e rivelare la propria presenza alla natura circostante, quando le parve di udire qualcosa muoversi tra gli alberi. Si immobilizzò dietro al cespuglio di more che aveva scelto come nascondiglio, e rimase in ascolto. Poco dopo, ciò che si era mosso si palesò in tutto il suo splendore nell'ampia prateria davanti a lei, e Artemide non credette ai propri occhi. Si trovava di fronte un magnifico esemplare di unicorno, dal manto immacolato, che si muoveva circospetto, quasi avesse sentore della sua presenza.
Artemide impugnò l'arco e sfilò cauta una freccia dalla faretra, posizionandola sull'arma. Poi puntò il dardo contro la creatura, che ora si era fermata al centro della radura, proprio di fronte a lei. Artemide quasi non credeva alla propria fortuna; stava per scoccare la freccia, segnando irrevocabilmente la sorte del malcapitato esemplare, quando qualcosa le si parò dinnanzi, facendo improvvisamente capolino da dietro il cespuglio e facendola sobbalzare. Artemide riconobbe subito la creatura femminile che le era comparsa davanti, una ninfa bellissima, con un vestito di panno bianco e i lunghi capelli biondi, e che stava tentando di spaventarla mostrandole il proprio angelico viso trasfigurato e deformato in un modo inusuale, con gli enormi occhi sporgenti e le fauci spalancate. Ma lei non si sarebbe fatta sorprendere: lei, Artemide, l'intrepida dea della caccia, spaventarsi di fronte ad una ninfa dei boschi?
“Chi credi di spaventare? ” le domandò infatti, con il tono più sprezzante che le riuscì.
La ninfa si dileguò in fretta così com'era venuta, e quando Artemide tornò a guardare verso la radura, anche l'unicorno era sparito. “Maledizione! ” si lasciò sfuggire.
Solo allora co

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1989, opinioni

Il piccolo ha fame, ha freddo, piagnucola. Hanna si tiene al braccio libero, con l’altro tengo il piccolo. Siamo qua, tutti e tre, davanti a poit Charlie che aspettiamo di passare. C’è tanta gente.
Dicono che possiamo passare. Chi lo dice? L’hanno detto alla radio. Cosa hanno detto? Che aprono i posti di blocco. Quando? Sono già aperti. Scherzi? No.
Avevo lasciato la birra a metà ed ero corso a casa. Hanna stava preparando la cena, Klaus giocava.
Hanno detto che aprono i posti di blocco… che sono già aperti. Hanna mi guardava come si guarda un pazzo. Vestilo, indicavo Klaus, andiamo.
Voglio andare a casa. No Klaus, dobbiamo andare di là. Ho fame. Resisti. Ho freddo. Resisti. Cosa c’è di là? La libertà. Che cos’è la libertà? Avere fame e avere freddo se ne hai voglia.
Klaus mi guardava poco convinto.
Klaus, oggi siamo un pezzo di storia, non possiamo stare a casa, non possiamo stare al caldo, dobbiamo andare e vedere. Dobbiamo scegliere di avere fame e freddo e di stare qui in piedi, in questa notte fredda.
Klaus? Dimmi. Ti ricordi la sera che cadde il muro? Si. Com’è stata? Fredda, la gente applaudiva quando passammo e mio padre piangeva e rideva, libero, tra i palazzi grigi e la notte.

-Eccole la, le formiche impazzite-
Aveva sentito alla radio che aprivano i posti di blocco, si era versato un cognac. Ora se ne stava alla finestra e guardava tutta quella confusione di gente che passava sotto la sua finestra verso il maledettissimo Ceckpoint Charlie. Erano passate due ore dalla comunicazione e tutti correvano a vedere. Portò la bottiglia di cognac alle labbra. Era nell’aria, certo, era nell’aria. Si sentiva che qualcosa scricchiolava, prima i bastardi Ungheresi, e adesso guarda… Cambierà tutto, maledetti bastardi, farete cambiare tutto.
La moglie lo guardava nascosta dietro la porta della cucina. Non l’aveva mai visto bere così, solo.
State distruggendo tutto, maledette formiche impazzite, tutto il mio mondo.
La s

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   9 commenti     di: Umberto Briacco


Antorcha hija del diablo y el inquisidor cap 2

Cap 2 seconda ora

Dopo poche settimane mi ritrovai, assistito da un drappello di armigeri reali al mio servizio, e coadiuvato da due giovani monaci, ad istituire il mio primo Autodafè ; espletati i riti pregiudiziali, accolte le confessioni spontanee dei convertiti, ascoltate le denunce dei prelati e dei cittadini testimoni, riuscii a “condannare” con pene veramente “blande” un ridottissimo numero di “non-pentiti”, e comunque non andai oltre la fustigazione e la gogna, esterrefatto da queste procedure che sembravano indurre al piacere i “colleghi” inquisitori che operavano in città e borgate limitrofe.
E così, lasciavo trascorrere i miei giorni, la sera, nell’alloggio destinatomi, tiravo fuori dal mio baule le carte dei miei studi, e, rinchiuso fra il mio cervello il mio cuore e quelle fonti di sapienza, chiedevo perdono all’umanità per il mio ossequioso comportarmi.
Tutto, quindi, rinchiuso in un cerchio; dare ai miei “superiori” l’immagine di un coscienzioso lavoro di pulitura della fede, dare ai miei armigeri ed ai miei assistenti, l’idea che la giustizia non necessita necessariamente della violenza estrema, dare a quei cittadini spauriti e invasati dalla presenza del “Male”, l’illusione che la presenza dell’inviato vaticano, avrebbe pulito e immunizzato le loro terre e le loro genti.
Poi, però, un giorno, mi fu condotta, quasi facendola strisciare per terra, una donna, scarmigliata, sporca, le vesti in più punti stracciate, con profondi graffi sulle mani, sulle braccia, sulle ginocchia e gambe e piedi, un vero spettacolo di ribrezzo, tracce evidenti di urina e feci sulle vesti e sulle gambe…. eppure, quando alzati gli occhi da terra, senza un lamento, senza un urlo, senza un’ingiuria o una maledizione, li ha diretti nei miei… ebbi un colpo, un brivido misto di sorpresa e delusione, nonostante lo stato aberrante nel quale versava, questa donna aveva negli occhi una espressione fiera, di dignità mai scalfita.

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   2 commenti     di: luigi deluca


Marianna de Leyva

Desiderato amore mio,
ho ancora il cuore in tumulto. Lo sento battere all'impazzata, così veloce da togliermi il fiato, così forte da rimbombarmi nelle orecchie. Le mani tremano e faccio fatica anche a scrivere, ma devo fissare sulla carta ciò che provo prima che possa dimenticare anche solo una briciola di questa smania.
Di fronte agli occhi ho quel muro che tante volte ho maledetto ed odiato perché mi separava dal mondo, e che ora benedico perché il mio mondo è tutto qui dentro, tra lo stormire degli alberi, l'odore degli agrumi ed il cinguettio degli uccelli. Oggi piove, ma mi è bastato intravedere il tuo viso oltre quel muro per sentire la vampata del sole di agosto.
Come devo sembrarti puerile, quanto infantili ti parranno le mie parole, ma io non so parlare di quell'amore che mi hanno insegnato a temere, e che invece è la più dolce delle torture.
Credevano che rinchiudendomi qua dentro io avrei dimenticato di esistere, ed è invece proprio in questo luogo che, grazie a te, ho iniziato a vivere. E tutta questa vita mi ubriaca, mi stordisce, mi dà la certezza di essere un gradino più in alto della meschinità di coloro che volevano dimenticassi persino il mio nome.
Ma io esisto, vivo, amo.
Da quando il tuo sguardo si è posato su di me sento la vita scorrere impetuosa sotto questo abito creato per mortificare, sotto questo saio che per troppo tempo ho vissuto come una prigione, come l'emblema del mio non esistere. Ed ora non la smetto di accarezzare la stoffa ruvida, il copricapo ed il soggolo soffocante, perché sono loro a preservare il mio corpo per te solo, ad impedire che le mie azioni quotidiane possano sporcare la mia pelle che da te solo vuole e deve essere sfiorata.
Se solo sapessero che mai come ora amo quel Dio che mi hanno imposto! Se solo immaginassero quanta gioia metto nel cantare la Sua gloria, proprio ora che ai loro occhi mi sono macchiata del più impudico dei peccati!
Quella fede che non ho mai avuto, quel Dio che altr

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   4 commenti     di: Simona Durante


Idi

Quando entrai i Senatori erano già pronti.
Sotto le toghe le dita fremevano d'impazienza, stringendo l'elsa dei pugnali.
Ma io non capii
Non vidi i loro ghigni, simili ai musi di bestie brute.
Forse fu la superbia ad accecarmi, oppure la stessa Ate greca che toccò gli eroi di Ilio.
Mi credevo immortale, un Dio!
Ero una creatura celeste che si librava in volo, sopra le teste della plebaglia puzzolente.
Ero un conquistatore, un generale, un dittatore!
Ero Gaio Giulio Cesare.
Ma la mia invulnerabilità permise a quelle ventitre pugnalate di squarciarmi il petto
Neri, rossi, infuocati dalla bramosia di sangue e dall'odio erano gli occhi dei senatori.
Inebriati dal purpureo sangue.
Mi guardavano come le fiere guardano una preda.
Ma io ero Cesare!
Avevo conquistato le Gallie; ero sopravvissuto alle lunghe lame dei Germani.
Non potevo morire là, come un maiale da macello, accanto a Pompeo di pietra.
Mai un Giulio sarebbe potuto morire accanto a un codardo dei Pompei, mai!
Mi difesi e quei vigliacchi indietreggiavano.
Ancora una volta il grande generale riportava una vittoria a Roma!
Vidi gli occhi di Cassio brillare di paura e la mano di Casca tremare timorosa.
Scoppiai a ridere.
Quei "bambini" non potevano nulla contro di me!
Contro il grande Cesare

Poi lo vidi.
Lo vidi e veniva verso di me.
La mano alzata con la daga stretta in pugno.
I suoi occhi, uguali a quelli della madre, come arenaria mi scrutavano impassibili.
Scivolavano sulle mie ferite, indugiavano sulla toga macchiata.
Tesi le braccia.
Ma lui non si buttò nel mio abbraccio.
Non era più un bambino
Il mio bambino
La lama mi penetrò le carni, lacerò il tessuto.
Non gemetti.
Non piansi.
Lo guardai.
Il grande Cesare stava morendo
E la lama che mi aveva ferito era stata impugnata dalla stessa mano che prima aveva accarezzato le mie guance
-Anche tu, Bruto?-
La risposta arrivò, un'ultima pugnalata al petto.
Il grande Cesare era morto

E quel giorno, Bruto, mo

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   1 commenti     di: Giulia Brugnoli


Diario di un medico

Questa mattina ho visto l'alba, il sorgere del sole. È stato bello poter vedere nascere la luce, dopo una notte insonne, una notte in cui i miei pensieri hanno sopraffatto la mia mente, tanto da non lasciarmi chiudere occhio; perciò al primo sorgere dell'alba mi sono alzato e sono andato in giardino, qui in questa fattoria di campagna a quattro miglia da Roma. L'aria era fresca, il sole sorgeva alzandosi dalle colline, tutto lentamente acquistava contorni fissi; e l'angoscia del mio animo si allentava un po' nel vedere quello spettacolo, ma subito dopo, al volgere dei pensieri, ritornava come prima e le funeste immagini del giorno innanzi restavano fisse e immobili nella mia mente. La notte non aveva portato consiglio, non aveva cambiato nulla.
Ho sentito più volte il canto del gallo, ed è stato funesto per me: mi rammentava il continuo correre del tempo, un passo in più verso la morte, quella morte che il Maestro mi diceva sempre di non temere. Sono uscito nel cortile alla prima luce e ho guardato verso le colline, dalla parte opposta al sole nascente; e tra gli alberi e i cespugli ho visto una massa muoversi lentamente, come a scatti. Era un cervo, un cervo che camminava lento, con tre zampe, zoppicando; forse era caduto in un dirupo e si era rotto una zampa, oppure erano stati i cacciatori a ferirlo in quella maniera. Mi ha fatto compassione, e mi è venuto in mente l'idea di curarlo e di farlo tornare alla sua primitiva, naturale agilità. Mi sono detto: "Non sono forse un medico, io? Non ho forse curato per tanti anni gli uomini con buon successo? Anche il Maestro, quando gli davo consigli sulla sua salute, mi ringraziava spesso. E quindi non saprei io curare un animale che, se non possiede la parte ignea e divina che si trova nell'uomo, ha pur sempre un corpo costituito da os-sa e da carne come il nostro?" Ma di questi pensieri mi sono ben presto meravigliato, giacché ho constatato che sarebbe considerata cosa assai bizzarra preoccuparsi di una bestia,

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   0 commenti     di: Max Ruber



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